Per gli incarichi di docenza a tempo definito non trova applicazione il divieto di svolgimento cumulativo di attività professionale. Tale divieto, tuttavia, opera in relazione all’attività d’impresa, ai sensi della previsione di carattere generale ex art. 60 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e, con riferimento specifico all’attività di docente universitario a tempo definito, ai sensi degli artt. 11 d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382 e1 d.l. 2 marzo 1987, n. 57. Tale interdizione trova ragione, oltre che nel carattere esclusivo dell’attività del pubblico dipendente, nell’esigenza di evitare conflitti d’interesse in cui può venire a trovarsi il docente universitario che svolga appunto un’attività industriale o commerciale.Il comportamento semplicemente omissivo del debitore ha efficacia sospensiva della prescrizione se abbia ad oggetto un atto dovuto, cioè un atto cui il debitore sia tenuto per legge cosicché, essendo indubitabile che sul docente incombesse l’obbligo giuridico di comunicare all’università di appartenenza lo svolgimento di un’attività potenzialmente incompatibile con i propri incarichi, l’avere omesso volontariamente tale comunicazione integra il requisito dell’occultamento doloso. Pertanto, ai sensi dell’art. 2941, n. 8, c.c., la prescrizione rimane sospesa tra il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia scoperto.Il danno erariale non può desumersi semplicemente dalla mera violazione di legge, ma va ragguagliato all’effettivo pregiudizio subito dall’università per effetto dello svolgimento di un’attività incompatibile e della violazione del carattere esclusivo del rapporto d’impiego, oltre che alla sottrazione di energie lavorative all’attività di docente. Sotto quest’ultimo aspetto, vanno tenute in considerazione circostanze quali la mancanza di ripercussioni negative dello svolgimento delle attività incompatibili sul rendimento in servizio e sui risultati accademici ottenuti dal docente, tenendo altresì conto che si trattava di docenza a tempo parziale. Va respinta, tuttavia, la tesi della totale assenza di danno erariale, poiché sussiste di per sé un pregiudizio patrimoniale derivante dallo svolgimento dell’attività ritenuta dal legislatore incompatibile e dalla mancata informazione dell’amministrazione di appartenenza, alla quale si è impedito di controllare la sussistenza di situazioni di conflitto d’interesse nelle attività private svolte dal docente.
Corte dei conti, sez. III, 17 gennaio 2017, n. 26
Docenti a tempo definito – Incompatibilità – Autorizzazione – Danno erariale – Occultamento doloso
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
TERZA SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE
D’APPELLO
composta dai seguenti magistrati:
dott. [#OMISSIS#] Canale [#OMISSIS#]
dott. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] Consigliere
dott.ssa [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] Consigliere relatore
dott.ssa [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] Consigliere
dott. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sull’appello in materia di responsabilità amministrativa, iscritto al n. 48553 del Registro di Segreteria, proposto da [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], rappresentato e difeso dagli avv.ti [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] Travi e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] con domicilio eletto presso lo studio di quest’[#OMISSIS#] in Roma, via del Viminale n.43
AVVERSO
la sentenza della Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per l’[#OMISSIS#] Romagna n. 137/2014 depositata in data 29 settembre 2014;
Visti gli atti di appello e tutti gli altri atti e documenti di causa.
Uditi [#OMISSIS#] pubblica udienza del giorno 7 dicembre 2016, con l’assistenza della segretaria sig.ra [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], il relatore, dr.ssa [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], l’Avv. [#OMISSIS#] Travi, per l’appellante nonché per la Procura generale, il Vice Procuratore generale, dott. Antongiulio [#OMISSIS#].
Ritenuto in
FATTO
Con la sentenza n. 137, depositata il 29 settembre 2014, la Sezione giurisdizionale per l’[#OMISSIS#] Romagna in accoglimento delle richieste della Procura Regionale condannava l’odierno appellante, [#OMISSIS#] sua qualità di ricercatore confermato al pagamento, in favore dell’Alma Mater Studiorum- Università di [#OMISSIS#], della somma complessiva di € 1.179.125,10, oltre a rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giudizio.
Il predetto era stato ritenuto responsabile per avere svolto numerosi incarichi di amministratore di società per azioni, senza alcuna autorizzazione da parte dell’ Università e in spregio del divieto di cumulo tra rapporto di lavoro pubblico ed esercizio di attività d’impresa, ed in violazione delle disposizioni generali e delle disposizioni specifiche inerenti ai doveri di servizio gravanti sui docenti universitari. Il danno era stato determinato in misura pari ai compensi e [#OMISSIS#] emolumenti percepiti nell’esercizio di cariche sociali presso la NIER Ingegneria.
Avverso la predetta sentenza proponeva appello il [#OMISSIS#] formulando diversi motivi di doglianza.
In particolare, nel gravame veniva eccepita, innanzitutto, l’insussistenza dell’illiceità del comportamento, poiché il divieto di svolgimento di attività professionale non riguardava i docenti a tempo definito (comma 6 dell’articolo 53 del d. lg. n. 165 del 2001), quale era appunto l’appellante all’epoca dei fatti. Erano inoltre dedotti:
-erroneità del criterio di determinazione del danno basato sull’obbligo di versamento degli emolumenti percepiti all’amministrazione di appartenenza, non sussistendo tale obbligo in [#OMISSIS#] di incarichi di docenza a tempo definito, a [#OMISSIS#] dell’articolo 53, del d. lg. n. 165/2001, ed avendo la stessa sentenza impugnata escluso che [#OMISSIS#] fattispecie si trattasse di incarichi professionali soggetti ad autorizzazione;
-assenza di colpa grave alla luce delle specifiche verifiche svolte a suo tempo dalla stessa Università di appartenenza e dell’affidamento conseguente;
-erroneità della sentenza in assenza di danno erariale dal momento che non sarebbe stato ravvisabile alcun pregiudizio economico arrecato all’ Università di appartenenza;
-erroneità e ingiustizia della sentenza [#OMISSIS#] parte in cui aveva commisurato il danno erariale all’importo percepito per le cariche societarie rivestite. In [#OMISSIS#], un ipotetico danno erariale non avrebbe potuto determinarsi, tanto meno a titolo equitativo, in misura pari all’importo percepito dall’appellante per le sue attività extra-universitarie;
-in ogni [#OMISSIS#], se anche fosse stata configurabile una responsabilità per danno erariale, l’obbligazione risarcitoria avrebbe dovuto essere considerata prescritta per l’asserito danno maturato prima dell’ottobre 2008 o, a tutto concedere, per l’asserito danno maturato prima dell’aprile 2008. Ed infatti, nel [#OMISSIS#] di specie, non sarebbe stato configurabile alcun occultamento doloso dei fatti da parte dell’appellante;
-erroneità della sentenza sotto diversi [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] parte in cui aveva affermato la sussistenza del danno, in ogni [#OMISSIS#] erronea sua quantificazione. Ed invero, il conteggio accolto [#OMISSIS#] sentenza di primo grado risultava erroneo in quanto aveva incluso [#OMISSIS#] e contributi previdenziali. Mancato esercizio del potere riduttivo.
Alla luce delle censure richiamate, l’appellante riteneva che la conferma del sequestro conservativo fosse illegittima e che l’accoglimento del gravame comportava la riforma della sentenza anche per il capo relativo alle spese processuali.
Con memoria conclusionale depositata in data 2 agosto 2016 la Procura generale, dopo avere richiamato i fatti di causa nonché la normativa applicabile al [#OMISSIS#] di specie, ritenuto provato l’elemento soggettivo, rimetteva al Collegio la determinazione del “quantum” ex art. 1226 c.c.. Chiedeva, pertanto, che l’appello fosse respinto, [#OMISSIS#] diversa determinazione dell’addebito e delle disposizioni sulla prescrizione.
Parte appellante depositava memoria conclusionale in data 23 novembre 2016 [#OMISSIS#] quale richiamava sostanzialmente tutti i motivi di gravame.
All’odierna pubblica udienza, sentite le parti che si riportavano alle rispettive conclusioni in atti, la causa veniva trattenuta per la decisione.
Considerato in
DIRITTO
Con la sentenza impugnata la Sezione giurisdizionale per l’[#OMISSIS#] Romagna ha accolto la domanda di risarcimento del danno di parte attrice e, per l’effetto, ha condannato il convenuto, già ricercatore universitario presso la facoltà di Ingegneria, al pagamento – in favore dell’ Università di appartenenza – alla complessiva somma di € 1.179.125,10 oltre rivalutazione, interessi e spese di giustizia; e ciò in conseguenza dello svolgimento di numerosi incarichi di amministratore di società per azioni in spregio del divieto dell’esercizio di attività privata d’impresa in costanza di rapporto di lavoro pubblico. Il danno è stato determinato in misura pari ai compensi e [#OMISSIS#] emolumenti percepiti nell’esercizio delle cariche sociali ricoperte presso la NIER Ingegneria.
La sentenza è stata appellata dal soccombente che ha introdotto plurimi motivi di gravame, molti dei quali riproducono le difese già ampiamente eccepite in primo grado.
Per le ragioni che di seguito si espongono, i motivi d’appello sono infondati e, pertanto, non possono condurre alla invocata totale riforma della sentenza, se non in relazione alla dedotta errata quantificazione del danno da risarcire.
Osserva, innanzitutto, questo Collegio che è pacifico che l’appellante aveva un incarico di docenza a tempo definito e che per questo tipo di rapporto di lavoro non trova applicazione il divieto di svolgimento di attività professionale. La stessa sentenza di primo grado ha, tuttavia, fondato l’affermazione di responsabilità dell’appellante, qualificando i suoi incarichi di amministratore di una società non già come attività professionale, bensì come attività d’impresa, come tale sottoposta al divieto di carattere generale enunciato dall’art. 60 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, (per cui l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria né alcuna professione ….. ) e, con riferimento specifico all’attività svolta dall’appellante di docente universitario a tempo definito, al divieto di cui all’articolo art 11 del d.p.r. 11 luglio 1980 n. 382.
Al riguardo la sentenza impugnata ha elencato in dettaglio i numerosi incarichi svolti dall’appellante presso società di capitali e le partecipazioni come socio in alcune di esse, ed ha correttamente argomentato che non si trattava di attività riconducibile alla nozione di semplice attività professionale svolta in forma societaria, bensì di [#OMISSIS#] e propria attività d’impresa.
La pronuncia di condanna appare, pertanto, corretta poiché l’appellante, non avendo neanche chiesto alcuna autorizzazione all’ Università a svolgere le anzidette attività, è incorso nel divieto previsto, nei confronti del professore o del ricercatore da diverse disposizioni, tra cui l’art. 9, comma 6 Legge n.240 del 2010.
Si rileva, altresì, che il divieto di svolgimento da parte del docente universitario, anche se con rapporto di lavoro a tempo definito, del commercio e dell’industria, è espressamente previsto dal d.p.r. 11 luglio 1980 n. 382, art. 11, che stabilisce appunto che il rapporto di impiego a tempo definito è incompatibile con l’esercizio del commercio e dell’industria, nonché dall’art. 1 del d.l. 2 marzo 1987 n. 57, conv. dalla 1. 22 aprile 1987, n. 158. Esso trova ragione, come hanno correttamente argomentato i primi [#OMISSIS#], oltre che nel carattere esclusivo dell’attività del pubblico dipendente, nell’esigenza di evitare conflitti d’interesse in cui può venire a trovarsi il docente universitario che svolga appunto un’attività industriale o commerciale.
Dai documenti e dagli atti di causa concernenti lo stato giuridico ed economico del [#OMISSIS#] risulta pacifica la costituzione del rapporto di lavoro pubblico dal 1° agosto 1980 nel ruolo di ricercatori, con opzione per il regime di impiego a tempo definito con decorrenza dal 1° novembre 1987, con la qualifica di ricercatore fino al 31 ottobre 2010 e di professore associato dal 1° novembre 2010. Né risulta smentita la circostanza affermata nell’atto introduttivo del giudizio che [#OMISSIS#] tutto questo periodo il docente non ha mai chiesto alcuna autorizzazione allo svolgimento di incarichi di lavoro esterno all’ Università , né ha mai comunicato di propria iniziativa alcuna informazione sulle cariche sociali assunte presso le diverse società. Solo successivamente all’accesso della [#OMISSIS#] di Finanza presso l’ Università di [#OMISSIS#] l’odierno appellante richiedeva l’autorizzazione a svolgere l’incarico extra istituzionale presso la NIER Ingegneria S.p.a., autorizzazione che veniva concessa ma con prescrizioni e limitazioni a garanzia dell’imparzialità amministrativa e per la prevenzione del conflitto d’interessi.
Questo Collegio ritiene, altresì, infondati i motivi di doglianza con i quali si è contestata la sussistenza dell’elemento soggettivo. Infatti, nel [#OMISSIS#] in esame, la condotta illecita è consistita non in una semplice negligenza o imprudenza, ma [#OMISSIS#] violazione consapevole di norme regolanti lo stato giuridico del docente universitario, posta in essere con lo scopo di conseguire il vantaggio patrimoniale connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa vietata.
Quanto al rilievo dell’appellante circa la parziale prescrizione del diritto risarcitorio erariale, atteso che il semplice fatto dello svolgimento di attività incompatibile con il rapporto di pubblico impiego non implica di per sé l’occultamento doloso del danno, né tale doloso occultamento sembra potersi semplicemente desumere dalla circostanza che l’appellante non abbia informato l’ Università delle attività private svolte, ritiene il Collegio di dovere svolgere talune considerazioni richiamando, in proposito, precedenti di questa stessa Sezione.
Sotto il profilo della configurabilità in fattispecie di un’ipotesi di occultamento doloso del danno va in primo luogo ricordato che l’art. 1, comma 2, della legge 14 gennaio 1994 n. 20, nel testo sostituito dal decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito in legge 20 dicembre 1996, n. 639, stabilisce che il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni, “decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in [#OMISSIS#] di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”.
Secondo la giurisprudenza della Sezione II Centr. Appello (sentenze n. 641/2013 e n. 416/2013), che questo Collegio condivide a pieno, “l’art. 1 comma 2 L. 20/1994 non fa nessun riferimento ad un’attività di occultamento effettuata dal debitore, diversamente dall’analogo art. 2941 n. 8 cod. civ., secondo cui “La prescrizione rimane sospesa: (…) 8) tra il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia scoperto”. In altri termini, il “doloso occultamento” è una fattispecie rilevante non tanto soggettivamente (in relazione ad una condotta occultatrice del debitore), ma obiettivamente (in relazione all’impossibilità dell’amministrazione di conoscere il danno e quindi di azionarlo in giudizio ex art. 2935 c.c.).
Inoltre, ai sensi del medesimo art. 1 comma 2 L.20/1994, la prescrizione dell’azione risarcitoria decorre dalla ‘scoperta’ del danno, che va intesa come conoscenza delle componenti essenziali dal danno stesso: non [#OMISSIS#] sapere che esiste un danno, ma occorre che sia concretamente disvelato (sì da consentire l’esercizio dell’azione di responsabilità) con l’esercizio dell’azione penale o quanto meno con indagini precise (penali o extrapenali) che lo accertino e quantifichino, consentendo l’azione del P.M. contabile” (Sez. II Centr. Appello, sentenza n. 592/2014).
Anche la Suprema Corte ha affermato che il comportamento semplicemente omissivo del debitore ha efficacia sospensiva della prescrizione se abbia ad oggetto un atto dovuto, cioè un atto cui il debitore sia tenuto per legge (Sez. III, sent. n. 11348 dell’11.11.1998) – in termini pure Corte dei conti Sez. I^ centrale n. 124/2004 e Sez. Appello Reg. Siciliana n. 198/2012 – cosicchè, nel [#OMISSIS#], essendo indubitabile che sul convenuto incombesse l’obbligo giuridico di comunicare all’ Università di [#OMISSIS#] – dalla quale dipendeva – lo svolgimento di un’attività potenzialmente incompatibile, l’avere omesso volontariamente tale comunicazione integra il requisito dell’occultamento doloso.
Conseguentemente, come correttamente statuito dai primi [#OMISSIS#] “appare evidente che nessun dato era concretamente in possesso dell’amministrazione universitaria fino alla predetta richiesta di autorizzazione del novembre 2010 e che il [#OMISSIS#] aveva serbato un assoluto silenzio informativo rispetto all’Ateneo nel lungo periodo antecedente a tale istanza, confermato dal non aver mai reso edotto il proprio datore di lavoro delle cariche ricoperte, anche se, eventualmente a titolo informativo o dubitativo, nemmeno in occasione delle richieste ispettive rivoltegli dall’ Università nel 2006, con ciò rendendo non conoscibile da parte dell’ Università la situazione del convenuto, fino al dicembre 2010, data che, quindi, come indicato, deve considerarsi il [#OMISSIS#] iniziale di decorso della prescrizione, [#OMISSIS#] interrotto il 13 aprile 2013 con la notifica dell’invito a dedurre, assolutamente infra-quinquennale”.
Dal che discende la tempestività dell’azione risarcitoria intrapresa dal requirente contabile, con conseguente rigetto del motivo di appello (in termini Corte dei conti, Sez. III^ n. 345 e n. 514 2016).
Quanto ai motivi di doglianza relativi alla quantificazione del danno erariale ritiene il Collegio, contrariamente al “decisum” del primo [#OMISSIS#], che lo stesso non possa desumersi semplicemente dalla mera violazione di legge ma vada, invece, ragguagliato all’effettivo pregiudizio subito dall’ Università per effetto dello svolgimento di un’attività incompatibile e della violazione del carattere esclusivo del rapporto d’impiego, oltre che alla sottrazione di energie lavorative all’attività di docente. Sotto quest'[#OMISSIS#] aspetto, [#OMISSIS#] tenute in considerazione le circostanze addotte dall’appellante, circa la mancata concreta ripercussione negative (secondo quanto affermato dall’appellante stesso) dello svolgimento delle attività incompatibile sul rendimento in servizio e sui risultati accademici ottenuti dal docente, tenendo altresì conto che si trattava di docenza a tempo parziale.
Va respinta, tuttavia, la tesi della totale assenza di danno erariale, poiché nel [#OMISSIS#] in esame sussiste di per sé un pregiudizio patrimoniale derivante dallo svolgimento dell’attività ritenuta dal legislatore incompatibile e dalla mancata informazione dell’Amministrazione di appartenenza, alla quale si è impedito di controllare la sussistenza di situazioni di conflitto d’interesse nelle attività private svolte dal docente.
Questo Collegio, tenuto conto del criterio indicato dalla Procura nell’atto introduttivo del giudizio, in via subordinata, ai fini della determinazione del danno e rapportato ai compensi percepiti [#OMISSIS#] stesso periodo in qualità di docente a tempo definito, ritiene di dovere determinare in via equitativa ex art. 1226 c.c. la somma dovuta dal [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] misura di € 213.627,94 pari al 70% dell’importo complessivo netto di € 305.182,77 relativo [#OMISSIS#] emolumenti percepiti negli anni compresi dal 2000 al 2010.
Ciò in quanto gli emolumenti percepiti dal [#OMISSIS#] nel detto arco temporale e [#OMISSIS#] qualità di docente universitario sono stati correlati e proporzionati ad una condizione di esclusività che [#OMISSIS#] specie è stata colpevolmente disattesa, incidendo sullo stesso “valore” della prestazione resa all’ Università e, di conseguenza, sulla misura degli emolumenti percepiti. In altri termini, il Collegio ritiene di determinare la misura del risarcimento riducendo proporzionalmente, in via equitativa, gli emolumenti percepiti, che erano stati commisurati nel loro ammontare ad un rapporto di esclusività, in punto di fatto e per volontà del medesimo prof. [#OMISSIS#], inesistente.
Alla luce di tutto quanto sopra il sequestro viene convertito in pignoramento [#OMISSIS#] misura indicata in dispositivo.
Conclusivamente, in parziale accoglimento del gravame, la misura della condanna va rideterminata in € 213.627,94 oltre rivalutazione monetaria a decorrere dalla data dell’atto di citazione fino al deposito della presente sentenza e interessi legali sulle somme rivalutate dalla data di detto deposito fino all’effettivo soddisfo.
Le spese del giudizio, in virtù della parziale soccombenza, devono essere addebitate all’appellante.
P.Q.M.
La Corte dei Conti – Sezione Terza Centrale d’appello, definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, ACCOGLIE parzialmente l’appello proposto da [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] avverso la sentenza n. 137/2014 della Sezione Giurisdizionale per l’[#OMISSIS#] Romagna e, per l’effetto, ridetermina il danno da risarcire [#OMISSIS#] misura di € 213.627,94 oltre rivalutazione monetaria e interessi legali.
Il sequestro viene convertito in pignoramento fino alla concorrenza di cui all’importo di condanna € 213.627,94 già rivalutata.
[#OMISSIS#] a carico del soccombente le spese di giudizio le quali, ferme e comunque dovute quelle di primo grado, sono liquidate [#OMISSIS#] misura di euro 112,00.
Manda alla segreteria per gli adempimenti conseguenti.
Così deciso in Roma, [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di Consiglio 7 dicembre 2016.
Depositata in Segreteria il 17-01-2017