In tema di revocazione, l’adunanza plenaria ha affermato che “non costituisce motivo di revocazione per omessa pronuncia il fatto che il giudice, nell’esaminare la domanda di parte, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni poste dalla parte medesima a sostegno delle proprie conclusioni; occorre, infatti, distinguere tra motivo di ricorso e argomentazione a sostegno di ciascuno dei motivi del medesimo; il motivo di ricorso, infatti, delimita e identifica la domanda spiegata nei confronti del giudice, e in relazione al motivo si pone l’obbligo di corrispondere, in positivo o in negativo, tra chiesto e pronunciato, nel senso che il giudice deve pronunciarsi suciascuno dei motivi e non soltanto su alcuni di essi; a sostegno del motivo – che identifica la domanda prospettata di fronte al giudice – la parte può addurre, poi, un complesso di argomentazioni, volto a illustrare le diverse censure, ma che non sono idonee, di per sé stesse, ad ampliare o restringere la censura, e con essa la domanda; rispetto a tali argomentazioni non sussiste un obbligo di specifica pronunzia da parte del giudice, il quale è tenuto a motivare la decisione assunta esclusivamente con riferimento ai motivi di ricorso come sopra identificati” (Cons. Stato, Ad. plen., 27 luglio 2016, n. 21).
Consiglio di Stato, Sez. VI, 7 gennaio 2019, n. 154
Professore universitario-Titolo di emerito-Presupposti Revocazione sentenza-Rigetto
N. 00154/2019 REG.PROV.COLL.
N. 06609/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6609 del 2017, proposto da:
[#OMISSIS#] Renda, rappresentato e difeso dall’avvocato [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, p.zza San [#OMISSIS#] in Lucina, 26;
contro
Universita’ degli Studi Napoli [#OMISSIS#] II, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la revocazione della sentenza
della sentenza 16 febbraio 2017, n. 696 della Sesta Sezione del Consiglio di Stato
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visto l’atto di costituzione in giudizio di Universita’ degli Studi Napoli [#OMISSIS#] Ii;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 novembre 2018 il Cons. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti gli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] De [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] Basilica dell’Avvocatura Generale dello Stato.
FATTO
1.˗Il Prof.[#OMISSIS#] Renda, docente presso l’Università degli studi [#OMISSIS#] II di Napoli e collocato a riposo al compimento del 70° anno d’età, ha prestato servizio quale professore universitario di ruolo per complessivi 35 anni, di cui venti anni come professore associato e quindici anni come professore ordinario.
In vista della cessazione del prof. Renda dal servizio, nella seduta del 21 dicembre 2015, a voti unanimi, il «Consiglio del Dipartimento di scienze biomediche avanzate nella Facoltà di medicina e chirurgia» ha proposto al Rettore d’attivare presso il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca il procedimento per conferire al prof. Renda il titolo di «professore emerito».
L’Università, con nota 6 maggio 2016, n. 43650, ha respinto tale richiesta, avuto riguardo all’art. 111 del regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 ed all’art. 2 del regolamento di Ateneo (approvato con il decreto rettorale n. 2884 dell’8 settembre 2014), in virtù del quale «la proposta di conferimento del titolo di professore emerito è avanzata dal Rettore al Ministro competente, esclusivamente in riferimento ai professori che abbiano prestato almeno venti anni di servizio in qualità di professori ordinari e siano cessati dal servizio medesimo».
2.˗Il Prof. Renda ha impugnato tale nota innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, che, con sentenza 21 settembre 2016, n. 4367, ha accolto il ricorso. In particolare, il Tribunale amministrativo ha ritenuto che la normativa statale, posta a base della determinazione censurata, è stata superata dalla successiva evoluzione normativa che impedisce di distinguere i professori ordinari e associati, con illegittimità anche del regolamento di Ateneo.
3.˗L’Università ha proposto appello.
Il Consiglio di Stato, con sentenza 16 febbraio 2017, n. 696, ha accolto l’appello. In particolare, si è stabilito che occorra accertare di volta in volta il contenuto dei regolamenti di Ateneo adottati in materia per stabilire quale sia la soluzione da adottare. Nella specie, si è ritenuto che la scelta effettata dal regolamento, che ha fissato il requisito per il riconoscimento ai soli docenti ordinari con venti anni di servizi, non risulti irragionevole.
4.˗Il Prof. Renda ha proposto ricorso per revocazione avverso la predetta sentenza, per i motivi riportati nella parte in diritto.
5.˗Si è costituita in giudizio l’amministrazione statale, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile ovvero infondato.
6.˗La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 29 novembre 2018.
DIRITTO
1.˗La questione posta all’esame della Sezione attiene alla sussistenza del vizio revocatorio nella sentenza 16 febbraio 2017, n. 296.
2.˗Con il motivo, afferente alla fase rescindente, il ricorrente assume che tale sentenza avrebbe accolto l’appello senza che vi fosse un corrispondente motivo specificamente formulato. In particolare, la sentenza ha ritenuto di valorizzare il contenuto del regolamento di Ateneo nonostante nell’appello mancasse una doglianza afferente la parte della sentenza di primo grado che ha ritenuto illegittimo il regolamento. Si sostiene, infatti, che tale sentenza avesse due contenuti: il primo relativo all’interpretazione della legislazione statale; il secondo relativo alla illegittimità del regolamento dell’Ateneo. In tale prospettiva, si sarebbe formato il giudicato in relazione al capo della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità del regolamento.
Il motivo è inammissibile.
L’art. 106 cod. proc. amm. stabilisce che «le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione nei casi e nei modi previsti dagli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile».
L’art. 395 cod. proc. civ. prevede che la sentenze possono essere impugnate per revocazione, tra l’altro, se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa; vi è tale errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare (n. 4).
La giurisprudenza amministrativa è [#OMISSIS#] nel ritenere che l’istituto della revocazione sia un rimedio eccezionale che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio (Cons. Stato, sez. VI, 18 marzo 2014, n. 1334).
In particolare, in relazione alla fattispecie sopra indicata, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che l’errore di fatto vi è «quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».
Per aversi errore di fatto revocatorio e, conseguente, «abbaglio dei sensi» del giudice devono, quindi, sussistere, contestualmente, tre requisiti: i) l’attinenza dell’errore ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; ii) la «pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale» di atti ritualmente prodotti nel giudizio, «la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere esistente un fatto documentalmente escluso o inesistente un fatto documentalmente provato»; iii) la [#OMISSIS#] decisiva dell’errore sulla decisione, essendo necessario che vi sia «un rapporto di causalità tra l’erronea supposizione e la pronuncia stessa» (Cons. Stato, sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503).
Devono, invece, ritenersi vizi logici, e dunque errori di diritto, quelli consistenti nell’erronea interpretazione e valutazione dei fatti e, più in generale, delle risultanze processuali (Cons. Stato, sez. V, 21 ottobre 2010, n. 7599; Cons. Stato, sez. VI, 5 settembre 2011, n. 4987).
In definitiva, «mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale», esso non ricorre, tra l’altro, «nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali», che può dare luogo «se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione» (Cons. Stato, Ad. plen., 10 gennaio 2013, n. 1).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha aggiunto, inoltre, che «l’omissione di pronuncia su domande o eccezioni delle parti, sebbene costituisca, di per sé, violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato sancito dall’art. 112 cod. proc. civ., o comunque difetto di motivazione, non elimina la rilevanza del processo causale che ha determinato l’evento omissivo e non esclude che l’omissione di pronuncia possa essere fatta valere non ex se, ma come risultato di un vizio della formazione del giudizio e, quindi, errore di fatto revocatorio, atteso che nel caso di omessa pronuncia errore revocatorio e violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non sono in relazione di alternatività, ma il primo è possibile fonte della seconda» (Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5187).
L’Adunanza plenaria ha affermato, inoltre, che «non costituisce motivo di revocazione per omessa pronuncia il fatto che il giudice, nell’esaminare la domanda di parte, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni poste dalla parte medesima a sostegno delle proprie conclusioni; occorre, infatti, distinguere tra motivo di ricorso e argomentazione a sostegno di ciascuno dei motivi del medesimo; il motivo di ricorso, infatti, delimita e identifica la domanda spiegata nei confronti del giudice, e in relazione al motivo si pone l’obbligo di corrispondere, in positivo o in negativo, tra chiesto e pronunciato, nel senso che il giudice deve pronunciarsi suciascuno dei motivi e non soltanto su alcuni di essi; a sostegno del motivo – che identifica la domanda prospettata di fronte al giudice – la parte può addurre, poi, un complesso di argomentazioni, volto a illustrare le diverse censure, ma che non sono idonee, di per sé stesse, ad ampliare o restringere la censura, e con essa la domanda; rispetto a tali argomentazioni non sussiste un obbligo di specifica pronunzia da parte del giudice, il quale è tenuto a motivare la decisione assunta esclusivamente con riferimento ai motivi di ricorso come sopra identificati» (Cons. Stato, Ad. plen., 27 luglio 2016, n. 21).
La stessa giurisprudenza ha puntualizzato che «l’omessa pronuncia su un vizio deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali» (Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4774).
La fattispecie in esame non rientra tra i casi di errore revocatorio.
Il ricorrente denuncia, infatti, l’erronea valutazione delle risultanze processuali e, in particolare, dell’effettivo contenuto dell’atto di appello. Non viene in rilievo una omessa valutazione di una domanda di parte contenuta nell’atto introduttivo del giudizio ma una asserita omessa presenza di un motivo dell’atto di appello.
La valutazione di tale ultimo aspetto, nella specie, non risulta dalla semplice lettura e percezione degli atti acquisiti al processo ma implica un giudizio di diritto sulla sua effettiva portata e contenuto dell’atto di appello che esula dai confini del processo revocatorio.
In ogni caso, anche a volere prescindere da questo profilo, la omissione lamentata non sussiste.
Nella sentenza di primo grado non sono rinvenibili parti separate: una relativa alla legislazione statale e l’altra al regolamento di Ateneo. La motivazione della sentenza si è incentrata sulla legislazione statale allo scopo di dimostrare che quanto disposto dall’art. 111 del regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 sia stato superato dalla successiva evoluzione normativa. La conseguenza di tale dimostrazione è stata proprio la declaratoria di illegittimità del regolamento di Ateneo. Si legge, infatti, nella parte finale della sentenza che «alla luce di quanto sin qui esposto» (vale a dire dell’illustrazione dell’evoluzione della legislazione statale) «la previsione del regolamento di Ateneo gravato risulta in contrasto con la fonte normativa primaria».
Nell’atto di appello, sono state indicate le ragioni per le quali il contenuto dell’art. 111 del regio decreto n. 1592 del 1933 non possa considerarsi “superato” dalla legislazione successiva. E’, pertanto, implicita in questo motivo la richiesta di completa riforma della decisione impugnata anche nella parte in cui ha esteso gli esiti interpretativi relativi alla legge statale al regolamento. In questo caso può ritenersi che sussiste il motivo e, al più, è mancata una ulteriore argomentazione difensiva.
Nella sentenza di appello, il Collegio ha accolto la censura, valorizzando, in chiave meramente argomentativa, l’autonomia universitaria e dunque la portata non solo del regolamento ma anche della legislazione che la contempla. In particolare, si è stabilito che «nel vigente regime di autonomia statutaria delle Università, le procedure adottate dai singoli Atenei non riflettono un modello unico per riconoscere ad un proprio docente il titolo di “professore emerito” onde occorre valutare, caso per caso, che cosa in effetti dispongano i regolamenti di ateneo adottati in materia, tant’è che taluni regolamenti prevedono il titolo per i soli docenti «ordinari» e talaltri osservano regole diverse». Ma poi si è aggiunto che il regime di autonomia dell’Università «non opera in uno spazio libero da norme, ma è limitata per lo più da fonti primarie attuative di principi costituzionali concernenti, tra l’altro, lo stato giuridico dei docenti, il quale, come è noto, deve essere osservato dalla potestà statutaria». Risulta, pertanto, come la motivazione si sia fondata sulla ricostruzione della portata della legislazione e del regolamento.
Non può ritenersi, pertanto, che la sentenza impugnata abbia deciso la controversia su un motivo non dedotto nell’atto di appello.
3.˗Il mancato superamento della fase rescindente impedisce di esaminare nel merito, nella fase rescissoria, i motivi riproposti.
4.˗Il ricorrente è condannato al pagamento delle spese processuali, che si determinano in euro 2.500,00, oltre accessori, che devono essere corrisposti all’amministrazione statale resistente.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:
a) dichiara inammissibile il ricorso per revocazione, proposto con il ricorso indicato in epigrafe;
b) condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si determinano in euro 2.500,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 novembre 2018 con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Presidente
Silvestro [#OMISSIS#] Russo, Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
Pubblicato il 07/01/2019