La Settima Sezione del Consiglio di Stato si è recentemente pronunciata con sentenza n. 8510/2024 sulla legittimità della sanzione disciplinare della destituzione irrogata un professore associato a tempo pieno presso un Ateneo italiano, per aver svolto attività di ricerca e docenza come “assistant professor” presso un’Università straniera, in mancanza di qualsiasi autorizzazione o convenzione tra le due istituzioni.
La vicenda è interessante sotto due profili.
Innanzitutto chiarisce che la mancata audizione del docente durante il procedimento ispettivo preordinato all’apertura di quello disciplinare non viola il diritto alla difesa, trattandosi di un procedimento con funzioni prettamente investigative volto a verificare se una notizia di un fatto abbia un fondamento tale da giustificare l’avvio di un eventuale procedimento disciplinare.
In secondo, la pronuncia è interessante poiché – pur non chiarendo l’intricato rapporto tra l’art. 53, comma 7, del T.U. pubblico impiego e l’art. 6, comma 10 della L. n. 240/2010 – offre interessanti considerazioni in merito alla possibilità di irrogare la sanzione disciplinare più grave (quella della destituzione) a fronte della condotta sopra esposta.
In particolare, i giudici affermano che l’assenza di autorizzazione o di una convenzione tra Atenei per l’erogazione dell’attività di docenza non costituisce una carenza “formale”, né un atto che lede la dignità o l’onore del professore. Tuttavia, per quanto si tratti di una condotta “intermedia”, la decisione sulla sanzione è sindacabile dal giudice amministrativo solo se manifestamente anomala o sproporzionata o particolarmente severa. Trattandosi però della sanzione più grave, è però sempre necessario che il parere reso dal Consiglio di disciplina contenga una motivazione sull’adeguatezza tra illecito e la irroganda sanzione, specie in punto di insufficienza di una sanzione disciplinare minore.