Corte dei conti reg., Lombardia, 3 febbraio 2020, n. 11

Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico – Professore universitario a tempo pieno - Dovere di esclusiva - Attività libero-professionali vietate – Danno erariale ex art.53, co.7, d.lgs. n.165 – Danno ulteriore da differenze stipendiali tra tempo pieno e tempo definito

Data Documento: 2020-02-03
Area: Giurisprudenza
Massima

In caso di espletamento di attività extralavorative remunerate e non autorizzate dal datore da parte di un pubblico dipendente, qualora costui rifiuti di riversare alla propria amministrazione, in base all’art. 53, co.7 e 7-bis, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, gli importi percepiti, la giurisdizione spetta sempre alla Corte dei Conti anche per gli introiti anteriori alla introduzione del comma 7-bis nell’art. 53 cit. ad opera della legge n. 190 del 2012, essendo norma ricognitiva del pregresso indirizzo giurisprudenziale favorevole alla giurisdizione contabile.

A fronte di un danno cagionato alla P.A. da un pubblico dipendente, è proponibile sia l’azione civile nei suoi confronti da parte della P.A. danneggiata, sia la doverosa e officiosa azione della Procura contabile, ma non può essere adottata una doppia condanna, in ossequio al ne bis in idem.

In caso di espletamento di attività extralavorative remunerate e non autorizzate dal datore da parte di un pubblico dipendente, sull’obbligo di riversare alla propria amministrazione gli importi percepiti in base al novello art. 53, co.7 bis, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, ha giurisdizione la Corte dei Conti secondo il regime dell’ordinario giudizio di cognizione e non di quello sanzionatorio di cui agli artt. 133 segg., d. lgs. 26 agosto 2016 n. 174.
 
Ai professori universitari a tempo pieno, in base all’art.6, co.10 l. n.240 del 2010, più largheggiante rispetto al previgente art.11, co.5, d.P.R. n.382 del 1980, è consentito l’espletamento di attività consulenziale, ma non di attività libero-professionale, che non è dunque neppure autorizzabile dal Rettore, non potendo un atto amministrativo derogare ad un divieto legislativo assoluto.

Per i professori universitari a tempo pieno, il distinguo logico-concettuale tra attività consulenziali consentite e attività libero-professionali vietate, va individuato facendo riferimento ad un criterio basico, ovvero la fitta reiterazione e continuità temporale delle formali consulenze, e a due indici sintomatici,  di per sé non probanti in modo assoluto, ovvero l’entità degli introiti (superiori alla retribuzione annua da professore) e l’apertura di partita IVA. Qualora concorrano il criterio base e uno dei due indici sintomatici, l’attività, pur formalmente qualificata come consulenziale, configura una attività libro-professionale vietata e non autorizzabile.

A fronte dell’espletamento da parte di professori universitari a tempo pieno di attività libero-professionali vietate dalla legge Gelmini, oltre al danno erariale previsto dall’art.53, co.7, d.lgs. n.165 del 2001, si configura un ulteriore danno per le maggiorazioni stipendiali percepite quale professore a tempo pieno rispetto a quelle spettanti al professore a tempo definito.

In caso di espletamento di attività extralavorative remunerate e non autorizzate dal datore da parte di un pubblico dipendente, l’obbligo di riversare alla propria amministrazione gli importi percepiti in base all’art.53, co.7 e 7 bis, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, impone un calcolo al netto e non al lordo delle somme da versare, essendoci già stato un prelievo fiscale a favore della P.A. al momento della erogazione e della dichiarazione dei redditi.

Contenuto sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA LOMBARDIA
composta dai Magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#]                                         Presidente
[#OMISSIS#] TENORE                                                Giudice rel.
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#]                              Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di responsabilità, ad istanza della Procura Regionale, iscritto al numero 29335 del registro di segreteria, nei confronti di:
PIZZIGONI [#OMISSIS#], C.F. PZZTTL47R10A794A, nato il 10.10.1947 a Bergamo e ivi residente in via Monte Ortigara 25, con domicilio eletto presso il difensore nominato Avv. Prof.ssa Mariacarla [#OMISSIS#], da cui è rappresentato e difeso giusta procura in atti;
ascoltata, nell’odierna udienza pubblica del 22.1.2020, la relazione del Magistrato designato prof. [#OMISSIS#] Tenore e uditi gli interventi del Pubblico Ministero nella persona del Vice Procuratore Generale cons.Barbara Pezzilli, e dell’avv. Mariacarla [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] Perfettiper la parte convenuta;
viste le leggi 14 gennaio 1994, n. 19 e 20 dicembre 1996, n. 639.
FATTO
Con atto di citazione del 18.3.2019, la Procura Regionale evocava in giudizio il prof. [#OMISSIS#] Pizzigoni, all’epoca dei fatti professore associato di Composizione Architettonica e Urbana presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli studi di Bergamo dall’1.1.2005, esponendo quanto segue:
che, con denuncia 1.2.2018, la Guardia di Finanza di Bergamo aveva segnalato alla Procura contabile un possibile danno erariale prodotto dal prof. Pizzigoni;
che tale danno si sarebbe configurato in relazione alla violazione dell’art.60, d.P.R. n.3 del 1957, dell’art.11, d.P.R. 11.7.1980 n.382, dell’art.6, co.9, l. n.240 del 2010 e dell’art.53, co.6-7bis, d.lgs. n.165 del 2001, avendo il prof. Pizzigoni, svolto con partita iva 00456810167 attività libero professionali da architetto non autorizzabili dal 2005 al 2015;
che detta violazione normativa, foriera di danno erariale, si era configurata nei soli periodi in cui il prof.Pizzigoni aveva optato per il regime del tempo pieno universitario, avendo lo stesso più volte mutato detto regime, optando:
per il tempo pieno dall’1/01/2005 al 30/09/2006;
per il tempo definito dall’ 1/10/2006 al 30/09/2010;
per il tempo pieno dall’1/10/2010 al 28/2/2013;
per il tempo definito dall’1/03/2013 al 30/09/2016;
per il tempo pieno dal 1/10/2016 al 28/02/2017;
che tali attività libero-professionali vietate si erano configurate in relazione a cinque tipologie di incarichi, dettagliatamente indicati alle pagg. 8-15 della citazione, da intendersi qui trascritte, riguardanti:
– attività libero professionale di architetto svolta in favore del privato Vicentini [#OMISSIS#] (ristrutturazione dell’immobile di proprietà) in regime di partita iva, limitatamente al periodo 2011 in cui era in regime di tempo pieno, comportante emissione di tre  fatture per un  importo di € 26.416,00;
– attività libero professionale di architetto svolta in favore della AZZANO 2000 S.r.l. (progettazione architettonica e direzione lavori per l’edificazione del centro commerciale “Ex Flamma” e progettazione opere di urbanizzazione) in regime di partita iva, limitatamente al periodo giugno-settembre 2006 in cui era in regime di tempo pieno, con illegittimità della sola quota parte del compenso riferita ai predetti quattro mesi pari ad € 7.493,84 (€ 91.800,00 : 49 mesi = € 1.873,46 x 4 mesi);
– attività libero professionale di architetto svolta, senza autorizzazione datoriale dal 2005 al 2015, in favore dell’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII (partecipazione alla commissione incaricata del collaudo tecnico-amministrativo dell’appalto principale del nuovo ospedale di Bergamo e poi di lavori aggiuntivi) in regime di partita iva, emettendo 31 fatture indicate a pagg. 12-13 della citazione per un totale di euro 991.145,19;
– attività libero professionale di architetto svolta in favore dell’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII (progettazione e il coordinamento per la sicurezza in fase di progettazione, di contabilità dei lavori e di direzione lavori per la realizzazione di un Comunità Residenziale Psichiatrica, due Centri psicosociali ed un Centro Diurno in via Boccaleone a Bergamo) in regime di partita iva, iniziato dal prof.Pizzigoni nel 2002, antecedentemente all’assunzione presso l’Università, ma protrattosi sino al 2010 e svolto anche in periodi di tempo pieno universitario con riferimento  a 7 fatture indicate a pag.15 della citazione e comportanti introiti per 132.829,59 euro;
– lezione sul tema “La nascita dei grattacieli” presso il Liceo Scientifico Statale Mascheroni di Bergamo, per un totale di due ore e un compenso lordo di € 60,00 a ora, svolta nell’esercizio di attività professionale come dimostrato da emissione di fattura 2/2012 di euro 129,79;
e)  che tali attività libero-professionali non autorizzate dall’Università, e dolosamente occultate in quanto non oggetto di richiesta autorizzatoria (anche una asserita autorizzazione del Rettore [#OMISSIS#] per le attività svolte per l’Azienda ospedaliera Papa Giovanni XXIII, invocata dal convenuto, non risultava confermata dall’Università), avevano comportato un duplice danno: e.1) per la differenza del trattamento economico percepito tra il regime di impiego a tempo pieno e il regime di impiego a tempo definito previsto per il personale universitario, pari ad € 63.798,24, al lordo degli oneri fiscali e previdenziali; e.2) per omesso riversamento all’Università di Bergamo dei compensi extralavorativi libero-professionali percepiti, con pacifica violazione dell’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165/2001, pari, per le cinque tipologie di incarichi indicate sub d), ad euro 1.150.520,75 lordi;
f) che le deduzioni pervenute in riscontro all’invito a dedurre non erano risultate idonee a superare l’ipotesi accusatoria.
Tutto ciò premesso, la Procura chiedeva la condanna del convenuto al pagamento, a favore dell’Università di Bergamo, della somma di € 1.214.319,00 (€ 63.798,24 + € 1.150.520,76), oltre accessori.
Si costituiva il prof Pizzigoni, difeso dall’avv.prof. Mariacarla [#OMISSIS#], eccependo quanto segue:
la prescrizione della domanda attorea, avendo il prof Pizzigoni  comunicato il 12.1.2005 ed il 25.5.2005 gli incarichi contestati presso la Azienda Ospedaliera di Bergamo, che ne era dunque a conoscenza senza alcun doloso occultamento del convenuto;
che, in ogni caso, l’attività svolta presso l’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII di Bergamo era consentita, ai sensi dell’art.11, co.5, d.P.R. n.382 del 1980 e dell’art.6, co.10 l. n.240 del 2010, configurandosi quale attività di “collaborazione scientifica” e di “consulenza tecnico-scientifica” per enti pubblici territoriali, permessa anche a professori  a tempo pieno, e non già quale attività libero-professionale, vietata;
che difettava dolo o colpa grave in capo al prof. Pizzigoni, stante la buona fede derivante da rassicurazioni ricevute dai vertici dell’Azienda Ospedaliera di Bergamo, dal Rettore e dal proprio commercialista che avevano ingenerato un ragionevole affidamento sulla legittimità del proprio agere;
che l’autorizzazione del Rettore dell’Università di Bergamo vi era stata per la consulenza all’Ospedale Papa Giovanni XXIII, contrariamente a quanto affermato dalla Procura, come acclarato e comprovato con recente nota 19.6.2019 n.33889/19 dell’ASST S.Giovanni XXIII (già Ospedale Papa Giovanni XXIII)  che, su richiesta del prof.Pizzigoni, aveva trasmesso allo stesso sia la richiesta dell’Azienda all’Università all’Università di Bergamo di nominativi per un consulente per il collaudo ospedaliero, sia la risposta data dal Rettore con indicazione, tra i professori idonei, anche del Pizzigoni in quanto attività espletabile con lo status rivestito a tempo pieno, sia documentazione comprovante l’avvenuta “autorizzazione” datoriale 25.5.2005 concernente l’incarico de quo, evenienza che avallava la buona fede del convenuto sin dal 2005;
che, in ordine al quantum contestato per attività svolta per l’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII di Bergamo, era scorretto il conteggio dei compensi per i prolungati lavori aggiuntivi fatto dalla Procura, agganciato retroattivamente all’incarico iniziale del 2005 quando il Pizzigoni era in regime di tempo pieno, senza considerare i periodi 2007-2010 in cui era  a tempo definito; ciò comportava che le fatture indicate nei due prospetti inseriti alla pag. 14 della comparsa, pari ad euro 872.657,41, erano da ascrivere a periodi di tempo definito in cui era consentita attività extra universitaria.
Tutto ciò premesso, la difesa, ribadendo la prescrizione della domanda, chiedeva il rigetto della pretesa attorea e, in via gradata, una più equa rideterminazione del quantum contestato, scomputando gli introiti extralavorativi afferenti il periodo a tempo definito. Formulava poi richieste istruttorie.
All’udienza del 22.2.2020, udita la relazione del magistrato designato, le parti ribadivano e sviluppavano i rispettivi argomenti. Quindi la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
La questione sottoposta al vaglio della Sezione concerne un tema ormai arato sul piano giurisprudenziale e concernente la violazione dell’art.53, co.6-7bis, del d.lgs. n.165 del 2001 a seguito dell’espletamento di attività extralavorative non autorizzate o non autorizzabili da parte di pubblici dipendenti. Sulla ratio della norma e sul suo inquadramento sistematico nell’ambito del generale principio di esclusività delle prestazioni nel lavoro pubblico ex art.98 cost., è dunque sufficiente il rinvio a precedenti specifici, i cui enunciati generali sono da intendere qui ribaditi in ordine al riparto basico tra attività vietate (art.60 segg., richiamato dall’art.53, co.1, d.lgs. n.165 del 2001), attività autorizzabili (art.53, co.2 e 7, d.lgs. n.165 del 2001)  e attività liberalizzate (art.53, co.6, d.lgs. n.165 cit.) ed alle conseguenze derivanti dall’espletamento di attività vietate o non autorizzate ex art.53, co.7, d.lgs. n.165: ex pluribus, C.conti, sez.Lombardia 7 maggio 2019 n. 94; id., 25 novembre 2014 n. 216, id., 30 dicembre 2014 n. 233, id., 16 aprile 2015 n.54, id., 12 ottobre 2018 n.199; id., 31 ottobre 2018 n. 216.
Ma il caso in esame presenta una significativa variante rispetto ai tradizionali giudizi di questa Corte, riguardando un professore universitario, appartenente, come tale, a carriera non privatizzata retta, anche sul piano delle attività extralavorative vietate, autorizzabili o liberalizzate, da un peculiare regime, distinto a seconda che si tratti di professori a tempo pieno o a tempo definito, e significativamente diverso da quello al quale sono sottoposti i restanti pubblici dipendenti, ovvero quello normato dall’art.11, co.5, d.P.R. n.382 del 1980 e soprattutto oggi dall’art.6, co.9 e 10, l. n.240 del 2010, da coordinare con i precetti generali dell’art.53, d.lgs. n.165 citato.
Va premesso, prima di analizzare il merito, che, dopo alcune incertezze iniziali, è oggi pacifica la giurisdizione esclusiva di questa Corte sul mancato versamento delle somme dovute dal pubblico dipendente alla propria amministrazione ai sensi dell’art.53, co.7, d.lgs. n165, e che la disposizione di cui al comma 7 bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotta dalla legge n. 190 del 2012, nell’attribuire testualmente la giurisdizione alla Corte dei Conti, non riveste carattere innovativo, ma si pone in “rapporto di continuità regolativa” con l’orientamento giurisprudenziale già delineatosi, con la conseguenza che la regola da essa esplicitata a livello di fonte legale era valida anche in precedenza, sia nell’attuale che nella pregressa formulazione (anteriore alla novella apportata dalla l. n.190 del 2012): così Cass., sez.un., 14.1.2020 n. 415; id., sez.un., 26.6.2019 n.17124; id., sez.un., 2.11.2011 n.22688;  id., sez.un., 22 dicembre 2015, n. 25769, in sintonia con pregresso e lungimirante indirizzo di questa sezione espresso, tra le altre, con sentenza C.conti, sez.Lombardia, 25 novembre 2014 n. 216, vero e proprio leading case in materia.
Pertanto, al pari di quanto ritenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione in riferimento all’art. 58 della legge 8 giugno 1990, n. 142, il quale ha disposto per gli amministratori degli enti locali l’osservanza delle disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili dello Stato, con l’effetto di estendere al settore della responsabilità per danno erariale arrecato dall’amministratore all’ente locale le norme di carattere processuale attribuenti la giurisdizione alla Corte dei conti (Cass. sez.un., 30 giugno 1999, n. 360, Cass., sez.un., 6 giugno 2002, n. 8229, Cass., sez.un., 9 febbraio 2010, n. 2786), l’anzidetta disposizione del comma 7 bis, per il principio tempus regit actum, è da ritenersi applicabile comunque ai giudizi di responsabilità instaurati dopo l’entrata in vigore della legge (che lo ha introdotto: legge n. 190 del 2012), ancorché per fatti commessi in epoca anteriore (così testualmente Cass., sez.un., 26.6.2019 n.17124 cit.).
Quanto, poi, al profilo che attiene alla posizione della P.A. di appartenenza del dipendente percettore di compenso in difetto di autorizzazione, se tale Amministrazione non si attivi, anche in via giudiziale, facendo valere l’inadempimento degli obblighi del rapporto di lavoro, per ottenerne il riversamento nel proprio bilancio e abbia, invece, a tal fine agito il Procuratore contabile, in ragione della responsabilità erariale di cui alla tipizzata fattispecie legale ex art. 53, commi 7 e 7 bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, non potrà più la medesima Amministrazione promuovere azione per ottenere detto riversamento, con conseguente sterilizzazione della possibilità di un conflitto di giudicati. Infatti, è da escludere, stante il divieto del bis in idem, una duplicità di azioni attivate contestualmente che – seppure recanti la propria specificità – tendono a conseguire, dinanzi al giudice munito di giurisdizione per ciascuna di esse, lo stesso identico petitum (predeterminato dal legislatore) in danno del medesimo soggetto obbligato in base ad un’unica fonte (quella legale) e cioè i compensi percepiti dal dipendente pubblico in difetto di autorizzazione allo svolgimento dell’incarico che li ha determinati, i quali una volta soltanto possono essere oggetto di recupero al fine di essere destinati al bilancio dell’amministrazione di appartenenza di quel dipendente.
Per concludere sul punto, la giurisdizione di questa Corte sussiste oggi per il danno erariale nascente dal mancato versamento delle somme dovute dal pubblico dipendente alla propria amministrazione ai sensi dell’art.53, co.7, d.lgs. n165, quale che sia la data di espletamento delle attività extralavorative (nella specie dal 2005 al 2015).
Sempre in via preliminare, in perfetta sintonia con l’accurata pronuncia delle sezioni riunite di questa Corte 31.7.2019 n.26, va ribadita la giurisdizione secondo [#OMISSIS#] ordinario tipico di questa Corte, come già chiarito  anche da questa Sezione con risalente sentenza n. 31 del 2012, in sede di appello (cfr. Corte dei conti, Sezione I, sent. n. 406 del 2014), e in sede di decisione del conseguente ricorso per Cassazione (cfr. Cass. sez.un., n. 25769 del 2015, oltre che nel precedente nomofilattico di cui alla sent. Cass. sez.un. n. 22688 del 2011), in quanto collegata alla prospettazione di un “danno” conseguente alla violazione dell’obbligo di riversamento di cui all’art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 65 del 2001: va escluso, dunque, che, nella fattispecie, si versi in una fattispecie di sanzioni pecuniarie irrogate dalla Corte dei conti, quale disciplinata ex artt. 133 e seguenti del d. lgs. 26 agosto 2016 n. 174. La condotta omissiva del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore, di cui al successivo art. 53, co.7 bis, dà quindi luogo ad un’ipotesi autonoma di responsabilità amministrativa tipizzata, a carattere risarcitorio del danno da mancata entrata per l’amministrazione di appartenenza del compenso indebitamente percepito e che deve essere versato in un apposito fondo vincolato. Dalla natura risarcitoria di tale responsabilità consegue l’applicazione degli ordinari canoni sostanziali e processuali della responsabilità, con [#OMISSIS#] ordinario, previa notifica a fornire deduzioni di cui all’art. 67 c.g.c.
Venendo al merito, la vicenda può essere esaminata allo stato degli atti, senza necessità di assumere le prove formulate dalla difesa del convenuto, la cui istanza va dunque respinta.
Va in primo luogo esclusa la violazione dell’art.53, co.7, d.lgs. n.165 ad opera dell’incarico svolto dal prof. Pizzigoni quale relatore nella singola lezione sul tema “La nascita dei grattacieli” presso il Liceo Scientifico Statale Mascheroni di Bergamo, per un totale di due ore e un compenso lordo di € 60,00 a ora, svolta, secondo la attrice Procura, nell’esercizio di attività professionale come dimostrato da emissione di fattura 2/2012 di euro 129,79.
E’ agevole rilevare come l’espletamento di convegni, seminari, lezioni, docenze, eventi formativi, è testualmente liberalizzato sia dal regime generale valevole per tutti i pubblici dipendenti (v. art.53, co.6, lett.c ed f-bis, d.lgs. n.165 del 2001), sia da quello specifico previsto per i docenti universitari anche a tempo pieno (art.6, co.10, l. n.240 del 2010; in precedenza art.11, u.co.,  d.P.R. n.382 del 1980), che fa altresì riferimento alla “occasionalità” di tali interventi (ove sistematici, occorerebbe autorizzazione per i professori, non prevista invece per i restanti dipendenti pubblici a fronte di una normativa che non fissa limiti quantitativi alla docenza), ben evidente nella specie, trattandosi  di un solo intervento.
Alcun rilievo assume la avvenuta emissione di fattura per tale lezione da parte del convenuto, essendo dato meramente fiscale (fattura in luogo di ricevuta), che non esprime, per la sua unicità, una attività di imprenditore o professionista della didattica, che resta comunque, si ribadisce, attività assolutamente liberalizzata e, come tale, non riconducibile al regime sanzionatorio dell’art.53, co.7, che concerne le sole attività sottoposte ad autorizzazione, quale non è una occasionale lezione in un liceo. La domanda attorea sul punto va quindi da subito respinta.
Passando alle residue voci di danno contestate dalla Procura al prof.Pizzigoni per i restanti 4 incarichi diversi dalla suddetta docenza, occorre sgombrare il campo da una questione che ha assorbito eccessivamente sia la difesa che, in minor misura, la accusa, ovvero quella relativa alla sussistenza o meno di una autorizzazione datoriale nel 2005, del Rettore dell’Università di Bergamo, al prof.Pizzigoni per l’attività prevalente tra le 5 contestategli, ovvero quella a favore dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII.
Che vi sia stata o meno autorizzazione datoriale non assume rilevanza ai fini del decidere, né per l’incarico duplice (a. collaudo nuovo ospedale; b. coordinamento per la sicurezza per la progettazione, contabilità lavori e direz lavori Comunità residenziale psichiatrica) presso il Papa Giovanni XXIII, né per i due ulteriori (a favore di Vicentini [#OMISSIS#] e a favore di Azzano 2000 srl),  per i motivi infraprecisati.
Difatti, sia che la si voglia ritenere assente (come affermato dalla Procura), sia a volerla ritenere sussistere alla luce della documentazione prodotta dalla difesa e acquisita dalla ASST San Giovanni nel 2019, il punto centrale ai fini del decidere è ben altro e va individuato “a monte” ovvero nelle norme che regolano la materia: le stesse consentivano o meno tale attività a prescindere dalla autorizzazione datoriale? La risposta presuppone una corretta qualificazione giuridica di tali attività espletata dal convenuto.
Partendo dal prevalente attività contestata al convenuto, se la stessa, oggettivamente svolta dal prof Pizzigoni presso la Azienda Papa Giovanni XXIII, era “attività libero-professionale”, come ritiene la Procura, la medesima era ed è vietata in modo assoluto ai professori universitari a tempo pieno, come il convenuto in alcuni periodi della sua carriera (dall’1/01/2005 al 30/09/2006; dall’1/10/2010 al 28/02/2013; dal 1/10/2016 al 28/02/2017), in base all’art.6, co.9, l. n.240 del 2010 (e in precedenza all’art.11, d.P.R. n.382 del 1980) che recita: L’esercizio di attività libero-professionale è incompatibile con il regime di tempo pieno”. A fronte di tale divieto ope legis, lo stesso non poteva e non può dunque venir meno per una eventuale, ma illegittima, autorizzazione Rettorale, in quanto un atto amministrativo non può notoriamente derogare alla legge, consentendo ciò che la legge vieta.
Se, invece, l’attività del prof. Pizzigoni era da qualificare come “collaborazione scientifica e consulenza”, la stessa, anche per i professori a tempo pieno è liberalizzata e non richiede autorizzazioni in base all’art.6, co.10, l. n.240 cit., secondo cui “I professori e i ricercatori a tempo pieno, fatto salvo il rispetto dei loro obblighi istituzionali, possono svolgere liberamente, anche con retribuzione, attività di valutazione e di referaggio, lezioni e seminari di carattere occasionale, attività di collaborazione scientifica e di consulenza, attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale, nonchè attività pubblicistiche ed editoriali” (in precedenza, anche l’art.11, co.5, d.P.R. n.382 del 1980, pur vietando le consulenze, le consentiva se di natura “tecnico-scientifica” per lo Stato e gli enti pubblici territoriali).
Può quindi concludersi che in ambo le ipotesi ricostruttive, ai fini della contestata violazione dell’art.53, co.7, d.lgs. n.165 del 2001, che vi sia stata o meno autorizzazione del Rettore è assolutamente irrilevante.
Rileva invece la qualificazione giuridica dell’attività obbiettivamente svolta dal prof. Pizzigoni dal 2005 al 2015 per stabilire se si è trattato di attività legittima e ben espletabile (anche senza autorizzazione), in quanto attività di collaborazione scientifica e di consulenza, oppure se si è trattato di attività libero professionale illegittima in quanto vietata ai professori a tempo pieno (come tale neppure autorizzabile) e, come tale, configurante violazione dell’art.53, co.7, d.lgs. n.165, con conseguente obbligo di rifondere gli introiti percepiti all’Università di Bergamo.
Va premesso che ambo le attività (consulenziali e libero professionali) erano assolutamente vietate ai professori a tempo pieno, quale il convenuto in alcuni periodi nella sua sinusoidale carriera (che vede alternarsi periodi a tempo pieno a periodi a tempo definitivo), nel più restrittivo regime anteriore alla legge [#OMISSIS#] (l. n.240 del 2010), ovvero sotto la vigenza dell’art.11, u.co., d.P.R. n.382 del 1980 secondo cui “Il regime a tempo pieno: è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito e con l’esercizio del commercio e dell’industria…”.
Pertanto, è assolutamente certo che il prof. Pizzigoni per le attività, anche consulenziali, svolte dal 2005 al 2011 (prima della vigenza della riforma [#OMISSIS#] legge 30 dicembre 2010 n. 240, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14 gennaio 2011, ed entrata formalmente in vigore il 29 gennaio 2011) quando era a tempo pieno (lo è stato dall’1/01/2005 al 30/09/2006; per poi passare al tempo definito dall’ 1/10/2006 al 30/09/2010 e ritornare al tempo pieno dall’1/10/2010 al 28/2/2013, per poi mutare ancora due volte regime), versava in situazione di clamorosa violazione del regime normativo del d.P.R. n.382 cit., quand’anche ci fossero stati illegittimi avalli autorizzatori Rettorali. Non era infatti riconducibile l’attività professionale svolta, sotto la vigenza del d.P.R. n.382, alla nozione di “perizie giudiziarie e la partecipazione ad organi di consulenza tecnico-scientifica dello Stato, degli enti pubblici territoriali e degli enti di ricerca” cui fa riferimento la difesa del convenuto, come si chiarirà di seguito.
Dopo invece la più largheggiante novella [#OMISSIS#], che consente, rispetto al passato, ai professori a tempo pieno l’attività di “collaborazione scientifica e di consulenza” (art.6, co.10), come è noto, il distinguo concettuale tra consulenza e attività libero-professionale ha originato (in verità non ben comprensibili v.infra) contrasti interpretativi, che né il legislatore, né il MIUR con atto di indirizzo 14.5.2018 prot.0000039 e con risposta MIUR (Capo Dip.Formazione Superiore e ricerca)  a quesito 18.6.2019 prot.0001370, hanno voluto risolvere in modo inequivoco. Né lo hanno fatto, in modo censurabile, gli Statuti di Ateneo in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, come logica vorrebbe (operando in Italia ben 96 Università, statali e private, tra le quali 11 telematiche), soprattutto valendosi di auspicabili indirizzi unitari, se non addirittura modelli-tipo, della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) o del CUN (Consiglio Universitario Nazionale), per evitare formulazioni inopportunamente divergenti rinvenibili nella prassi, ammantate dalla astratta “tutela dell’autonomia universitaria”, formulazioni talvolta largheggianti, talvolta restrittive (a seconda della “sensibilità” al tema dei redattori), con esiti complessivi arlecchineschi per la loro irragionevole diversità.
L’actio finium regundorum tra i due concetti, a fronte della scarna e generica formulazione normativa, di inerzie del Miur e della stessa CRUI,  va tuttavia delineata sulla scorta di nozioni basiche di diritto e coerenza logico-sistematica.
Secondo una prima non condivisibile lettura dell’art.6, co.9 e 10, l. n.240 del 2010, tra “attività libero-professionale” e “consulenza” non vi sarebbe, dal punto di vista concettuale, alcuna differenza ontologica, in quanto entrambe svolte da un “professionista” o “esperto”, che utilizza un bagaglio di cognizioni di natura tecnica in esclusivo possesso di persone con qualificato e certificato percorso formativo. Si tratterebbe, insomma, di una endiadi, volta ad identificare nient’altro che delle prestazioni d’opera intellettuale ai sensi dell’art. 2222 c.c., dunque strettamente personali (in assenza d’organizzazione di mezzi e di persone), svolte in totale autonomia rispetto al committente, su una questione o un problema determinato e che si concludono con il rilascio di un parere, di una relazione o di uno studio.
Quindi, in tale non condivisibile ricostruzione dell’attività libero-professionale, la consulenza rappresenterebbe una particolare modalità di esercizio, consistente nella mera formulazione di pareri personali in seguito ad analisi e studio di uno o più casi pratici. Esulerebbero, pertanto, dal concetto di consulenza quelle prestazioni che esprimessero ulteriori ed evidenti “attività strumentali” od “esecutive” (come, ad esempio, per professori di diritto, l’attività di rappresentanza processuale, o, per professori di medicina o di scienze infermieristiche, l’attività di manipolazione chirurgica, odontoiatrica, infermieristica, massofisioterapica, osteopatica, etc.), classificabili invece come attività propriamente “libero-professionali”.
Ne deriverebbe, secondo tale tesi, una liberalizzazione ad amplissimo spettro della nozione di “consulenza”, che in pratica coinvolgerebbe tutte, o quasi tutte, le attività svolte dai professionisti, ordinistiche e non.
L’impianto normativo complessivo della l. 240 del 2010 (e prima del d.P.R. n.382/1980), da tempo basato sulla distinzione del regime di impegno orario, non perderebbe, secondo questa prima tesi, di razionalità, poiché la percezione dell’indennità di tempo pieno verrebbe a collegarsi esclusivamente al diverso carico didattico e non più anche alla rinuncia all’espletamento di qualsiasi tipologia di attività libero-professionale.
5.2.  Un concetto di consulenza così lato ed onnicomprensivo, quale quello della tesi sub 5.1., si risolverebbe però in un’inammissibile interpretatio abrogans di un chiaro disposto legislativo, espressamente ribadito dalla legge n. 240/2010: il divieto, appunto, per i tempopienisti di svolgere “attività libero-professionali”. Secondo la criticabile interpretazione più estensiva sub 5.1, un docente a tempo pieno sarebbe dunque libero di fare qualsiasi attività genericamente (o formalmente) definita di consulenza retribuita col pubblico e col privato, anche in maniera continuativa; il che sarebbe in aperto contrasto con lo spirito della c.d. “riforma [#OMISSIS#]”.
Tuttavia, del pari inaccettabile e arbitrario è anche un secondo possibile orientamento tendente ad identificare tout-court le “attività libero-professionali” vietate ai tempopienisti con quelle che le singole leggi sulle professioni considerano come esclusive, in quanto esercitabili solo da soggetti iscritti all’albo: la tesi è infatti criticabile in quanto si dilaterebbe eccessivamente il concetto di “attività libero-professionale” al punto da rendere la “consulenza” un termine dal contenuto estremamente ridotto, che allude a semplice “collaborazione scientifica”, di cui conserva la stessa natura e caratteristiche.
Del pari non convincente è la tesi, pur sostenuta in giurisprudenza, secondo cui la consulenza (in materia scientifica) non è volta a «fornire risoluzione a problematiche concrete», perché altrimenti si riverbererebbe nell’espletamento di attività libero professionale (C.conti, sez.I app. 17 marzo 2017 n. 80).  E’ agevole replicare che una consulenza, a differenza di uno studio teorico-scientifico speculativo, serve invece proprio a risolvere problematiche concrete, al pari di una prestazione libero professionale e deve concludersi con un parere, una relazione o uno studio. In distinguo consulenza-attività libero professionale va dunque rinvenuto in altro profilo.
Ed allora, ad avviso della Sezione, è da preferire una quarta e più ragionevole tesi volta a  valorizzare, sulla scorta della ratio della riforma [#OMISSIS#] e della sua formulazione logico-testuale, ulteriori e più oggettivi (e dunque più affidabili) elementi di distinzione. In particolare, vanno presi in considerazione, in generale e dunque anche ai fini del decidere, un dato fattuale basilare e due indici sintomatici:
il dato fattuale basilare è dato della frequenza temporale dell’attività consulenziale svolta con continuità, assiduità e sistematicità nell’anno solare e/o in più anni, tale da diventare abituale e dunque “professionale”, ovvero un ulteriore “lavoro stabile”, talvolta addirittura primario, ancorchè autonomo; questa interpretazione è confermata dall’art. 2, comma 6, legge n. 247/2012, che riserva a chi sia iscritto nell’albo professionale degli avvocati solo le consulenze legali svolte in modo “continuativo, sistematico, ed organizzato”, dunque solo le consulenze svolte “professionalmente”.
l’indice sintomatico  reddituale dell’importo della attività svolta, se da attività extralavorative si consegue un reddito superiore a quello derivante dall’impiego pubblico da professore (elemento indicativo, anche se atomisticamente non fondante in via esclusiva, potendosi svolgere anche una sola consulenza spot annua, ma di importo rilevantissimo, correlato alla rilevante qualificazione del professore e alla complessità del parere o della consulenza). Assolutamente irrilevante è invece il parametro dell’applicazione della c.d. gestione separata INPS di cui all’art. 2, comma 26 della Legge n. 335/95 (superando i 5.000 euro annui), che nulla dimostra in merito all’assiduità o alla prevalenza della libera professione sull’attività didattica a tempo pieno, posto che trattasi di norma sul trattamento previdenziale il cui tetto può essere su