Nell’ambito della disciplina vigente, le Università non statali (o anche “Università Libere” o “Università private”) possono acquisire la forma di società di capitali; non spetta tuttavia al Consiglio di Stato, in sede consultiva, forgiare “in positivo” un ulteriore tipo speciale di società di capitali, caratterizzato da particolari limitazioni che non siano quelle già previste dalla legislazione vigente: ferme restando, dunque, come è ovvio, tutte le limitazioni e le caratterizzazioni finalistiche, funzionali, strutturali, organizzative, gestionali – nascenti dalla disciplina di settore, dal regio decreto n. 1592 del 1933 fino alla legge n. 240 del 2010 e annessi decreti delegati, che ineriscono e sono immanenti all’Università degli studi in quanto tale – , eventuali altre limitazioni e caratterizzazioni (ad esempio, l’esclusione ex ante di ogni contribuzione pubblica, oppure l’obbligo di collocarsi nell’ambito della tipologia delle società benefit o di porsi come impresa sociale o altro ancora) dovranno, se del caso, essere deliberate e introdotte nell’ordinamento giuridico dalla legge, nel rispetto dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione.
Consiglio di Stato, Sez. consultiva per gli atti normativi, 14 maggio 2019, n. 1433
Università non statali-Natura giuridica-Società di capitali-Limiti
Numero 01433/2019 e data 14/05/2019 Spedizione
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Consultiva per gli Atti Normativi
Adunanza di Sezione del 9 [#OMISSIS#] 2019
NUMERO AFFARE 00018/2019
OGGETTO:
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca – Ufficio legislativo.
Richiesta di parere in merito alla natura giuridica delle Università non statali.
LA SEZIONE
Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 0005652 in data 20 dicembre 2018, con la quale il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull’affare consultivo in oggetto;
Visto il parere interlocutorio n. 370 del 31 gennaio – 7 febbraio 2019;
Vista la relazione integrativa del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca n. prot. 0001438 del 19 marzo 2019;
Vista la relazione del Ministero dell’economia e delle finanze – Ufficio legislativo economia, n. prot. 4541 del 18 aprile 2019, con allegati i pareri nn. prot. del 29 marzo 2019 e del 27 marzo 2019 rispettivamente del Dipartimento del tesoro e della Ragioneria genetrale dello Stato di quel Ministero;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere [#OMISSIS#] [#OMISSIS#];
Premesso:
1. Con nota n. prot. n. 0005652 in data 20 dicembre 2018 il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca ha chiesto il parere del Consiglio di Stato in ordine alla natura giuridica delle Università e, in particolare, in merito alla possibilità che, nell’ambito della disciplina vigente, le Università non statali (o anche “Università Libere” o “Università private”) possano acquisire la forma di società di capitali. Più specificamente, il Ministero, al fine di potersi esprimere «sulle istanze formulate dalle Università» e tenuto conto del fatto che «negli ultimi anni sta emergendo una spinta delle università non statali, e in particolare di quelle telematiche, ad aderire a modelli organizzativi sempre più caratterizzati da una logica di impresa con l’esigenza di adottare forme giuridiche di tipo privatistico che seguano le disposizioni del codice civile, con particolare riferimento alle società di capitali», ha chiesto il parere di questo Consiglio «in ordine:
1. alla possibilità per le Università non statali, sulla base della normativa vigente, di acquisire la forma di società di capitali;
2. alle eventuali limitazioni alle quali le Università non statali aventi la forma delle società di capitali dovrebbero essere sottoposte».
2. Con parere interlocutorio n. 370 del 7 febbraio 2019 la Sezione, anche in considerazione della complessità del tema posto con il quesito in esame, ha chiesto un’integrazione della relazione del richiedente Ministero con una ricognizione di sintesi degli atti costitutivi e degli statuti delle esistenti libere Università private, anche telematiche, rilevandone e indicando, se possibile, le caratteristiche costanti e le invarianti strutturali e funzionali utili al fine di una connotazione tipologica di tali soggetti [#OMISSIS#] loro attuale realtà fattuale e giuridica, nonché il parere del Ministero dell’economia e delle finanze sull’affare in oggetto, avendo riguardo non solo [#OMISSIS#] eventuali [#OMISSIS#] di rilevanza economico-finanziaria, ma anche e soprattutto [#OMISSIS#] aspetti di possibile incidenza delle diverse soluzioni al quesito posto dal MIUR sul segmento di economia sociale di mercato costituito dall’attività di ricerca e di formazione superiore svolta da enti privati, nel quale il confronto concorrenziale tra i diversi soggetti che vi operano può ripercuotersi sul livello dei servizi di interesse generale propri del settore, e ciò tenendo conto anche della rilevanza paradigmatica che la soluzione da fornire alla richiesta di parere potrebbe rivestire, come modello di soluzione di un problema attuale di diritto pubblico dell’economia, rispetto ad altri segmenti di mercato sociale, nei quali, cioè, si incontrano e devono armonizzarsi le esigenze e i caratteri dell’attività imprenditoriale svolta in un mercato concorrenziale con quelle di cura e salvaguardia dell’interesse generale rivestito dai servizi prodotti e offerti.
3. Il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca – Ufficio legislativo ha provveduto, in data 19 marzo 2019, a inviare un’ampia e ben articolata relazione integrativa, arricchita da utili prospetti relativi alle previsioni statutarie delle libere Università private, con un ragionato raffronto tra di essi e un’efficace estrapolazione di sintesi delle invarianti strutturali, delle costanti che si rinvengono negli statuti e nei [#OMISSIS#] organizzativi dei diversi enti, che aiutano a rinvenire un criterio definitorio unitario.
4. Il Ministero dell’economia e delle finanze ha a sua volta provveduto con nota dell’Ufficio legislativo economia n. prot. 4541 del 18 aprile 2019 (con allegati i pareri del 29 marzo 2019 e del 27 marzo 2019 rispettivamente del Dipartimento del tesoro e della Ragioneria generale dello Stato), [#OMISSIS#] quale ha concluso nel senso della possibilità di fornire una risposta positiva al quesito del Ministero dell’istruzione, ritenendo che “l’eventuale configurazione societaria delle Università non statali non sia di per sé sola idonea a incidere sulle caratteristiche essenziali delle stesse, purché ne venga rispettato il perseguimento dell’interesse pubblico, anche in virtù del sistema regolatorio e di generale sovrintendenza rimesso al Miur. La natura societaria e la finalità pubblicistica non appaiono infatti incompatibili, anche in considerazione dell’espressa congiunzione tra tali due finalità che emerge nell’istituto dell’impresa sociale, disciplinata dal d.lgs. 3 luglio 2017, n. 112 (cfr. in particolare l’art. 2). Le Università non statali già rispondono a logiche di mercato nell’offerta di servizi formativi, pertanto la loro eventuale configurazione societaria non inciderebbe in modo visibile sul segmento di economia sociale di mercato costituito dall’attività di ricerca e di formazione superiore, stante la suddetta vigilanza del Miur. Inoltre, la gestione dell’attività [#OMISSIS#] forma societaria non appare idonea a recare pregiudizio alle dinamiche di mercato, risultando pertanto di per sé non incompatibile con la disciplina della concorrenza di provenienza europea”.
Considerato:
1. Richiamate qui le ampie premesse già svolte nel primo parere interlocutorio, ivi incluso, in particolare, il contenuto dei paragrafi 3 e 4 della Premessa, relativi al tema della natura giuridica privatistica delle Università non statali (o anche “Università Libere” o “Università private”, d’ora innanzi: “libere Università private”), come ribadito da questo Consiglio di Stato, Commissione speciale, nel parere n. 2427/2018 del 26 ottobre 2018, occorre soffermarsi, di seguito, sui due [#OMISSIS#] principali, che rivestono un significato centrale per la comprensione del tema e per la sua soluzione, ai fini di pervenire a una risposta esaustiva al quesito sollevato dal Ministero richiedente.
2. Come emerge dalla rilettura del quadro normativo e come posto in ulteriore luce dalle relazioni ministeriali, non sussiste, nel diritto positivo, una definizione espressa della natura giuridica soggettiva di quei particolari enti costituiti dalle libere Università private. Solo di recente questo Consiglio, in sede giurisdizionale e consultiva, ha escluso (contro, peraltro, una pur ampia e autorevole diversa opinione giurisprudenziale) che i suddetti enti rivestano la natura di enti pubblici non economici, e ne ha ribadito la natura di enti di diritto privato. L’ampia e articolata rassegna degli statuti e delle forme organizzative delle esistenti libere Università private fornita dal Ministero conferma la normale inquadrabilità, ad oggi, di tali soggetti, nell’ambito del libro I del codice civile, nelle forme soggettive e organizzative delle fondazioni (piuttosto che delle associazioni). Tale indeterminatezza e assenza di esplicita previsione e disciplina normativa costituisce, del resto, la premessa e la ragione stessa del quesito proposto.
3. Guardando alla produzione normativa meno risalente nel tempo, a partire dunque dal tuttora vigente testo unico introdotto con il regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 (Approvazione del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore), il sistema giuridico che presiede alla materia in esame sembra mirare essenzialmente, al fine di garantire che l’arte e la scienza siano libere e [#OMISSIS#] ne sia l’insegnamento (art. 33, primo comma, Cost.) e di “promuovere il progresso della scienza e di fornire la cultura scientifica necessaria per l’esercizio degli uffici e delle professioni” (art. 1, primo comma, del r.d. n. 1592 del 1933), a preservare quel complesso fenomeno, sociale e culturale, prima ancora che giuridico, costituito dall’Università degli studi, che rappresenta in sé, nelle sue varie caratterizzazioni, un istituto (sociale, culturale e giuridico) che affonda le sue radici [#OMISSIS#] risalente tradizione scientifica e culturale italiana (che del resto ha dato i natali alle più antiche Università degli studi e vanta nei secoli una [#OMISSIS#] tradizione [#OMISSIS#] creazione, [#OMISSIS#] crescita e [#OMISSIS#] stabilizzazione di questa peculiare forma di elaborazione e trasmissione culturale, di ricerca, studio e istruzione superiore). È soprattutto questa realtà composita, nelle sue strutture e funzioni essenziali, soggettive (corpo docente, studenti) e oggettive (beni, mezzi, organizzazione), e nell’alta qualità dei suoi contenuti e delle attività svolte, che l’ordinamento giuridico mira a salvaguardare (quasi “riconoscendo” e tutelando realtà collettive e corpi sociali preesistenti [#OMISSIS#] società alla stessa [#OMISSIS#] giuridica). Significativo al riguardo è il precetto, contenuto nell’art. 10, comma 1, del decreto-legge 1 ottobre 1973, n. 580, convertito dalla legge 30 novembre 1973, n. 766, che fa divieto ai soggetti (sostanzialmente) diversi dalle Università di utilizzare la denominazione di “Università” (e di rilasciare titoli universitari): “le denominazioni di università, ateneo, politecnico, istituto di istruzione universitaria, possono essere usate soltanto dalle università statali e da quelle non statali riconosciute per rilasciare titoli aventi valore legale a [#OMISSIS#] delle disposizioni di legge”. Ed è autoevidente il rilevantissimo interesse generale naturalmente rivestito da siffatte attività e finalità (compendiate ancora dall’art. 1, comma 1, della legge di riforma n. 240 del 2010, nei seguenti termini: “Le università sono sede primaria di [#OMISSIS#] ricerca e di [#OMISSIS#] formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti e sono luogo di apprendimento ed elaborazione critica delle conoscenze; operano, combinando in modo organico ricerca e didattica, per il progresso culturale, civile ed economico della Repubblica”).
Non è escluso che proprio la centralità e la preminenza di questa finalità di salvaguardia di un tale patrimonio culturale [#OMISSIS#] sua oggettività materiale spieghi il sostanziale disinteresse mostrato dalla disciplina giuridica per il profilo formale della configurazione esteriore dell’organizzazione del soggetto giuridico chiamato a rivestire la sostanza del fenomeno – si ripete, culturale e sociale, prima che giuridico – dell’Università degli studi (pubblica o privata).
4. Le Università degli studi, nel quadro della teoria pluralistica dell’ordinamento giuridico, si collocano, d’altra parte, nel disegno della Costituzione, nel novero di quei fenomeni organizzativi rappresentativi di collettività rese omogenee dal perseguimento di un interesse comune, come tali espressione di autonomia collettiva. Centrale rilevanza, ai fini del tema qui oggetto di approfondimento, è dunque rivestita dall’[#OMISSIS#] comma dell’art. 33, in base al quale “le istituzioni di alta cultura, università e accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Lo Stato è legittimato – con legge (riserva di legge) – a dettare i lineamenti organizzativi fondamentali, ma può farlo nei limiti dell’autonomia organizzativa di questi organismi collettivi che sono espressione della realtà sociale e culturale, oltre che del rispetto della libertà della ricerca e del suo insegnamento.
5. Non esiste, inoltre, nel vigente ordinamento giuridico, un’espressa esclusione, per le libere Università private, del perseguimento del fine di lucro (si rinvia, al riguardo, al par. 10).
6. Fatte queste minime premesse di inquadramento sistematico del tema, la Sezione evidenzia come il quesito posto dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca richieda che siano affrontate due questioni fondamentali: 1) se la forma giuridica della società di capitali, nei suoi tratti ed elementi caratterizzanti essenziali, soprattutto in relazione alla finalità lucrativa che la caratterizzerebbe, si ponga in contrasto – oppure possa accordarsi – con le caratteristiche finalistiche, funzionali, strutturali, gestionali e organizzative proprie delle Università degli studi (questione rispetto alla quale è pregiudiziale la domanda, da essa implicata, se la finalità lucrativa conservi ancora una sua rilevanza identificativa del tipo soggettivo della società di capitali, o non sia stata piuttosto dissolta nell’idea della così detta “neutralità delle forme”, ciò che renderebbe, evidentemente, vacua e superata la prima questione); 2) in secondo luogo – e in [#OMISSIS#] di risposta non ostativa alla questione di cui sub 1) – se, esclusa un’incompatibilità in linea di principio con il fine lucrativo e la natura commerciale della società di capitali (ove ancora rilevante come tratto identificativo del tipo), la normativa vigente, racchiusa ancora oggi essenzialmente nel testo unico del 1933, in quanto in larga parte vincolante e significativamente incidente sulla struttura organizzativa, sulla governance e sui [#OMISSIS#] gestionali anche delle libere Università private, si possa armonizzare con quella (essenzialmente di codice civile) che presiede alla disciplina positiva del tipo “società di capitali”, oppure se gli elementi di specialità e di esorbitanza rispetto a quel modello, derivanti dall’applicabilità delle predette norme pubblicistiche, non siano tali da precludere un’utile declinazione delle libere Università private [#OMISSIS#] forma della società di capitali (rischiando, una simile forzatura, di condurre a un’ulteriore, anomala figura atipica, ibrida e di ancor più incerta natura e funzionamento, foriera come tale di possibili problemi applicativi).
7. La risposta, cui perviene la Sezione, lo si può qui anticipare, è positiva su entrambi i punti, nel senso che non sussistono impedimenti di principio nel [#OMISSIS#] sistema ordinamentale a che una [#OMISSIS#] Università privata possa assumere la forma giuridica della società di capitali (pur [#OMISSIS#] perdurante rilevanza dello scopo di lucro – nonostante il principio di così detta “libertà delle forme” – come carattere essenziale del tipo della società di capitali), e nel senso che la perdurante unitarietà e [#OMISSIS#] omogeneità del sistema dell’istruzione superiore, nel quale le Università pubbliche e quelle private continuano a presentare caratterizzazioni non solo funzionali, ma anche strutturali, fortemente omologhe, non osta – in termini di “clausole esorbitanti” ed elementi di specialità rispetto al regime codicistico – alla concreta configurabilità ed operatività della costituzione (o riorganizzazione) delle libere Università private [#OMISSIS#] forma della società di capitali ([#OMISSIS#] restando l’esigenza di un’attenta valutazione da parte del Ministero di settore riguardo all’opportunità di proporre comunque un intervento del legislatore volto a meglio armonizzare e compatibilizzare l’organizzazione e il funzionamento delle libere Università private che dovessero assumere la forma della società di capitali rispetto al sistema normativo vigente).
8. La normativa vigente – dal teso unico del 1933 fino alla più recente riforma organica del 2010 – si concentra soprattutto sui contenuti sostanziali dell’attività e trascura gli elementi formali di inquadramento delle libere Università private nell’uno piuttosto che nell’altro particolare tipo soggettivo (non pare si possano rinvenire elementi direttamente utili a lumeggiare la questione qui in trattazione nei precedenti storici costituiti della legge Casati 13 novembre 1859, n. 3725, dal testo unico delle leggi sull’istruzione superiore di cui al regio decreto 9 agosto 1910, n. 795, e dalla riforma [#OMISSIS#], legge 30 settembre 1923, n. 2101, che paiono nel complesso orientati piuttosto a una visione di accentramento e di statizzazione delle Università).
9. Non occorre in questa sede una disamina analitica di tutta la complessa produzione normativa che è si è nei decenni susseguita [#OMISSIS#] materia (salvi i vari richiami puntuali contenuti nei paragrafi 11 ss.). I tratti essenziali della disciplina positiva sono [#OMISSIS#] illustrati in entrambe le relazioni del Ministero di settore, cui può per sintesi farsi rinvio. In particolare, [#OMISSIS#] seconda relazione il Ministero dell’istruzione ha efficacemente raggruppato gli ambiti di disciplina nei seguenti cinque filoni essenziali: 1) finalità istituzionali; 2) requisiti necessari per l’istituzione e l’accreditamento; 3) strutture, organi e loro attribuzioni; 4) studenti e diritto allo studio; 5) patrimonio, risorse finanziarie e amministrazione. Riprendendo una sintesi al riguardo contenuta nei pareri del Ministero dell’economia e delle finanze, i punti principali possono essere così richiamati: finalità di interesse generale, medesime modalità di istituzione e di soppressione (attraverso decreto ministeriali), utilizzo di identiche procedure di accreditamento delle sedi e dei corsi di studio, sottoposizione ai medesimi criteri di misurazione e controllo degli standard qualitativi del servizio, rispetto del diritto allo studio, regime pubblicistico autorizzativo per il rilascio di titoli accademici dello stesso valore legale; identico regime pubblicistico di reclutamento e di gestione dei rapporti di lavoro dei docenti e dei ricercatori, poteri di indirizzo e di vigilanza del Ministero.
10. Entrando, dunque, nel merito e procedendo a partire dalla prima delle due questioni indicate nel paragrafo 6, occorre svolgere una breve riflessione sull’evoluzione del concetto e dell’istituto giuridico della società di capitali, per verificare se e in che misura questa figura giuridica si [#OMISSIS#] o meno, per come essa oggi si atteggia e si configura, a dare adeguata forma e struttura giuridiche ai soggetti in esame.
10.1. La centralità dello scopo [#OMISSIS#] disciplina dei tipi di enti superindividuali emerge da plurimi indici normativi di diritto positivo. L’art. 2247 del codice civile definisce la società avendo riguardo allo scopo (Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili). L’art. 2249 c.c., a sua volta, nel definire i Tipi di società, fa leva sullo scopo, qui considerato sub specie di oggetto sociale (Le società che hanno per oggetto l’esercizio di una attività commerciale devono costituirsi secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo. Le società che hanno per oggetto l’esercizio di una attività diversa sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice, a meno che i soci abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo). L’indicazione dello scopo (dopo la denominazione dell’ente) è il primo dei contenuti essenziali dell’atto costitutivo e dello statuto delle associazioni e delle fondazioni (art. 16 c.c.); la persona giuridica si estingue quando lo scopo è stato raggiunto o è divenuto impossibile (art. 26 c.c.); la devoluzione dei beni (art. 31, secondo comma, c.c.) avviene, per le fondazioni, attribuendo i beni ad altri enti che hanno fini analoghi; così avviene anche per le associazioni, quando manchino indicazioni nelle deliberazioni dell’assemblea che ha stabilito lo scioglimento (ma si veda anche l’art. 32 c.c. che, in [#OMISSIS#] di beni [#OMISSIS#] o lasciati a un ente con destinazione a scopo diverso da quello proprio dell’ente stesso, l’autorità governativa, nel [#OMISSIS#] di trasformazione o di scioglimento dell’ente, può devolvere i suddetti beni, con lo stesso onere, ad altre persone giuridiche che hanno fini analoghi).
10.2. In questo quadro, guardando al diritto civile, la [#OMISSIS#] fondamentale dell’ordinamento della plurisoggettività generale – in disparte le diverse declinazioni sul versante del diritto pubblico – opera essenzialmente una bipartizione fondamentale tra enti (con o senza personalità giuridica) caratterizzati da finalità (in senso lato e prevalentemente) ideali, civiche, di beneficio comune, anche (ma non necessariamente) altruistico-solidaristiche (e/o cooperativo-sociali) – nel [#OMISSIS#] diritto regolati nel libro primo del codice civile -, ed enti caratterizzati da finalità (prevalentemente) egoistico-strategiche orientate al profitto derivante dall’organizzazione dell’esercizio in comune di un’impresa economica – nel [#OMISSIS#] diritto regolati nel libro [#OMISSIS#] del codice civile. Questa differenziazione, che pure ha subito negli anni ([#OMISSIS#] prassi e [#OMISSIS#] legislazione) una notevole attenuazione (o confusione) – si pensi alle società sportive (senza fine di lucro), alle imprese sociali (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 112), alle società benefit (art. 1, commi 376-384, della legge di stabilità per il 2016 – legge n. 208 del 2015), o alla ormai pacifica ammissione di attività commerciali da parte di soggetti riconducibili ai tipi del libro primo del codice – conserva ancora oggi una sua validità di fondo, ed è in qualche modo rimarcata dalla recente evoluzione della legislazione sul così detto “Terzo settore” (decreto legislativo n. 117 del 2017), ancorché tale evoluzione normativa risenta soprattutto del punto di vista (di matrice sociologica ed economica nordamericana) che tende a ricondurre le non profit organizations al settore della filantropia e dell’altruismo, che è settore più specifico e meno ampio rispetto alle finalità ideali, non lucrativo-commerciali, degli enti descritti nel libro I del codice civile, ma che appare comunque di rilievo per la riconferma della sostanziale, perdurante validità della [#OMISSIS#] divisio sopra ricordata.
10.3. Questa [#OMISSIS#] divisio, pur in parte contraddetta da alcune innovazioni normative, mantiene ancora il suo fondamentale valore euristico. Essa si fonda sull’assunto che, ancora oggi, il fine di lucro costituisca un elemento essenziale della società. Questa posizione contesta il noto argomento contrario, fondato sulle modifiche di derivazione comunitaria che avevano escluso la mancanza dello scopo di lucro dal novero delle cause di nullità del contratto di società per azioni, con il rilievo che la mancanza dello scopo lucrativo non [#OMISSIS#] un problema di validità, bensì di qualificazione del contratto associativo, e contesta l’eccezione delle società sportive, per le quali la legge esclude la redistribuzione degli utili, spiegandola come figura atipica di legge speciale.
Si tratta, tuttavia, di un posizione non più indiscussa. Si osserva, infatti, che, anche a seguito della recente introduzione delle nuove figure giuridiche dell’impresa sociale e delle società benefit, che contemplano espressamente altri casi di società senza divisione degli utili, sembra ormai prevalere una sorta di principio di “libertà della forma”, dovendosi accordare [#OMISSIS#] rilevanza alla sostanza del regime giuridico che disciplina l’attività svolta e svalutare il dato formale del rivestimento esteriore di tali attività regolate e “conformate” da controlli pubblicistici sostanziali. Tale principio renderebbe esplicito il dato fattuale del sempre più frequente fenomeno di fondazioni di impresa e dell’esercizio di attività a tutti gli effetti imprenditoriali da parte di soggetti associativi anche privi di personalità giuridica. La dottrina civilistica ha evidenziato la sempre più profonda divaricazione tra le forme giuridiche e i contenuti economici, rilevando sempre più frequentemente [#OMISSIS#] prassi organizzazioni che non hanno scopo di profitto, ma che sono costituite in forma di società, e, viceversa, associazioni che svolgono attività economiche a scopo di lucro.
Ma è anche vero, si può replicare a questo argomento, che è proprio l’introduzione di queste novità normative che finisce per riaffermare (anziché sminuire) la forza della categoria giuridica tipizzante, imperniata (proprio e tra l’altro) sul fine di lucro, e ciò secondo un tipico moto dialettico per cui la legge (il soggetto) tende a riappropriarsi del fatto (l’oggetto), ri-categorizzando (razionalizzando e riportando a unità) l’evoluzione spontanea dei fenomeni sociali. Tanto è vero che, ad esempio, la disciplina delle società benefit rinviene esattamente [#OMISSIS#] regolazione del fine di lucro il suo centro connotativo, il suo senso, nell’aggiunta, oltre allo scopo di dividere gli utili, di “una o più finalità di beneficio comune”, perseguite “mediante una gestione volta al bilanciamento con l’interesse dei soci e con l’interesse di coloro sui quali l’attività sociale possa avere un impatto”. Insomma, le recenti innovazioni normative delle imprese sociali e delle società benefit, che derivano dal tentativo della legge di adeguarsi all’evoluzione della prassi, se da un lato sembrano costituire una conferma del principio della neutralità delle forme, dall’altro lato finiscono per negarlo, in quanto ulteriore tipizzazione e categorizzazione normativa della suddetta fenomenologia (imperniata per di più, ancora una volta, sulla regolazione e graduazione del fine di lucro): quanto più il legislatore insiste nel categorizzare la mutevole realtà [#OMISSIS#] dell’autonomia privata, tanto più ribadisce e fa riemergere, in un processo dialettico continuo, l’opposto principio della tipicità delle forme e dell’obbligo dell’autonomia privata di collocarsi, nel suo svolgimento, in una delle forme all’uopo apprestate dal legislatore.
10.4. Si obietta a questa impostazione che la produzione di un utile è coessenziale all’attività imprenditoriale poiché la crescita e lo sviluppo dell’intrapresa economica implicano naturalmente la spinta fisiologica a produrre un surplus di ricchezza, anche oltre la mera remunerazione adeguata dei fattori della produzione impiegati. Si osserva inoltre che il divieto di distribuzione degli utili caratterizza non già tutta l’attività (anche d’impresa) ordinata a fini ideali, ma solo quella ordinata a fini solidaristico-sociali, che si caratterizza per la gratuità dell’impegno, per la natura (in un [#OMISSIS#] qual senso) di liberalità e non di scambio della finalizzazione dell’attività stessa, che si identifica con l’ordinamento degli enti del Terzo settore. L’attività di ricerca e formativa delle libere Università private, che ha una connotazione oggettiva di imprenditorialità e che tende sempre più a svolgersi nell’ambito di un mercato concorrenziale, impone l’esigenza, legittima e ragionevole, di poter attrarre capitali di investimento, per potenziare e migliorare l’offerta formativa e di servizi [#OMISSIS#] sua complessità, ed è possibile attrarre capitali solo se, tramite la redistribuzione degli utili, si può offrire una [#OMISSIS#] remunerazione al rischio degli investitori. Negare la divisione degli utili, pur ammettendo l’imprenditorialità della gestione, costituirebbe in questo senso una contraddizione in termini.
10.5. La questione del rilievo che oggi assume e mantiene il fine lucrativo [#OMISSIS#] caratterizzazione del tipo “società di capitali” [#OMISSIS#] dunque ancora oggi aperta e opinabile, non apparendo possibile un approdo conclusivo [#OMISSIS#] e indiscutibile sul punto. Non appare dunque possibile, ritiene la Sezione, nell’oggettiva opinabilità delle complesse questioni qui solo accennate, affermare la preminenza del principio di libertà delle forme e la sostanziale indifferenza dello strumento societario, come pura forma giuridica, rispetto alla sostanza dei vari e diversi “significati” (scopi pratico-sociali) perseguiti dall’ente (idealistici, altruistici e/o commerciali-lucrativi, strategico-egoistici).
La Sezione non sottovaluta affatto la problematicità e la sensibilità, anche politica, dell’idea di una possibile riconfigurazione del modello organizzativo e strutturale che ponga le libere Università private sotto l’egida del profitto e del commercio (in quanto scopo essenziale, causa finalis) della loro stessa costituzione. Ma proprio per le esposte ragioni e per la difficoltà di approdare, oggi, a conclusioni definitive e perentorie riguardo al rapporto tra struttura societaria e fine di lucro, la Sezione ritiene che, secondo il principio liberale per cui è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato, debba escludersi la sussistenza di una ragione giuridica, imperniata su una pretesa, indefettibile finalità di lucro del modello “società di capitali”, ostativa alla possibilità che le libere Università private rivestano una tale forma giuridica.
11. In più la Sezione rileva che, in realtà, non sussiste nel [#OMISSIS#] ordinamento giuridico neppure un’espressa incompatibilità (e, dunque, un divieto) tra il fine di lucro e l’attività e il funzionamento propri delle Università degli studi (per quanto caratterizzati da alti e verosimilmente preminenti fini ideali di interesse generale). Neppure il sistema ordinamentale di settore, sotto il titolo dell’art. 33 Cost., sembra frapporre ostacoli in linea di principio a un possibile fine lucrativo di tali enti privati. E ciò proprio in ragione di quella preminenza del profilo contenutistico e sostanziale, di salvaguardia dell’Università degli studi intesa prima come fenomeno sociale e culturale, che come istituto giuridico, di cui si è detto ai paragrafi 3 e 4. Nel [#OMISSIS#] ordinamento giuridico, d’altra parte, non risulta essere mai stata introdotta una [#OMISSIS#] positiva di divieto dei fini di lucro. Si ricorda che solo [#OMISSIS#] X legislatura, nel disegno di legge A.S. n. 1935 intitolato Autonomia delle università e degli enti di ricerca, d’iniziativa dell’allora Ministro [#OMISSIS#] (governo Andreotti-6), approvato solo dal Senato il 7 febbraio 1991, ma non dalla [#OMISSIS#] (l’A.C. 5460, alla data del 29 gennaio 1992 all’esame dell’Assemblea, ma poi non approvato per la fine della legislatura), figurava la previsione secondo la quale «Le Università sono istituzioni dotate di piena capacità di diritto pubblico e privato, nel rispetto dei propri fini e con l’esclusione di qualunque scopo di lucro». La legge n. 168 del 1989 istitutiva del Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica, nell’art. 6 (Autonomia delle università) reca, invece, la seguente previsione, [#OMISSIS#] quale non compare il divieto dello scopo di lucro: “1. Le università sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione dell’articolo 33 della Costituzione, hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; esse si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti”. La quasi coeva legge 29 luglio 1991, n. 243, specificamente dedicata alle Università non statali legalmente riconosciute, che pure avrebbe potuto esprimere un siffatto divieto, non reca elementi normativi utili in una tale direzione e si limita, nell’art. 1, a enunciare (nuovamente) il generico principio per cui “Le università e gli istituti superiori non statali legalmente riconosciuti operano nell’ambito delle norme dell’articolo 33, [#OMISSIS#] comma, della Costituzione e delle leggi che li riguardano, nonché dei principi generali della legislazione in materia universitaria in quanto compatibili”.
11.1. L’art. 33 della Costituzione (L’arte e la scienza sono libere e [#OMISSIS#] ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sulla istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. E’ prescritto un esame di Stato per la ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato) non impone una determinata forma giuridica e si ritiene che il diritto alla così detta “libertà di scuola”, enunciato in tale, fondamentale articolo della Carta, non rechi in sé, come suo implicito corollario, un obbligo di orientamento finalistico non lucrativo e idealistico o solidaristico e sociale e, correlativamente, un divieto a priori del possibile perseguimento di finalità lucrative.
D’altra parte, secondo le migliori interpretazioni di questa (come di altre, analoghe) disposizioni contenute [#OMISSIS#] Costituzione, l’affermazione della “libertà” di scuola, per avere un senso effettivo e pregnante, comprende non solo il contenuto dell’insegnamento, ma si estende a coprire anche la forma organizzativa prescelta – tra quelle lecite, ammesse nell’ordinamento – per tale insegnamento, atteso che la forma organizzativa ben può condizionare l’effettività della libertà (anche) dei contenuti stessi dell’insegnamento.
11.2. A livello di legge ordinaria, la disciplina delle libere Università private rinviene il suo testo fondamentale ancora oggi nel già citato regio decreto n. 1592 del 1933, il cui titolo I (Università e Istituti Superiori), nel disegnare l’Ordinamento di settore (sezione I), dedica le sue prime disposizioni (contenute nel capo I), ai Fini dell’istruzione superiore, stabilendo (art. 1, primo comma) che L’istruzione superiore ha per fine di promuovere il progresso della scienza e di fornire la cultura scientifica necessaria per l’esercizio degli uffici e delle professioni, e che (secondo comma) Essa è impartita, ai fini e [#OMISSIS#] effetti previsti dal presente testo unico: 1) nelle Regie università e nei Regi istituti superiori, indicati nelle annesse tabelle A e B; 2) nelle Università e negli Istituti superiori liberi. Il testo unico del 1933, ma anche le successive leggi di settore (legge 9 [#OMISSIS#] 1989, n. 168, legge 29 luglio 1991, n. 243, legge 30 dicembre 2010, n. 240), tuttavia, non hanno mai introdotto espressi divieti del fine di lucro.
11.3. La [#OMISSIS#] unitarietà del sistema universitario, che vede assieme, appaiate sin dai primi articoli, le Università pubbliche e quelle private, non [#OMISSIS#], di per sé considerata, a giudizio della Sezione, a generare, per sommatoria, un “principio” (implicito e non espresso) di divieto del fine di lucro e della forma della società di capitali per le libere Università private.
11.3.1. Della unità di fini di interesse generale si è già ampiamente detto. Sul piano strutturale è sufficiente il richiamo degli artt. 198 e 199 del testo unico del 1933: il primo stabilisce icasticamente che “Appartiene alla categoria di cui al n. 2° dell’art. 1 ogni Università e Istituto superiore [#OMISSIS#], il cui ordinamento sia conforme alle norme del presente testo unico”; il secondo rende applicabili alle libere Università private “le norme contenute nel Titolo I, sezioni I, II e III” (ossia le norme in materia di Ordinamento, di Personale e di Studenti, [#OMISSIS#] poche eccezioni, irrilevanti ai fini della presente indagine. Il capo II (Autorità accademiche) della sezione I (Ordinamento) del titolo I del regio decreto, inoltre, accomuna le Università pubbliche e gli Istituti superiori, ivi inclusi quelli privati, [#OMISSIS#] disciplina minima della struttura di governo dell’ente, articolata nelle Autorità accademiche (art. 6: “Il governo delle Università e degli Istituti superiori appartiene alle seguenti autorità: 1) rettore delle Università e direttore degli Istituti superiori; 1-bis) corpo accademico; 2) senato accademico; 3) Consiglio d’amministrazione; 4) presidi delle Facoltà e delle Scuole; 5) Consigli delle Facoltà e delle Scuole”). Ma l’unitarietà di sistema e l’omogeneità di regime si apprezzano, ha evidenziato il Ministero, anche con riguardo alle caratteristiche dell’attività didattica svolta dalle Università, anch’esse disciplinate dalla normativa statale. Da [#OMISSIS#], il d.m. 22 ottobre 2004, n. 270 – relativo all’autonomia didattica degli Atenei, in attuazione dell’articolo 17, comma 95, della legge 15 [#OMISSIS#] 1997, n. 127 -, stabilisce, all’art. 3, che le Università rilasciano i seguenti titoli di studio: laurea, laurea magistrale, diploma di specializzazione, dottorato di ricerca. Gli ordinamenti didattici dei corsi di studio devono rispettare, ai sensi del successivo art. 4, gli “obiettivi formativi qualificanti” (e le conseguenti attività formative indispensabili) che sono raggruppati in classi di appartenenza, definite con apposito decreto ministeriale. Nel rispetto delle disposizioni contenute nel d.m. n. 270 del 2004, e nei decreti sulle classi di appartenenza, tutte le Università disciplinano gli ordinamenti dei corsi di studio nel regolamento didattico d’Ateneo (art. 11 del d.m. n. 270 del 2004), approvato, in base a quanto stabilito dall’ art. 11 della legge n. 341 del 990, dal Ministero, sentito il Consiglio universitario nazionale (CUN). Infine, il Ministero evidenzia la riserva di legge, qui già richiamata (art. 10, comma 1, del decreto-legge n. 580, del 1973), dell’uso delle “denominazioni di università, ateneo, politecnico, istituto di istruzione universitaria, possono essere usate soltanto dalle università statali e da quelle non statali riconosciute per rilasciare titoli aventi valore legale a [#OMISSIS#] delle disposizioni di legge“. Si potrebbe proseguire indagando anche gli ulteriori aspetti di omogeneità di regime, quanto, ad esempio, ai [#OMISSIS#] strutturali e organizzativi, ma di tali ulteriori aspetti si dirà più nel dettaglio nei successivi paragrafi.
11.3.2. Questo impianto è stato peraltro sostanzialmente confermato dalla legislazione successiva: la legge 9 [#OMISSIS#] 1989, n. 168 di Istituzione del Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica, nell’abrogare (art. 21) tutte le disposizioni incompatibili, ha peraltro confermato le norme riguardanti le forme specifiche di autonomia delle università non statali autorizzate a rilasciare titoli con valore legale. La legge 29 luglio 1991, n. 243 (Università non statali legalmente riconosciute), già richiamata sopra, al paragrafo 11, che ha introdotto norme per le università e gli istituti superiori non statali che intendano avvalersi del contributo dello Stato, si è limitata (art. 1) a ribadire che “Le università e gli istituti superiori non statali legalmente riconosciuti operano nell’ambito delle norme dell’articolo 33, [#OMISSIS#] comma, della Costituzione e delle leggi che li riguardano, nonché dei principi generali della legislazione in materia universitaria in quanto compatibili”. La legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario) enuncia, nell’art. 1 (Principi ispiratori della riforma), principi generali che sono sicuramente riferibili anche alle libere Università private (“1. Le università sono sede primaria di [#OMISSIS#] ricerca e di [#OMISSIS#] formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti e sono luogo di apprendimento ed elaborazione critica delle conoscenze; operano, combinando in modo organico ricerca e didattica, per il progresso culturale, civile ed economico della Repubblica”). Dei decreti delegati adottati in attuazione della delega contenuta nell’art. 5 della legge (Delega in materia di interventi per la qualità e l’efficienza del sistema universitario) trova piena applicazione anche per le libere Università private il d.lgs. 27 gennaio 2012, n. 19 (artt. 1, comma 1, lettera b), e 3), recante Valorizzazione dell’efficienza delle università e conseguente introduzione di meccanismi premiali [#OMISSIS#] distribuzione di risorse pubbliche sulla base di criteri definiti ex ante anche mediante la previsione di un sistema di accreditamento periodico delle università e la valorizzazione della figura dei ricercatori a tempo indeterminato non confermati al primo anno di attività, con la sola eccezione dell’art. 15, che riguarda l’incentivo per i risultati conseguiti a valere sul fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO), che si applica solo alle Università statali. Il decreto n. 19 del 2012 disegna un complesso sistema nazionale di accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio universitari e di valutazione, assicurazione della qualità e accreditamento delle università, nel quadro delle finalità stabilite all’articolo 5, comma 1, lettera a), primo periodo, della legge delega n. 240 del 2010. Trova altresì applicazione per tutto il sistema universitario, ivi comprese le libere Università private, il d.lgs. 29 marzo 2012, n. 68 concernente la Revisione della normativa di principio in materia di diritto allo studio e valorizzazione dei collegi universitari legalmente riconosciuti.
11.3.3. E tuttavia, si ripete, la Sezione esclude che la somma di questi elementi e il disegno di [#OMISSIS#] e coesa unitarietà del sistema, che accomuna le Università private a quelle pubbliche, pur suggestiva nell’ottica di ipotizzare un’esclusione di finalità commerciali e lucrative per le Università private, possa essere determinante e risolutiva, in senso negativo, del quesito posto dal Ministero di settore, circa la compatibilità del modello della società di capitali con le libere Università private. Questa [#OMISSIS#] coesione e unitarietà di sistema, infatti, reputa la Sezione, si spiega essenzialmente con il già più volte richiamato fine di salvaguardia della “sostanza” di ciò che è l’Università degli studi (pubblica o privata), ma non [#OMISSIS#] ex se limiti alla forma giuridica prescelta e utilizzabile.
11.4. Né pare utile in direzione opposta – ossia nel senso di rinvenire e affermare un tale divieto legislativo – la disciplina della trasformazione in fondazioni di diritto privato prevista per le sole Università statali dall’art. 16 del decreto-legge n. 112 del 2008, lì dove è stabilito – art. 16, comma 4 – che “4. Le fondazioni universitarie sono enti non commerciali e perseguono i propri scopi secondo le modalità consentite dalla loro natura giuridica e operano nel rispetto dei principi di economicità della gestione. Non è ammessa in ogni [#OMISSIS#] la distribuzione di utili, in qualsiasi forma. Eventuali proventi, rendite o altri utili derivanti dallo svolgimento delle attività previste dagli statuti delle fondazioni universitarie sono destinati interamente al perseguimento degli scopi delle medesime“. Tale espressa esclusione della natura commerciale delle fondazioni universitarie e della possibilità per le stesse di distribuire utili non esprime un principio fondamentale, riferibile anche alle libere Università private in quanto immanente al tipo di ente (sotto il profilo finalistico e funzionale), ma risulta evidentemente dettato dalla speciale esigenza, rinvenibile solo nel [#OMISSIS#] specifico delle Università pubbliche che intendano trasformarsi in soggetti di diritto privato, della salvaguardia del compendio patrimoniale, mobiliare e immobiliare, costituente patrimonio pubblico indisponibile, che verrebbe ad essere altrimenti esposto al rischio di dispersione nel [#OMISSIS#] di una trasformazione di tali enti pubblici non già in enti di diritto privato privi di fini di lucro, inscrivibili entro la cornice del libro I del codice civile, bensì quali enti commerciali riferibili al libro V, con le tutte le annesse conseguenze applicative e di regime.
12. [#OMISSIS#] vero, sul piano fenomenologico-sociale, quanto già rilevato da questo Consiglio nel parere della Commissione speciale parere n. 2427/2018 del 26 ottobre 2018, nel quale, nell’escludere la qualificazione delle Università private come “organismi di diritto pubblico” (in tema di non applicabilità della disciplina dei contratti pubblici), questo Consiglio ha tra l’altro dubitato della natura non commerciale e industriale delle attività da esse svolte, sottolineando la “notevole caratterizzazione imprenditoriale e concorrenziale dell’attività svolta (è noto che, oramai, gli istituti di istruzione superiore, soprattutto quelli privati, ma entro certi limiti anche quelli pubblici, operano in una logica di [#OMISSIS#] e propria competizione di mercato, articolando un’offerta formativa e logistica sempre più attraente – percorsi formativi, programmi, disponibilità ricettive, campus, selezione di docenti di vaglia, etc. – per contendersi la platea degli studenti, dalle cui iscrizioni derivano peraltro, di regola, la propria prevalente alimentazione economica)”, ed evidenziando altresì come “anche le università pubbliche sono tenute ormai a gestire il servizio con criteri di economicità, in base ai quali modulano perfino l’ampiezza e il contenuto dello stesso servizio (istituzione o soppressione di dipartimenti e corsi di laurea in relazione al piano finanziario e alle potenzialità del mercato dello studio, investitemi strutturali e calcolo del break even point etc.), per cui si può a ben ragione ritenere che il servizio dell’istruzione universitaria non sia per sé, ontologicamente, di natura non industriale o commerciale, e diventi tale solo ove, a causa della sua meritevolezza, sia gestito dal pubblico con criteri non economici, o dal privato con sostanziosi contributi pubblici. In sostanza sembra doversi escludere la natura non industriale e commerciale sia quando tale esclusione non sia espressamente postulata dalle norme, sia soprattutto quando l’ordinamento di settore sottoponga l’attività non solo al mercato e alla concorrenza, ma soprattutto [#OMISSIS#] ordinari criteri economici aziendali, come nel [#OMISSIS#] di specie“.
Né tali fisiologiche esigenze di migliore adattamento competitivo delle Università degli studi possono dirsi esaustivamente soddisfatte attraverso la possibilità per gli enti no profit di svolgere attività commerciali strumentali al [#OMISSIS#] perseguimento dello scopo sociale altruistico, sfruttando la possibilità, offerta dall’ordinamento giuridico, di partecipazione a società di capitali strumentali, capaci, come società erogatrici di servizi, di acquistare in modo competitivo sul mercato quei beni, servizi e lavori che servono a implementare e potenziare l’offerta didattica e formativa, in tutte le sue manifestazione e declinazioni. Poiché, si ripete, non sussiste un esplicito divieto (o un divieto implicitamente manifestato in modo sufficientemente univoco da una [#OMISSIS#] o da un complesso di norme) di organizzazione delle libere Università private in forma di società di capitali, deve concludersi, in base all’art. 41 Cost. che riconosce e tutela la [#OMISSIS#] iniziativa economica privata, che non può limitarsi l’autonomia dei privati di costituire la loro [#OMISSIS#] iniziativa economica nel settore dell’istruzione superiore [#OMISSIS#] forma for profit della società di capitali, vincolandoli a una gestione “imprenditoriale” (per quanto possibile) di un ente non lucrativo di utilità sociale.
13. Occorre inoltre chiarire – ribadendo in questo senso la centralità e l’ineludibilità del tema della compatibilità del fine di lucro (di divisione degli utili), che [#OMISSIS#] caratterizzante la società di capitali, ai fini di una soddisfacente risposta al quesito – che non appaiono, in quest’ottica, risolutivi i richiami (pur apprezzabili) svolti nel parere del Ministero dell’economia e delle finanze alla disciplina delle società pubbliche (ora racchiuso nel d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 – Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) o al modello dell’impresa sociale (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 112).
13.1. È agevole invero rilevare, quanto alle società pubbliche (siano esse totalitariamente pubbliche o solo partecipate maggioritariamente dal pubblico, siano esse in house o operanti nel [#OMISSIS#] mercato), che tale tipologia si [#OMISSIS#], per nascita e per nozione, come istituto di diritto speciale, spesso regolato da leggi di diritto singolare, sicché, come tale, non offre elementi euristici e regolativi suscettibili di valida generalizzazione teorica. Anzi, il richiamo alle società pubbliche potrebbe in senso opposto servire come argomento a sostegno della tesi della necessità di un intervento del legislatore, per consentire un utile inserimento, nel quadro giuridico attuale, delle libere Università private in forma di società di capitali, e ciò proprio (o quanto meno) allo scopo di risolvere i vari dubbi applicativi e i diversi aspetti di compatibilizzazione, di cui si dirà oltre, di quel modello privatistico rispetto al peculiare e speciale regime proprie di tutte le Università degli studi. Non è un [#OMISSIS#], infatti, che si è reso necessario un apposito testo unico – il citato d.lgs. n. 175 del 2016 – per tentare di dirimere e risolvere le mille questioni interpretative e i mille dubbi applicativi che negli anni hanno afflitto il regime operativo di questi soggetti atipici, fuori sistema, costituiti dalle società pubbliche, nelle loro varie ed eterogenee forme e declinazioni.
13.2. Quanto all’impresa sociale può osservarsi che è vero, da un lato, come osservato dal Ministero dell’economia e delle finanze, che “La natura societaria e la finalità pubblicistica non appaiono infatti incompatibili, anche in considerazione dell’espressa congiunzione tra tali due finalità che emerge nell’istituto dell’impresa sociale, disciplinata dal d.lgs. 3 luglio 2017, n. 112” e che, in particolare, l’art. 2, comma 1, lettera g), contempla, tra le attività d’impresa di interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, proprie di tale tipo d’impresa, anche quella avente ad oggetto la “formazione universitaria e post-universitaria”; ma è altrettanto vero che, in disparte ogni considerazione sulla (non casuale e significativa) collocazione dell’impresa sociale nell’alveo del Terzo settore, come è reso evidente dalla legge di delega n. 106 del 2016, la scelta dello statuto dell’impresa sociale [#OMISSIS#] affidato alla [#OMISSIS#] autonomia dei privati e non è [#OMISSIS#] possibile in questa sede imporre limiti e obblighi ai privati promotori, o formulare una sorta di parere positivo “condizionato” alla scelta della sola forma statutaria dell’impresa sociale. Per far ciò occorre il comando del legislatore. Anche l’argomento dell’impresa sociale, dunque, rischia di condurre in definitiva all’approdo della necessaria intermediazione legislativa.
13.3. Neppure può ammettersi che le due nuove figure giuridiche costituite dalle società benefit e dall’impresa sociale possano esse stesse offrire una soluzione calzante ed esauriente ai fini di una risposta positiva al quesito oggetto del presente parere, che potrebbe dunque essere favorevole, ma alla sola condizione che le libere Università private adottino una delle due suindicate forme speciali societarie, benefit o impresa sociale, in quanto meglio adatte a conciliare le finalità ideali con quelle lucrative. Una siffatta risposta, infatti, pur in astratto percorribile, eluderebbe, in realtà, il punto centrale del quesito – se la forma giuridica della società di capitali, in sé, sia o meno compatibile con la natura e il regime giuridici delle libere Università private – e caricherebbe il parere di un’impropria funzione “normativa” – di limitazione e condizionamento di una libertà dei privati – ovviamente riservata alla legge. In realtà, in questa sede, l’alternativa non può che essere “secca”: delle due, l’una, o non sussiste un divieto positivo o di principio, né si frappongono ostacoli applicativi insormontabili di adattamento del modello societario alla vigente normativa concernente le libere Università private, e allora la risposta al quesito dovrà essere positiva, oppure tali limiti sussistono, e la risposta dovrà dunque essere negativa. Imporre il modello dell’impresa sociale, o quello della società benefit, non risolverebbe il problema e finirebbe per creare in via pretoria un ulteriore modello speciale innominato e atipico di società di capitali.
14. Escluso, quindi, che sussista un divieto di principio nel [#OMISSIS#] ordinamento giuridico a che le libere Università private possano strutturarsi [#OMISSIS#] forma di società di capitali, si tratta ora, come anticipato sopra, di indagare il secondo corno del problema posto dal quesito in esame, ossia se, sul piano del concreto assetto normativo vigente del settore, una tale astratta possibilità possa da potenziale divenire attuale e concretizzarsi in atto. E, come si dirà qui di seguito, la risposta a questo secondo quesito ha da essere positiva, pur potendosi comunque auspicare un ragionato intervento del Legislatore finalizzato a riallineare e risistemare il settore a seguito e per effetto [#OMISSIS#] introduzione, in esso, di tale nuova, possibile configurazione organizzativa delle libere Università private, che non era in tale settore postulata.
15. Giova prendere le mosse dalla ricognizione del quadro normativo di riferimento. A tal fine, nuovamente richiamate qui le Premesse al parere interlocutorio n. 370 del 2019, dove (par. 3) era in sintesi riportata l’analisi che molto utilmente il richiedente Ministero aveva tratteggiato già [#OMISSIS#] prima relazione (prot. n. 0005652 del 20 dicembre 2018) dei [#OMISSIS#] di convergenza e di quelli di differenza nel regime giuridico delle libere Università private rispetto a quelle pubbliche, sembra utile riprendere in questa sede l’ulteriore analisi, molto ben costruita, con la quale l’Ufficio legislativo del Ministero ([#OMISSIS#] relazione integrativa prot. 0001438 del 19 marzo 2019) ha fornito puntualmente nuovi e ulteriori elementi di cognizione e di valutazione richiesti da questo Consiglio in sede interlocutoria. In particolare il Ministero ha provveduto a ricavare dall’esame degli atti costitutivi e degli statuti delle libere Università private le caratteristiche costanti e le invarianti strutturali e funzionali, utili al fine di una connotazione tipologica di tali soggetti, focalizzando l’attenzione sui seguenti [#OMISSIS#]: 1) finalità istituzionali; 2) requisiti necessari per l’istituzione e l’accreditamento; 3) strutture, organi e loro attribuzioni; 4) studenti e diritto allo studio; 5) patrimonio, risorse finanziarie e amministrazione.
16. Guardando ai suddetti ambiti strutturali e organizzativi, occorre a questo punto esaminare i [#OMISSIS#] di esorbitanza dal diritto privato e di eccedenza dal modello tipico privatistico della società di capitali, per come disciplinata dal codice civile, che potrebbero indurre a dubitare della compatibilità in concreto di tale modello con il regime giuridico proprio delle Università private, per come è ancora oggi consacrato [#OMISSIS#] legge positiva vigente. Di seguito a ciascun di tali [#OMISSIS#] converrà poi riportare – per una [#OMISSIS#] chiarezza dell’esposizione – le ragioni che inducono la Sezione a giudicare superabili i suddetti, possibili, dubbi.
16.1. Un primo tratto di specialità del regime delle libere Università private che appare rilevante ai fini della soluzione del quesito proposto è costituito dal rilievo per cui la personalità giuridica è ora conferita con decreto del Ministro dell’istruzione dell’università e della ricerca, nel rispetto degli indirizzi e delle procedure relativi alla programmazione triennale del sistema universitario, stabiliti dal Ministero ai sensi dell’art. 2, comma 5, lettera c) del d.P.R. 27 gennaio 1998, n. 25, dell’art. 1-ter del decreto-legge n. 7 del 2005, convertito dalla legge n. 43 del 2005 e dell’art. 7, commi 2 e 6, del decreto legislativo n. 19 del 2012. Con il provvedimento istitutivo si provvede, altresì, all’accreditamento dell’Università e dei corsi di studio, all’approvazione dello statuto e del regolamento didattico d’ateneo e alla conseguente autorizzazione al rilascio di titoli di studio aventi valore legale.
Ai fini dell’istituzione di una nuova Università non statale, l’art. 200 del testo unico prevede, inoltre, che il Ministero debba accertare che “l’ente promotore” (che può essere un soggetto pubblico o privato) presenti uno statuto “rispondente all’interesse generale degli studi e dell’istruzione superiore” e un piano finanziario “adeguato al raggiungimento dei fini prefissi“, anche con riferimento a quanto previsto dal successivo art. 201, lettere d) ed e), che richiedono, rispettivamente: la presenza di un organico di docenti tale da assicurare l’efficace funzionamento delle strutture di didattica e di ricerca e un trattamento economico almeno pari a quello dei docenti delle Università statali. A tal riguardo il Ministero di settore osserva che, come evidenziato da questo Consiglio di Stato, sezione VI, [#OMISSIS#] sentenza n. 3291 del 25 [#OMISSIS#] 2010 (in merito all’istituzione di una Università non statale), occorre “valutare se l’istituzione di una nuova Università risponda all’esigenza di soddisfare un pubblico interesse” tenendo presente, a tale fine, anche la figura dell’ente promotore, e che la sussistenza di un piano finanziario adeguato da parte dell’ente promotore è condizione necessaria, ma di per sé non sufficiente, a dare seguito alla domanda di istituzione di un nuovo Ateneo non statale, mentre la valutazione dell’adeguatezza delle risorse finanziarie che l’ente promotore deve assicurare all’istituzione non statale è oggi parte del processo di accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio, concesso dal Ministero, ai sensi del d.lgs. n. 19 del 2012, sulla base della valutazione compiuta dall’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario – ANVUR (effettuata, in precedenza, dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario di cui all’art. 2 della legge n. 370 del 1999 e dall’Osservatorio per la valutazione del sistema universitario di cui all’art. 5, comma 23, della legge n. 537 del 1993).
Emerge, dunque, che il momento genetico, di costituzione del nuovo soggetto giuridico, è ampiamente condizionato da penetranti poteri pubblicistici, che ne eterodeterminano forme e contenuti, in deroga all’autonomia privata e al regime previsto dal libro V del codice civile. Ci si domanda se tale spiccata specialità di regime e la presenza di tali poteri ministeriali, estesi, come si è visto, a pregnanti [#OMISSIS#] di merito, che condizionano geneticamente la nascita stessa del soggetto e della persona giuridica e la sua fisionomia, siano compatibili con l’autonomia privata che dovrebbe connotare il contratto societario e la speciale procedura di costituzione della società di capitali prevista dal codice civile.
La Sezione fornisce una risposta positiva a tale dubbio applicativo, sul rilievo per cui non costituisce affatto una novità nel [#OMISSIS#] ordinamento giuridico la subordinazione della costituzione stessa dell’ente privato a un atto di controllo preventivo dell’autorità pubblica, sub specie di autorizzazione o di approvazione dello statuto o di iscrizione in appositi elenchi, condizionanti l’attribuzione della personalità giuridica. Così avviene, ad esempio, per le fondazioni e per le associazioni che vogliano erigersi ad enti morali, secondo la disciplina del libro I del codice civile (artt. 12, 33, ora art. 3 del d.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, 2330, 2331).
16.2. Un’altra clausola esorbitante rispetto al diritto privato si rinviene nell’art. 201 del testo unico del 1933, che impone un articolato e dettagliato contenuto minimo dello statuto, tale da predefinire in modo vincolante la struttura organizzativa dell’ente. Occorre soffermare in particolare l’attenzione sull’art. 6 del r.d. n. 1592 del 1933, applicabile, come detto, anche alle libere Università private in forza del rinvio operato dall’art. 199 stesso regio decreto. L’art. 6, concernente le Autorità accademiche, prevede che “Il governo delle Università e degli Istituti superiori appartiene alle seguenti autorità:
1) rettore delle Università e direttore degli Istituti superiori; 1-bis) corpo accademico; 2) senato accademico; 3) Consiglio d’amministrazione; 4) presidi delle Facoltà e delle Scuole; 5) Consigli delle Facoltà e delle Scuole”. Definisce, quindi, nel terzo comma, le competenze del consiglio di amministrazione e degli altri organi (“Al Consiglio d’amministrazione spettano il governo amministrativo e la gestione economica e patrimoniale dell’Università o dell’Istituto; alle altre autorità, ciascuna nell’ambito della propria competenza, le attribuzioni di ordine scientifico, didattico e disciplinare”). Prevede, inoltre, che “Tutte le attribuzioni esercitate dal senato accademico sono deferite al Consiglio della Facoltà nelle Università o negli Istituti costituiti da una sola Facoltà” e, infine, che “Le autorità accademiche uscenti di carica conservano, nelle more per la conferma o per la sostituzione, le rispettive mansioni per gli atti inerenti al normale funzionamento delle Università o Istituti”.
Aggiunge, inoltre, la relazione ministeriale che “Con riguardo [#OMISSIS#] organi, la legge n. 168/1989, in continuità con la precedente legislazione universitaria, individua implicitamente, e in continuità con la precedente normativa, come organi necessari per tutti gli Atenei: il Rettore, il Senato Accademico e il Consiglio di Amministrazione. Inoltre, ai sensi degli artt. 1 e 3 della L. n. 370/1999, le Università non statali devono dotarsi di un nucleo di valutazione interna”.
È tutto questo in qualche modo compatibile o armonizzabile con la disciplina e il regime giuridici propri degli organi delle società di capitali?
La Sezione esclude che queste previsioni normative siano di ostacolo alla configurazione di una [#OMISSIS#] Università privata come società di capitali, atteso che la predeterminazione normativa del tipo di organi necessariamente presenti all’interno dei diversi tipi di enti, nonché la previsione delle loro funzioni essenziali, è fenomeno giuridico anch’esso già ampiamente conosciuto e presente nel [#OMISSIS#] ordinamento giuridico, sia per gli enti di cui al libro I del codice civile (art. 16), sia per le stesse società di capitali, secondo quanto previsto dal libro V del medesimo codice (ad es., artt. 2328, primo comma, nn. 9) – 11, sezioni VI e VI-bis del capo V del titolo V del libro V, artt. 2363 – 2409-noviedecies).
16.3. L’art. 203 prevede che i bilanci preventivi e i rendiconti consuntivi delle Università e degli Istituti superiori liberi sono comunicati, per conoscenza, al Ministero dell’educazione nazionale. La disciplina specifica relativa all’amministrazione e alla contabilità dell’ente è, invece contenuta nell’apposito regolamento di amministrazione, finanza e contabilità, di cui all’art. 7, comma 7, della legge n. 168 del 1989 (regolamento che è, al pari dello statuto, sottoposto al controllo di legittimità e di merito da parte del Ministero). Ai sensi dell’art. 7, comma 8, di tale legge il “regolamento disciplina i criteri della gestione, le relative procedure amministrative e finanziarie e le connesse responsabilità, in modo da assicurare la rapidità e l’efficienza nell’erogazione della spesa e il rispetto dell’equilibrio finanziario del [#OMISSIS#] . . . Il regolamento disciplina altresì le procedure contrattuali, le forme di controllo interno sull’efficienza e sui risultati di gestione complessiva dell’università, nonché dei singoli centri di spesa, e l’amministrazione del patrimonio“. Con il d.lgs. n. 18 del 2012, in attuazione dell’art. 5, comma 1, lettera b) e 4, lettera a) della legge 240 del 2010, è stata disciplinata l’introduzione di un sistema di contabilità economico patrimoniale per le Università, prevedendo che alcune disposizioni trovino espressa applicazione anche per le Università non statali. In particolare, le Università non statali devono trasmettere al Ministero, ai sensi dell’articolo 8, comma 2, il [#OMISSIS#] unico d’ateneo d’esercizio. Gli schemi (stato patrimoniale e conto economico) utilizzati per la predisposizione dei bilanci hanno una struttura analoga a quelle delle università statali con riferimento ad un livello di aggregazione generale delle macro voci di [#OMISSIS#] (cfr. art. 3, comma 5, d.m. Miur-Mef 14 gennaio 2014, n. 19). Nel rispetto di quanto sopra descritto, l’art. 5, comma 2 e comma 7, del d.lgs. n. 18 del 2012 demandano allo statuto e ai regolamenti di ateneo le modalità e le procedure per la predisposizione e per l’approvazione dei documenti di [#OMISSIS#].
Anche gli ora descritti aspetti riguardanti il tema del [#OMISSIS#] e della contabilità delle Università degli studi, anche private, esibiscono elementi di esorbitanza e di specialità rispetto al normale regime di diritto privato delle società di capitali.
La Sezione tuttavia esclude che i suindicati elementi di specialità, peraltro piuttosto contenuti, rappresentino un ostacolo gestionale non superabile. L’ordinamento giuridico, d’altra parte, conosce numerosi casi in cui persone giuridiche di diritto privato sono obbligate alla tenuta di determinate forme di contabilità e di [#OMISSIS#], o a fornire comunicazioni e informazioni contabili e gestionali particolari, spesso proprio in ragione del rilievo generale dell’attività svolta o del settore nel quale operano. In disparte le norme civilistiche generali sul [#OMISSIS#] delle società di capitali (artt. 2423 c.c.), si pensi – tra gli altri settori – alle banche e [#OMISSIS#] intermediari finanziari (decreti legislativi nn. 385 del 1993 e 58 del 1998), ove il potere regolamentare delle Autorità di vigilanza può prescrivere attività di rendicontazione e la comunicazione di informazioni anche ulteriori rispetto a quelle già stabilite [#OMISSIS#] normativa (ivi incluse le informazioni di carattere non finanziario di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni, ai sensi del d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254); o si pensi alle imprese che operano nel campo delle assicurazioni (in base al codice delle assicurazioni private di cui al d.lgs. n. 209 del 2005); ma si pensi anche a tutti i soggetti che svolgono, anche in regime di concessione, servizi pubblici, per i quali la [#OMISSIS#] legislazione di settore sovente impone la tenuta di bilanci separati per il tipo di attività di servizio pubblico o di garantire comunque forme speciali e ulteriori di accountability in relazione al servizio pubblico svolto.
16.4. L’art. 207 del testo unico del 1933 prevede una sostanziale interscambiabilità dei professori (Ai posti vacanti di professore possono trasferirsi col loro consenso professori di ruolo appartenenti ad Università o ad Istituti di cui alle tabelle A e B o ad Università e Istituti superiori liberi). Più in generale, ai sensi dell’art. 62, comma 2, del testo unico del 1933 e dell’art. 4 della legge n. 243 del 1991, i docenti delle Università non statali hanno la medesima “condizione giuridica” dei docenti delle Università statali, i quali, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, sono in regime di diritto pubblico. Per quanto riguarda il personale tecnico amministrativo delle Università non statali, invece, il testo unico prevede, all’art. 201, lett. o), che la relativa disciplina sia demandata [#OMISSIS#] statuti degli Atenei. Di regola, le Università non statali applicano, per tale personale, contratti relativi a comparti del settore privato.
Anche questi [#OMISSIS#] pongono interrogativi di compatibilità con il modello e il regime di gestione di un’impresa [#OMISSIS#] forma della società di capitali.
Ma anche tali dubbi appaiono superabili. Ed invero, se era già ammesso il “doppio regime” – pubblicistico per il personale docente, privatistico per quello tecnico-amministrativo – per le attuali libere Università private, già riconosciute come persone giuridiche di diritto privato riferibili al libro I del codice civile, non si vede perché la configurazione di tali soggetti – sempre di diritto privato – nelle modalità della società di capitali debba invece comportare ragioni di contrasto o di incompatibilità rispetto ai qui esaminati [#OMISSIS#] concernenti il rapporto di lavoro del personale universitario.
16.5. L’art. 212 del testo unico del 1933 prevede il potere ministeriale di soppressione delle Università e degli Istituti superiori liberi o di alcune loro Facoltà o Scuole quando sia stata accertata l’insufficienza dei mezzi finanziari o del materiale didattico di cui dispongono, ovvero per ragioni inerenti all’interesse generale degli studi o alla distribuzione territoriale degli Istituti di istruzione superiore. Un tale potere amministrativo – potrebbe osservarsi – cozza con l’autonomia organizzativa della società di capitali, risultando difficilmente compatibile con le cause di scioglimento considerate tassative, a tutela dei terzi e della sicurezza della circolazione dei diritti. Più in particolare, il venire meno di uno dei due requisiti – a) uno statuto “rispondente all’interesse generale degli studi e dell’istruzione superiore“; b) un piano finanziario “adeguato al raggiungimento dei fini prefissi“, comporta la soppressione dell’Ateneo, disciplinata dall’art. 2, comma 5, lettera d), del d.P.R. n. 25 del 1998 e, in connessione ai processi di accreditamento, dall’art. 7, comma 8, del d.lgs. n. 19 del 2012 disposta, anch’essa, con apposito decreto ministeriale, che “disciplina le modalità attuative ed i tempi, sulla base dei seguenti principi“, finalizzati a garantire “[#OMISSIS#] studenti il completamento degli studi“, e “al personale docente e ricercatore il mantenimento del posto, anche in altra sede universitaria“. Alle Università statali e non statali si applicano le medesime modalità di soppressione, disposta con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, che comporta non soltanto la revoca di una autorizzazione al rilascio di titoli di studio ma anche l’estinzione dell’Ateneo come persona giuridica.
Orbene, in disparte la considerazione che anche per i soggetti del libro I del codice civile sono previsti casi di [#OMISSIS#] ingerenza dell’autorità governativa nell’estinzione o [#OMISSIS#] trasformazione della persona giuridica privata (art. 28 c.c.), deve osservarsi, in senso favorevole alla non ostatività di tale previsione speciale rispetto alla configurabilità delle libere Università private come società di capitali, che il sopra riferito potere ministeriale soppressivo nasce e [#OMISSIS#] strettamente legato al controllo della funzionalità oggettiva dell’Università, si incanala, dunque, nell’alveo, ampiamente tracciato, dei penetranti poteri di controllo pubblico sulla preservazione dell’identità dell’Università in quanto tale, nelle sue componenti oggettive e funzionali, di talché si colloca sostanzialmente sullo stesso piano di tutti gli altri poteri amministrativi posti dalla legge speciale di settore a salvaguardia del rispetto degli standard minimi contenutistici e qualitativi dell’attività (di interesse generale) propria dell’Università in quanto tale. Si tratta, dunque, di un potere che si [#OMISSIS#] in linea con altri poteri che, analogamente, possono condurre alla revoca o all’annullamento del riconoscimento, con il conseguenziale venir meno della “equipollenza” del titolo di studio rilasciato e l’espulsione dell’ente dal sistema delle Università pubbliche e private di cui al testo unico del 1933 e alla legge n. 240 del 2010. Il potere estintivo in esame, dunque, non sembra, in sé considerato, idoneo a mutare l’esito complessivo della disamina del quesito proposto, che deve essere confermato nel senso della non incompatibilità delle libere Università private con la forma giuridica delle società di capitali.
16.6. Neppure pare ostativa alla soluzione qui prescelta l’osservazione contenuta nel parere della Ragioneria generale dello Stato allegato alla nota del Ministero dell’economia e delle finanze di riscontro del parere interlocutorio della Sezione, secondo la quale l’ammissione delle libere Università private alla forma della società di capitali assoggetterebbe questi enti, che attualmente vi sono sottratti, alla disciplina fallimentare, con conseguente aggredibilità del loro patrimonio. Osserva, invero, la Ragioneria che “Sulla base della disciplina attuale, infatti, il fallimento, la liquidazione o lo scioglimento dell’ente promotore o sostenitore dell’Università non statale sembra non comportare lo scioglimento dell’Università, essendo il patrimonio di quest'[#OMISSIS#] indipendente e vincolato esclusivamente al perseguimento dell’obiettivo fondativo”, mentre “la costituzione o la trasformazione delle Università non statali in società di capitali renderebbe possibile non solo il fallimento del singolo ente ma anche il rischio di scioglimento a seguito del fallimento o liquidazione del soggetto titolare delle quote e azioni di quest'[#OMISSIS#] o il normale trasferimento di proprietà di queste ultime”.
Orbene, trattandosi di patrimonio di enti privati, costituiti e alimentati da contribuzioni e proventi di privati (essendo acclarato che la contribuzione pubblica alle libere Università private presenta un rilievo percentuale fortemente minoritario, se non marginale), non si ravvisano, in tali, corrette osservazioni, ragioni impeditive della soluzione favorevole a una risposta positiva al quesito in esame: la configurazione di tali soggetti [#OMISSIS#] forma delle società di capitali li esporrà certamente a tutte le conseguenze giuridiche, in termini di responsabilità patrimoniale per le obbligazioni contratte, comuni al regime di diritto privato. Ma tale profilo conseguenziale non pare costituire un ostacolo alla soluzione prescelta.
16.7. Un rilievo particolarmente importante riveste poi il profilo del riconoscimento del valore legale dei titoli rilasciati. L’art. 10 del decreto-legge 1° ottobre 1973, n. 580 (Misure urgenti per l’Università), convertito, con modificazioni, [#OMISSIS#] legge 30 novembre 1973, n. 766, riservava le denominazioni di università, ateneo, politecnico, istituto d’istruzione universitaria, alle sole università statali e a quelle non statali riconosciute per rilasciare titoli aventi valore legale a [#OMISSIS#] delle disposizioni di legge. La legge 7 agosto 1990, n. 245 (art. 6, poi abrogato dall’art. 4 del d.P.R. 27 gennaio 1998, n. 25) ha demandato a un decreto ministeriale (secondo le espresse indicazioni contenute nel piano su conforme parere delle competenti commissioni parlamentari) il riconoscimento alle università non statali della facoltà di rilasciare titoli di studio con valore legale, riconoscimento fino ad allora riservato alla legge. In base al vigente art. 2, comma 5, lettera c), del d.P.R. n. 25 del 1998 “L’istituzione e la soppressione di università . . . sono disposte con appositi decreti del Ministro, che disciplinano le modalità attuative ed i tempi sulla base dei seguenti princìpi: . . . c) l’istituzione di nuove università o istituti di istruzione universitaria non statali, legalmente riconosciuti, nonché l’autorizzazione al rilascio di titoli aventi valore legale avviene contestualmente all’approvazione dello statuto e del regolamento didattico di ateneo, di cui all’articolo 11, comma 1, della legge 19 novembre 1990, n. 341. A tali università o istituti si applicano le disposizioni di cui alla legge 29 luglio 1991, n. 243”.
La disciplina del valore legale dei titoli appare tuttavia diretta essenzialmente al fine di garantire l’alto livello qualitativo del titolo (dell’attività didattico-scientifica che si riflette conclusivamente nel titolo), poiché è essenziale che le libere Università private presentino e assicurino un livello di impegno e di rigore scientifico-culturale almeno pari a quello proprio delle Università statali/pubbliche, affinché il valore qualificante del titolo universitario – pubblico o privato – non ne venga complessivamente svalutato. Ma non apporta, come tale, argomenti decisivi, nell’uno o nell’altro senso, ai fini della soluzione del quesito sollevato dal Ministero.
17. Conclusivamente, ad avviso della Sezione, al quesito se, nell’ambito della disciplina vigente, le Università non statali (o anche “Università Libere” o “Università private”) possano acquisire la forma di società di capitali, deve fornirsi una risposta affermativa.
18. Non è invece ammissibile, ad avviso della Sezione, la seconda domanda contenuta [#OMISSIS#] richiesta di parere, chiesto «in ordine . . . 2. alle eventuali limitazioni alle quali le Università non statali aventi la forma delle società di capitali dovrebbero essere sottoposte».
Come già chiarito nei paragrafi 13.2 e 13.3, non spetta a questo Consiglio, in sede consultiva, forgiare “in positivo” un ulteriore tipo speciale di società di capitali, caratterizzato da particolari limitazioni che non siano quelle già previste dalla legislazione vigente: ferme restando, dunque, come è ovvio, tutte le limitazioni e le caratterizzazioni – finalistiche, funzionali, strutturali, organizzative, gestionali – nascenti dalla disciplina di settore, dal regio decreto n. 1592 del 1933 fino alla legge n. 240 del 2010 e annessi decreti delegati – che ineriscono e sono immanenti all’Università degli studi in quanto tale, eventuali altre limitazioni e caratterizzazioni (ad esempio, l’esclusione ex ante di ogni contribuzione pubblica, oppure l’obbligo di collocarsi nell’ambito della tipologia delle società benefit o di porsi come impresa sociale o altro ancora) dovranno, se del [#OMISSIS#], essere deliberate e introdotte nell’ordinamento giuridico dalla legge, nel rispetto dell’art. 33, [#OMISSIS#] comma, della Costituzione.
19. In stretto raccordo con queste ultime considerazioni sui limiti propri del presente parere, rispetto all’area naturalmente riservata alla legge, la Sezione ritiene di dovere evidenziare come l’ampia analisi sopra svolta dei [#OMISSIS#] di eccedenza del regime delle libere Università private rispetto al modello tipico della società di capitali, per come disegnato nel [#OMISSIS#] V del codice civile, se – come detto – non impedisce una risposta positiva al quesito posto dal Ministero di settore, suggerisce tuttavia di non sottovalutare il rischio che, in mancanza di un’apposita disciplina normativa di adattamento, le nuove società di capitali contenenti libere Università private possano incontrare [#OMISSIS#] prassi operativa taluni problemi applicativi. Ritiene in tale ottica la Sezione di dovere rappresentare all’Autorità di governo l’esigenza di valutare pertanto attentamente l’opportunità di farsi promotrice comunque, dinanzi al Parlamento, di apposite modifiche normative che, intervenendo anche sul testo unico di cui al regio decreto n. 1592 del 1933, possano aggiornare la disciplina normativa e adattarla meglio all’ingresso, nel sistema dell’istruzione superiore universitaria, di libere Università private [#OMISSIS#] forma di società di capitali.
P.Q.M.
Nei termini suesposti è il parere della Sezione.
IL [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] Zucchelli
L’ESTENSORE [#OMISSIS#] [#OMISSIS#]
IL SEGRETARIO [#OMISSIS#] De Paolis