- 06417/2022 REG.PROV.COLL.
- 07447/2018 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7447 del 2018, proposto da
[#OMISSIS#] Macino, rappresentato e difeso dagli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Universita’ degli Studi Roma La Sapienza, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l’annullamento
della nota prot. n. 00283324 del 30 marzo 2018, recante in oggetto «istanza di attivazione di una procedura di chiamata volta all’assunzione a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 20, comma1, del del decreto legislativo 25 [#OMISSIS#] 2017, n. 75»;
della circolare n. 3/2017 adottata dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione.
e per l’accertamento
del diritto della ricorrente ad essere [#OMISSIS#] a tempo indeterminato come ricercatrice.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Universita’ degli Studi Roma La Sapienza e di Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 aprile 2022 il dott. [#OMISSIS#] Montixi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
- La ricorrente espone di aver prestato servizio presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università resistente, in qualità di ricercatrice [#OMISSIS#] con il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato di cui all’art. 24, comma 3, lett. a), della l. n. 240 del 2010 (detta anche “Legge [#OMISSIS#]”), nel settore scientifico disciplinare IUS/19 dal 1° aprile 2013 al 31 marzo 2018.
- Dopo i primi tre anni di contratto, la ricorrente aveva ottenuto, come previsto dalla disposizione appena richiamata, la proroga biennale del contratto, previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte.
- In data 21 marzo 2018, la medesima presentava all’Università una istanza di attivazione di una procedura di chiamata volta all’assunzione a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75 del 2017.
- Esponeva la ricorrente di essere in possesso dei requisiti stabiliti dalla disposizione in parola (essere in servizio successivamente alla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 con contratto a tempo determinato presso l’amministrazione che procede all’assunzione, essere stata reclutata a tempo determinato all’esito di procedura concorsuale e aver maturato al 31.12.2017, alle dipendenze dell’amministrazione che procede all’assunzione, almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni), e di ricadere, dunque, [#OMISSIS#] fattispecie applicativa funzionale alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato.
- Alla predetta istanza dava riscontro l’Ateneo resistente che, con la gravata nota del 30 marzo 2018, affermava che “(…) non si ritiene sussistano i presupposti per un accoglimento della stessa. Al riguardo, si evidenzia che la [#OMISSIS#] di cui all’art. 20, comma 1 del d.lgs 25.5.2017, n° 75 non può essere applicata per il reclutamento del personale docente delle università, dal momento che, in base all’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 165/2001 ‘il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato e determinato, [#OMISSIS#] disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa di specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi dell’autonomia universitaria di cui all’articolo 33 della Costituzione ed [#OMISSIS#] articoli 6 e seguenti della legge 9 [#OMISSIS#] 1989, n. 168, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 4212”.
- Avverso tale decisione insorgeva l’interessata deducendo plurimi motivi di doglianza.
- L’Università degli Studi Roma Sapienza, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca si costituivano in giudizio instando per la reiezione dello stesso.
- All’udienza del 3 aprile 2019 il ricorso veniva trattenuto in decisione.
- Con Ordinanza di questa Sezione n° 4691 del 10 aprile del 2019, veniva dato atto che con ordinanza Tar n. 43362018 pubblicata il 3 aprile 2019 e resa nel giudizio n. 122422018 n.r.g. la medesima sezione aveva sollevato innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali di interpretazione:
“1) se, pur non sussistendo un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, “Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato”, intitolata “Misure di prevenzione degli abusi”, anche alla luce del principio di equivalenza, osti a che una normativa nazionale, quale quella di cui [#OMISSIS#] articoli 29 comma II lettera d) e comma IV del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 e 36 comma II e comma V del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, precluda per i ricercatori universitari assunti con contratto a tempo determinato di durata triennale, prorogabile per due anni, ai sensi dell’art. 24 comma III lettera a) della legge n. 240 del 2010, la successiva instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato;
2) se, pur non sussistendo un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, “Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato”, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi”, anche alla luce del principio di equivalenza, osti a che una normativa nazionale, quale quella di cui [#OMISSIS#] articoli 29 comma II lettera d) e comma IV del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 e 36 comma II e comma V del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, sia applicata dai [#OMISSIS#] nazionali dello Stato membro interessato in modo che il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro è accordato alle persone assunte dall’amministrazione pubblica mediante un contratto di lavoro flessibile soggetto a normativa del lavoro di natura privatistica, ma non è riconosciuto, in generale, al personale assunto a tempo determinato da tale amministrazione in regime di diritto pubblico, non sussistendo (per effetto delle su citate disposizioni nazionali) un’altra misura efficace nell’ordinamento giuridico nazionale per sanzionare tali abusi nei confronti dei lavoratori;
3) se, pur non sussistendo un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, “Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato”, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi”, anche alla luce del principio di equivalenza, osti a che una normativa nazionale, quale quella di cui all’articolo 24, commi primo e terzo, della legge 30 dicembre 2010 n. 240, che prevede la stipulazione e la proroga, per complessivi cinque anni (tre anni con eventuale proroga per due anni), di contratti a tempo determinato fra ricercatori ed Università, subordinando la stipulazione a che essa avvenga “Nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, al fine di svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio [#OMISSIS#] studenti”, ed altresì subordinando la proroga alla “positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte”, senza stabilire criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se la stipulazione e il rinnovo di siffatti contratti rispondano effettivamente ad un’esigenza [#OMISSIS#], se essi siano idonei a conseguire l’obiettivo perseguito e siano necessari a tal fine, e comporta quindi un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti, non risultando così compatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’accordo quadro”;
- Rilevando che il rinvio operato riguardava norme e questioni rilevanti [#OMISSIS#] presente causa, il Collegio disponeva la sospensione del giudizio.
- La CGUE, con sentenza della settima sezione del 3 giugno 2021, si pronunciava in merito alla questione sottopostale.
- A seguito di apposita istanza di fissazione d’udienza, depositata in data 30 luglio 2021, ai sensi dell’art. 80 cpa, la causa veniva trattenuta in decisione all’udienza del 20 aprile 2022
DIRITTO
- Con il primo motivo con il primo motivo l’esponente eccepisce la violazione di legge per contrasto del provvedimento reiettivo adottato dall’Ateneo con l’art. 20 del D.Lgs. n° 75 del 2017, evidenziando che i ricercatori sarebbero anch’essi destinatari della misura introdotta da tale [#OMISSIS#].
Ciò in quanto tra le eccezioni enucleate dallo stesso articolo, rispetto all’ambito di applicazione della normativa, non sarebbero ricompresi i ricercatori universitari.
Tale circostanza, secondo la prospettazione della parte ricorrente, in ossequio al noto criterio interpretativo dell’ubi voluit legislator dixit, ubi noluit tacuit, deporrebbe inequivocabilmente nel senso che il legislatore abbia inteso ricomprendere il personale, anche docente, delle Università nel campo di applicazione della disposizione normativa che si assume violata.
La parte ricorrente, inoltre, corrobora la propria censura sulla scorta della considerazione che il legislatore, allorquando intenda escludere una specifica categoria dall’ambito applicativo di una legge, lo dispone espressamente, come ad esempio avvenuto con l’art. 29, comma 2, lett. d), del d.lgs. n. 81 del 2015, che, nel disciplinare in generale i rapporti di lavoro a tempo determinato, ha escluso dal suo ambito di applicazione “i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della legge 30 dicembre 2010, n. 240”.
La disposizione di cui all’art. 3 del T.U. pubblico impiego richiamata dall’Ateneo sarebbe quindi inconferente in quanto il predetto art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 varrebbe sì ad escludere i professori e i ricercatori universitari dall’applicazione del testo unico del pubblico impiego contrattualizzato, ma l’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 non si inserirebbe all’interno di tale corpus normativo.
D’altronde, il riferimento di cui all’art. 20, comma 1, che non utilizza l’espressione “le amministrazioni possono assumere con contratti a tempo indeterminato”, bensì –significativamente– l’espressione “Le amministrazioni (…) possono (…) assumere a tempo indeterminato” andrebbe interpretato, nell’argomentare di parte ricorrente, nel senso che con esso il legislatore avrebbe inteso sottoporre alla disciplina dettata da tale [#OMISSIS#] anche i rapporti di lavoro in regime di diritto pubblico privi di contratto, tra i quali rientrano anche quelli dei ricercatori a tempo indeterminato, categoria –a giudizio della parte– non abolita, ma meramente ridisciplinata in modo organico dalla legge 240 del 2010.
Quindi, l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75 non si riferirebbe alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, ma, più ampiamente, alle “amministrazioni”. Ciò sarebbe coerente con la legge di delega n. 124 del 2015, i cui artt. 16, comma 1, e 17, comma 1, operano un riferimento generale, al “lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, senza richiamare l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, se non in relazione a specifici principi e criteri direttivi che non riguardano il superamento del precariato.
1.1.1. La ricorrente censura anche la circolare del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 3 del 2017, laddove detta indirizzi operativi per l’applicazione dell’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017, precisando che “la presente circolare è rivolta alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165” e “ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 165/2001, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: (…) il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato” in quanto tali previsioni non troverebbero riscontro, nemmeno implicito, [#OMISSIS#] lettera della disposizione legislativa in relazione alla quale la circolare vorrebbe dettare indirizzi operativi.
Infatti, secondo la sopra richiamata circolare, la circostanza per cui alcune categorie di pubblici dipendenti, di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, sono sottoposti ad una disciplina speciale implicherebbe erroneamente la conseguenza che tali categorie di personale verrebbero anche sottratte all’applicazione dell’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017. Ma ciò comporterebbe un “salto logico” nel ragionamento e non terrebbe conto del fatto che mentre per la maggior parte delle categorie di dipendenti non privatizzati non sarebbe configurabile un rapporto di lavoro a tempo determinato, tale tipologia di lavoro, invece, è ben possibile per i ricercatori universitari.
1.1.2. Parte ricorrente espone, inoltre, che la mancata applicazione dell’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 ai ricercatori universitari a tempo determinato sarebbe in contrasto con l’art. 3, comma 1, Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza e della ragionevolezza –in ragione dell’immotivata non applicazione di una misura di favore prevista per le altre categorie ed in particolare per quella assimilabile dei ricercatori degli enti di ricerca- e con la disciplina dell’Unione Europea e [#OMISSIS#] specifico con l’accordo quadro recepito dalla direttiva CEE n. 1999/70/CE –applicabile anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione- che sottopone a rigorose condizioni la possibilità per i datori di lavoro di avvalersi di contratti a tempo determinato, richiedendo per essi ragioni oggettive idonee a prevenire gli abusi.
Per tale ragione, se l’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 fosse interpretato come non applicabile anche ai ricercatori universitari a tempo determinato, si porrebbe, con riferimento alla [#OMISSIS#] in questione, un problema di legittimità costituzionale ed europea. Il che deve necessariamente indurre a privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata e compatibile con il c.d. “effetto utile” del diritto europeo.
1.2. Il motivo non è suscettibile di positivo apprezzamento.
1.2.1. La normativa di cui all’art. 20 del D.Lgs. n° 75 del 2017 non trova applicazione ai ricercatori universitari.
Il dettato normativo è sufficientemente eloquente laddove, al secondo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 165/2001, rubricato “Personale in regime di diritto pubblico”, prevede che “il rapporto d’impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato [#OMISSIS#] disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all’art. 33 della Costituzione ed [#OMISSIS#] articoli 6 e seguenti della Legge 9 [#OMISSIS#] 1989, n° 168, e successive modificazioni ed integrazione, tenuto conto dei principi di cui all’art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n° 421.”.
Tale [#OMISSIS#] valorizza l’assoluta specialità della disciplina che regola il rapporto di impiego dei professori e ricercatori universitari, richiamando espressamente l’esigenza che l’ambito dei predetti rapporti sia governato da una disciplina “specifica”, in coerenza con i principi afferenti all’autonomia universitaria.
Tale peculiarità è stata considerata, poi, dalla stessa legge di cui parte ricorrente invoca l’applicazione (ossia, il d.lgs. 75/2017) posto che è proprio mediante la stessa (più in particolare, in base a quanto disposto dall’art. 22, comma 16), che il citato art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 è stato modificato, prevedendosi l’aggiunta di una specifica inerente al rapporto d’impiego dei ricercatori universitari. Pertanto, alla luce dell’attuale quadro normativo, tanto il rapporto d’impiego dei ricercatori universitari a tempo indeterminato, quanto quello dei ricercatori universitari a tempo determinato, risulta assoggettato allo specifico regime pubblicistico previsto dall’art. 3, comma 2, del T.U.P.I.
È evidente, pertanto, come con l’intervento del 2017 il legislatore abbia ritenuto necessario mantenere [#OMISSIS#] un regime afferente a un rapporto lavorativo affatto peculiare per il settore universitario, per il quale non potevano trovare applicazione le straordinarie misure di stabilizzazione volte alla riduzione del precariato, essendo destinate ad altre categorie di dipendenti e ad altre figure e contesti contrattuali.
Infatti, non è suscettibile di una diversa interpretazione una [#OMISSIS#] che, all’art. 20 stabilisca tali misure avente carattere “extra ordinem” e, nell’art. 22, facendo implicitamente proprio il dettato normativo del comma 2 dell’art. 3 del T.U. 165/2001, si premuri di ribadirne e precisarne il contenuto e l’operatività nel senso di valorizzare l’esistenza di un corpus normativo autonomo (quello del personale docente dell’università) che “[#OMISSIS#] [#OMISSIS#]” e che viene disciplinato in maniera a sé stante.
1.2.2. D’altronde, la stessa denominazione del testo normativo in parola “modifiche e integrazioni al d.lgs 30.3.2001, ai sensi degli artt. 16, comma 1 lett. a) e 2, lett. b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a),c), e), g), h), l),m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7.8.2015, n° 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche,” milita nel senso di una piena afferenza e coordinamento tra la disciplina introdotta con il citato D.Lgs. 75/2017 e l’ambito applicativo (e le correlate esclusioni) ritraibili dal D.Lgs. 165/2001, rendendo, invero, inutile (e forse controproducente in termini di linearità e chiarezza) l’ulteriore esplicitazione delle categorie escluse dalla stabilizzazione.
In tale contesto, pertanto, il dettato della gravata Circolare del Ministro per la semplificazione e la Pubblica Amministrazione n. 3/2017 si rivela in linea con il dettato normativo laddove, all’art. 2, annovera tra le categorie escluse dall’applicazione della misura dell’art. 20 in questione proprio i professori e i ricercatori universitari.
Sul punto, inoltre, vale richiamare quanto affermato dal Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 240 del 10 gennaio 2020 (di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea e già richiamata in narrativa), [#OMISSIS#] parte in cui afferma che l’art. 3, comma 2, del T.U.P.I. ha attratto anche il rapporto di lavoro dei ricercatori a tempo determinato al regime di diritto pubblico non contrattualizzato, con la conseguenza che risulta pleonastico escludere espressamente tale categoria di ricercatori dall’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 20 del d.lgs. n. 75/2017, rivolto essenzialmente a regolare le vicende del solo impiego pubblico contrattualizzato. Ciò, d’altronde, risulta avvalorato dagli atti parlamentari inerenti al d.lgs. n. 75/2017, da cui si evince la conferma dell’applicabilità di esso al solo pubblico impiego contrattualizzato, e ciò costituisce un canone ermeneutico rilevante, ancorché residuale, nell’interpretazione dell’art. 20 del predetto decreto legislativo.
Il Collegio, peraltro, neppure reputa sussistente la prospettata discriminazione dei ricercatori universitari rispetto ai ricercatori degli enti di ricerca con riguardo alla mancata ammissione dei primi alle procedure di stabilizzazione previste dall’art. 20 del d.lgs. n. 75/2017. Invero, come indicato anche dal Consiglio di Stato [#OMISSIS#] richiamata ordinanza n. 240/2020, “al di là dell’omonimia, le due categorie sono differenti e non sovrapponibili tra loro, sia per la diversità dei compiti che svolgono (i ricercatori di detti Enti, a differenza di quelli universitari, non sono istituzionalmente investiti di compiti didattici), sia per il diverso regime giuridico di riferimento (essendo i ricercatori degli Enti stessi destinatari d’una disciplina ad hoc e compresi tra i dipendenti pubblici ‘contrattualizzati’”.
1.2.3. Il Collegio ritiene, altresì, che le previsioni normative dell’art. 20 del d.lgs. n. 75/2017, traguardate avendo riguardo alla loro ratio, risultano dotate di una propria intrinseca coerenza.
Infatti, la disciplina dettata da tale [#OMISSIS#], dichiaratamente volta al superamento del precariato del ceto impiegatizio nelle pubbliche amministrazioni, mal si attaglia ad un settore, quale quello universitario, governato da specifiche regole di reclutamento e di disciplina del rapporto d’impiego, che risultano espressamente ritagliate per tener conto dell’elevato livello di qualificazione richiesta per la copertura dei ruoli, nonché funzionali a scandire il progredire della carriera in ragione della sussistenza di tutta una serie di presupposti, requisiti e positive verifiche (riguardanti l’attività didattica, la ricerca e –più in generale– il corredo curriculare). Pertanto, per quel che rileva ai fini del presente giudizio, la specificità del rapporto di impiego dei ricercatori universitari a tempo determinato, anche tenuto conto della sua attrazione nell’alveo del pubblico impiego non contrattualizzato, risulta ontologicamente incompatibile con l’applicazione di una misura di tipo sostanzialmente emergenziale, indirizzata alla stabilizzazione del personale precario alle dipendenze dell’amministrazione in regime di diritto pubblico contrattualizzato.
[#OMISSIS#] medesima direzione ermeneutica sin qui sviluppata dal Collegio militano, infine, le determinazioni normative assunte con riguardo alla categoria del ricercatore universitario a tempo indeterminato. Tale figura, infatti, per effetto delle disposizioni contenute [#OMISSIS#] riforma di cui alla legge 240/2010 –che definisce un peculiare percorso di sviluppo di carriera, volto, per i più meritevoli, all’inquadramento nel ruolo dei professori universitari– è stata indirizzata verso il progressivo esaurimento al fine –da un lato– di valorizzare la connotazione progettuale dell’attività di ricerca e –dall’altro– di scongiurare il possibile svilimento dei connotati afferenti all’alta [#OMISSIS#] scientifica di tali posizioni, che avrebbe potuto verificarsi laddove il legislatore avesse virato verso una tendenziale contaminazione del rapporto di impiego di tale figura con quello proprio del ceto impiegatizio.
Su tali [#OMISSIS#] anche la Corte costituzionale ha precisato che “La riforma del sistema universitario operata con la legge n. 240 del 2010 ha trasformato la figura del ricercatore universitario, introducendo la nuova posizione del ricercatore a contratto a tempo determinato, destinata a sostituire quella del vecchio ricercatore a tempo indeterminato, a suo tempo istituita con l’art. 1, comma 4, del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), adottato in attuazione della legge 21 febbraio 1980, n. 28 (Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica).
Sulla scia di quanto già anticipato con la legge 4 novembre 2005, n. 230 (Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari), che aveva limitato l’assunzione di ricercatori di questo tipo alla copertura dei posti banditi non oltre il 30 settembre 2013 (art. 1, commi 7 e 22), la riforma del 2010 ne ha definitivamente vietato il reclutamento, stabilendo espressamente che, dalla sua entrata in vigore, per la copertura dei posti di ricercatore le università possono avviare esclusivamente le procedure previste per il reclutamento dei ricercatori a tempo determinato (art. 29, comma 1).(cfr. C.Cost., 24 giugno 2020 n° 165).
Anche il Consiglio di Stato è del medesimo avviso, avendo sul punto considerato che “è corretta la definizione di ruolo ad esaurimento riconoscibile, in base alla [#OMISSIS#] lettura della l. 240/2010, alla categoria dei ricercatori universitari a tempo indeterminato, in quanto, prevedendo pro futuro tal normativa solo il reclutamento di ricercatori a tempo determinato (nei due tipi ‘A’ o ‘B’) e non contemplando più alcuna immissione in ruolo di nuovi ricercatori d’altro tipo, quelli a tempo indeterminato costituiscono ormai (se non expressis verbis, [#OMISSIS#] in base ad una chiara ed agevole interpretazione sistematica) un ruolo appunto ‘ad esaurimento’, che ha così ridefinito la categoria dei ricercatori universitari, indicando in essa il primo gradino (solo a [#OMISSIS#], ai sensi dell’art. 24 della legge n. 240) della docenza universitaria” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, ord. n. 240 del 10 gennaio 2020).
Il Collegio, inoltre, a conforto delle precedenti considerazioni, rileva ulteriormente che l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75/2017 non risulta suscettibile di trovare applicazione ai ricercatori universitari a tempo determinato di tipo A anche per ragioni inerenti ai [#OMISSIS#] di autonomia finanziaria degli Atenei. In proposito, infatti, occorre evidenziare che l’assunzione di tali ricercatori non comporta alcun impegno di spesa in relazione a un eventuale mutamento del rapporto di impiego, non essendo previsto che gli stessi possano accedere al ruolo dei professori associati, a differenza di quanto avviene per l’indizione della procedura selettiva per l’assunzione dei ricercatori universitari di tipo B, in occasione della quale le singole Università sono tenute a impegnare specifiche risorse in vista della chiamata a professore associato (tale profilo è evidenziato anche in C. cost., 24 giugno 2020 n° 165). A maggior ragione, quindi, risulta del tutto incompatibile con tali scelte normative l’assoggettamento dei ricercatori universitari di tipo A alle procedure di stabilizzazione previste dal d.lgs. n. 75/2017.
L’asimmetria di regime giuridico esistente tra ricercatori universitari di tipo A e quelli di tipo B è espressione della scelta di fondo operata dal legislatore all’atto della riforma dell’ordinamento delle carriere dei docenti universitari, essendo stata espressamente esclusa la possibilità di indire procedure di assunzione di personale docente a tempo indeterminato diverse da quelle previste dalla legge n. 240/2010. Ciò, invero, è stato evidenziato anche dalla Corte costituzionale che, sul punto, ha affermato che “l’impostazione di fondo è che, nel sistema a regime, solo due sono le posizioni di ruolo a tempo indeterminato, quella di professore associato e quella di professore ordinario, a ciascuna delle quali si accede per una procedura a doppio stadio, in cui entrambi i passaggi si svolgono in concorrenza e sono aperti a tutti coloro che siano in possesso dei requisiti previsti” (C. cost., 24 giugno 2020 n° 165).
In altri termini, e conclusivamente, ciò che emerge dalla disciplina in questione è la volontà del legislatore di mantenere [#OMISSIS#] –al fine di valorizzarne il ruolo– la predetta caratteristica progettuale che connota la natura consustanziale al tempo determinato dell’attività di ricerca, con ciò escludendo la possibilità di incardinare a tempo indeterminato –anche per il tramite dell’invocata disciplina di cui al d.lgs. 75/2017– nuovi ricercatori.
Il primo motivo viene, pertanto, respinto.
- Con il secondo motivo di ricorso, e in via subordinata, parte ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 20 del d.lgs. n° 75 del 2017, per violazione degli artt. 2, 3, 4, 9 e 33, comma 1, Cost., ove si ritenesse tale disposizione non applicabile anche ai ricercatori universitari a tempo determinato.
Evidenzia che l’omessa applicazione dell’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 ai ricercatori a tempo determinato, con particolare riferimento a quelli di tipo A, depotenzierebbe la misura introdotta per superare il precariato, in violazione del principio della ragionevolezza e uguaglianza traguardato sia alla luce della asserita speculare posizione rivestita dai ricercatori degli Enti pubblici di ricerca –i quali soli verrebbero a beneficiare della stabilizzazione, non essendo tale possibilità, in modo del tutto irragionevole, riconosciuta anche ai ricercatori universitari a tempo determinato– sia in raffronto [#OMISSIS#] articoli 4 (che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e impone alla Repubblica di promuovere condizioni che rendano effettivo questo diritto), 9 (relativo alla promozione e allo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica) e, infine, 33 (che riconosce la libertà della scienza) della Costituzione.
Tale esclusione, secondo la prospettazione della ricorrente, risulterebbe irragionevole ove si abbia riguardo al fatto che la disciplina recata dall’art. 24 della c.d. Legge [#OMISSIS#], nel precarizzare la figura del ricercatore universitario, consentirebbe che la durata dei relativi contratti, per effetto della proroga biennale prevista dalla legge, potrebbe raggiungere la durata di sessanta mesi (come è in effetti accaduto nel [#OMISSIS#] della parte ricorrente), e quindi eccedere il [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di trentasei mesi, fissato dal legislatore interno in recepimento della normativa comunitaria, operante sia con riferimento al settore privato che con riferimento al settore pubblico.
2.1. Anche tale motivo non è fondato.
Si rivela, innanzitutto, manifestamente infondata la prospettata questione di incostituzionalità laddove censura per asserita violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza la [#OMISSIS#] dell’art. 20 del d.lgs. 75/2017 laddove esclude i ricercatori a tempo determinato dalle misure di stabilizzazione.
È [#OMISSIS#] l’orientamento del [#OMISSIS#] delle Leggi secondo il quale, la violazione del principio di uguaglianza sussiste qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 85 del 2020, n. 155 del 2014, n. 108 del 2006, n. 340 e n. 136 del 2004).
Sul punto, oltre alle considerazioni già svolte in precedenza in occasione della disamina del primo mezzo di gravame, risulta dirimente considerare –con riferimento alle differenti determinazioni assunte dal legislatore con riguardo alla posizione del personale operante negli enti pubblici di ricerca– che, a differenza dei Ricercatori e Professori universitari, il cui status è definito per legge, quello dei Ricercatori degli Enti di Ricerca viene determinato dalla contrattazione sindacale. Pertanto, il percorso di graduale stabilizzazione contemplato dall’art. 1, comma 668, della legge 205 del 2017 per il personale ricercatore operante negli enti pubblici di ricerca di cui al decreto legislativo 25 novembre 2016, n° 218, non appare connotato da alcuna irragionevole disparità di trattamento, anche in ragione del fatto che differenti sono le modalità di reclutamento, i [#OMISSIS#] di inquadramento e che, comunque, “tale categoria di personale non è ammessa all’accesso, se non eventualmente dall’esterno, ai ruoli dei professori di prima e seconda fascia degli Atenei” (cfr. Tar Puglia sez. I^ 18.2.2022, n° 267).
Ulteriormente, si è precisato che “lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in seguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
La medesima eterogeneità dei termini posti a raffronto connota l’area del lavoro pubblico contrattualizzato e l’area del lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale. Tale eterogeneità preclude ogni plausibile valutazione comparativa sul versante dell’art. 3 primo comma Cost. e risalta ancor più netta in ragione dell’irriducibile specificità di taluni settori (forze armate, personale della magistratura), non governati dalla logica del contratto (…)” (cfr. Corte cost., 23 luglio 2015, n° 178).
2.1.1. Si palesano manifestamente infondati anche i richiami alla presunta violazione, da parte della normativa in esame, dei precetti costituzionali contenuti [#OMISSIS#] artt. 4, 9 e 33; norme evocate più a corredo del vizio denunciato in via principale che a fondamento di autonome censure.
Ad ogni modo, come già evidenziato, la previsione di un percorso di carriera universitaria che contempli una prima fase basata su un rapporto a tempo determinato di durata prefissata non si rivela in grado di minare nessuno dei valori costituzionali richiamati, anche in ragione del fatto che tale scelta legislativa deve necessariamente essere analizzata all’interno del più ampio quadro sistematico inerente alle modalità di accesso alle posizioni di ruolo a tempo indeterminato, come chiarito anche dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. C. cost., 24 giugno 2020 n° 165).
Il Collegio non ritiene sussistere alcuna violazione dell’art. 4 della Costituzione in quanto, come da tempo affermato dalla Corte costituzionale (cfr. C. cost., 7 giugno 1963, n. 105; 26 gennaio 1960, n. 2; 8 aprile 1958, n. 30; 26 gennaio 1957, n. 3), tale [#OMISSIS#] “come non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di un’occupazione (il che è reso evidente dal ricordato indirizzo politico imposto allo Stato, giustificato dall’esistenza di una situazione economica insufficiente al lavoro per tutti, e perciò da modificare), così non garantisce il diritto alla conservazione del lavoro, che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario presupposto” (cfr. C. cost., 9 giugno 1965, n. 45).
Osserva, inoltre, il Collegio che la concreta attuazione del diritto al lavoro ben può esplicarsi anche per il tramite della stipula di contratti a tempo determinato, laddove di essi non si abusi; nel [#OMISSIS#] di specie, come chiarito dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (infra), il regime giuridico interno del rapporto d’impiego dei ricercatori universitari, tanto di tipo A, quanto di tipo B, non presenta alcun carattere abusivo e, per questo, risulta pienamente legittimo il ricorso [#OMISSIS#] stessi, non ravvisandosi alcun contrasto con il diritto eurounitario. Oltretutto, la giurisprudenza Costituzionale ha avuto modo di precisare reiteratamente che “[#OMISSIS#] affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei modi e dei tempi di attuazione della garanzia del diritto al lavoro” (C. cost. 419/2000; C. cost. 303/2011).
Il Collegio non ritiene fondata la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 9 della Costituzione. Invero, la circostanza per cui le procedure di stabilizzazione previste dall’art. 20 del d.lgs. n. 75/2017 non trovano applicazione nei confronti del personale in regime di pubblico impiego non contrattualizzato non contrasta con tale precetto costituzionale. Dalla previsione dell’art. 9 della Costituzione, che al primo comma sancisce che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, non può farsi discendere il diritto dei ricercatori universitari a tempo determinato alla stabilizzazione del proprio rapporto d’impiego, ove prevista dalla legge per altre categorie di lavoratori ad essi non assimilabili –come evidenziato in precedenza– in quanto la promozione della cultura e della ricerca scientifica sono libere (art. 33 Cost.) e, di conseguenza, il loro concreto esercizio non risulta subordinato all’instaurazione di un rapporto d’impiego a tempo indeterminato con le Università. La prolificazione dei canali, istituzionali e privati, di svolgimento dell’attività di ricerca, unitamente all’assenza di barriere normative e regolatorie alla estrinsecazione di nuove forme e modalità di esercizio della libertà di ricerca scientifica –proprio in virtù della guarentigia costituzionale che tutela la promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica– si pongono in posizione antitetica rispetto alla prospettata esigenza di svolgere, necessariamente, in maniera stabile l’attività di ricerca presso gli enti universitari da parte dei ricercatori universitari a tempo determinato. Dunque, sulla scorta dei rilievi inerenti alla circostanza per cui in Costituzione non risulta essere positivizzato alcun diritto al conseguimento di una stabile occupazione, alla necessità di considerare il ruolo dell’autonomia riconosciuta ex lege alle Università e alle peculiarità che caratterizzano le figure professionali assoggettate al regime del pubblico impiego non contrattualizzato, nonché alla considerazione del complessivo sistema normativo di accesso alle posizioni di ruolo a tempo indeterminato in ambito universitario, la scelta operata dal legislatore con l’art. 20 del d.lgs. n. 75/2017 risulta immune dal prospettato vizio di legittimità costituzionale.
Il Collegio, infine, neppure ravvisa l’invocato contrasto dell’art. 20 del d.lgs. n. 75/2017 con l’art. 33, comma 1, della Costituzione. Anche la [#OMISSIS#] esplicazione dell’attività scientifica non appare minata da tale modalità contrattuale, soprattutto ove si consideri la connaturata caratteristica progettuale che l’attività di ricerca reca in sé.
L’invocata esigenza di assicurare la valorizzazione della professionalità acquisita, d’altronde, transita -come detto- attraverso la scansione di fasi predeterminate di progressione di carriera che tengono conto dello svilupparsi del rapporto con il mondo universitario da parte del ricercatore e delle abilità dimostrate nell’ambito di tale percorso. Il concreto esercizio della libertà di scienza e di insegnamento è rimesso alle autonome scelte individuali e, per questo, al di là di quanto normativamente espressamente previsto, non risulta suscettibile di creare obblighi ulteriori in capo alle amministrazioni pubbliche, né tantomeno onera le Università ad assumere o stabilizzare il personale docente a tempo determinato.
- Con il terzo motivo di doglianza, sempre in via subordinata, la ricorrente eccepisce la violazione del diritto europeo e dell’art. 117 Cost. per contrasto con gli obblighi derivanti dalla citata direttiva CEE n.1999/70/CE, che impone [#OMISSIS#] Stati membri di limitare l’uso dei contratti a tempo determinato, vietando l’abuso degli stessi.
Osserva la ricorrente che, in base all’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 (di attuazione della predetta direttiva UE), il rapporto di lavoro a tempo determinato non può avere durata superiore a trentasei mesi, superati i quali “il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento”.
La disposta esclusione dall’ambito di applicazione di tale disposizione dei “contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della legge 30 dicembre 2010, n. 240” (cfr. art. 29, comma 2, lett. d), si porrebbe, pertanto, in violazione del diritto europeo e per tale ragione la [#OMISSIS#] dovrebbe essere disapplicata.
Infatti, la reiterazione del rapporto di lavoro a tempo determinato per i ricercatori di tipo A potrebbe raggiungere la durata di otto anni: 3+2 del contratto di tipo A, ai quali si potrebbero aggiungere i 3 anni del contratto di tipo B, nell’ipotesi di passaggio al [#OMISSIS#] del quinquennio alla qualifica di ricercatore di tipo B, al [#OMISSIS#] dei quali il ricercatore potrebbe essere estromesso definitivamente dal circuito della docenza universitaria.
Pertanto, se l’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 non fosse suscettibile di trovare applicazione anche ai ricercatori a tempo determinato, le amministrazioni nazionali avrebbero l’obbligo di disapplicare la disposizione in questione [#OMISSIS#] parte in cui non prevede quali destinatari del suo ambito di applicazione i ricercatori stessi.
Parte ricorrente prospetta, infine, la necessità di disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE ove venissero rilevati dubbi di compatibilità con il diritto europeo della disciplina dei contratti a tempo determinato dei ricercatori universitari, anche in ordine alla previsione di cui all’art. 20 del d.lgs. 75/2020 [#OMISSIS#] parte in cui venisse ritenuta non applicabile a tale tipologia di dipendenti pubblici.
3.1. Anche tale motivo è infondato.
3.1.1. Il riformato sistema di accesso e di sviluppo della carriera in ambito universitario, come delineato dalla legge 240 del 2010, oltre ad avere, come sopra precisato, disposto il collocamento in un ruolo ad esaurimento dei ricercatori a tempo indeterminato, ha introdotto la nuova figura del ricercatore a tempo determinato, disciplinata alle lettere a) e b) del comma 3 dell’art. 24.
Il sistema delineato prevede che il contratto per ricercatore a tempo determinato di tipo “A” ha durata triennale, prorogabile per due anni per una sola volta, previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte: tale posizione corrisponde a un passaggio ai fini del possibile approdo alla carriera accademica di ruolo, recando, quale sbocco fisiologico, l’accesso alla posizione di ricercatore di tipo B e, come ulteriore progressione, alla posizione di professore associato.
Il contratto di ricercatore a tempo determinato di tipo “B” (disciplinato dall’art. 24 comma 3 lett. b) della legge 240/2010) ha parimenti durata triennale (originariamente riservato ai ricercatori di tipo A o a coloro che hanno usufruito per almeno tre anni di assegni di ricerca ex art. 51, comma 6, della legge 27.12.1997, n° 449 o di borse post-dottorato ex art. 4 della legge 30 novembre 1989, n° 398) ed è stato esteso a coloro che sono in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale di professore di prima o di seconda fascia, o del titolo di specializzazione medica o di assegni di ricerca di cui all’art. 22 della stessa legge.
Come ben evidenziato dalla Corte costituzionale [#OMISSIS#] richiamata sentenza n. 165 del 2020, la legge n. 240/2010 ha integralmente riformato il sistema di reclutamento dei professori universitari introducendo un sistema a due stadi “consistenti, il primo, nell’«abilitazione scientifica nazionale» per le funzioni di professore di prima o di seconda fascia nei diversi settori scientifico-disciplinari, e, il secondo, [#OMISSIS#] «chiamata» presso il singolo ateneo a seguito di una valutazione comparativa in sede locale aperta a candidati in possesso dell’abilitazione scientifica [#OMISSIS#] specifico settore concorsuale della posizione messa a bando”.
Accanto a questo metodo ordinario di reclutamento dei professori associati e ordinari, la stessa legge n. 240/2010, all’art. 24, comma 5, prevede per i ricercatori a tempo determinato di tipo B un meccanismo di chiamata particolare che prescinde dall’avvio di una procedura comparativa, come invece avviene per il reclutamento ordinario. Più in particolare, il legislatore ha previsto per il ricercatore universitario di tipo B un sistema di avanzamento [#OMISSIS#] carriera (da ricercatore a professore associato) ispirato al modello anglosassone del c.d. tenure-track, “cioè a un percorso accademico connotato, alternativamente, dal carattere per così dire automatico dell’avanzamento in presenza di determinate condizioni (abilitazione nazionale ed esito positivo della valutazione dell’ateneo) ovvero dall’uscita dall’università se quelle condizioni non si sono realizzate” (C. cost., 24 giugno 2020 n° 165). Quindi, il ricercatore di tipo B nel corso dell’[#OMISSIS#] anno del contratto di ricerca, ove abbia conseguito l’abilitazione scientifica di cui all’articolo 16, è doverosamente sottoposto alla valutazione da parte dell’Università di appartenenza e, in [#OMISSIS#] di superamento positivo della stessa, viene inquadrato, alla scadenza del contratto di ricerca, nel ruolo dei professori associati. Tale sistema, per i ricercatori di tipo B che abbiano conseguito l’abilitazione scientifica nazionale, costituisce il modo ordinario di immissione nel ruolo dei professori associati.
3.1.2. Il sistema così delineato è teso, dunque, a favorire un meccanismo di selezione “progressiva” e dall’interno dei professori associati che, partendo dall’incarico di ricercatore a tempo determinato di cui al comma 3, lett. a), della legge n. 240/2010, giunge fino alla possibile chiamata nel ruolo di professore associato.
Il tutto, sulla base di un prefissato [#OMISSIS#] arco temporale e di un numero parimenti prestabilito di contratti a tempo determinato.
In tale contesto, il delineato assetto normativo “è idoneo a contenere entro un limite [#OMISSIS#] il precariato accademico 5 anni (3 + altri 2 eventuali di proroga) [#OMISSIS#] fascia A + altri 3 non prorogabili (riducibili ad 1 anno a seguito della riforma del 2020) [#OMISSIS#] fascia B e [#OMISSIS#] comunque restando la possibilità di accedere, previo conseguimento del prerequisito obbligatorio dell’abilitazione scientifica nazionale, al ruolo di professore di prima e di seconda fascia mediante concorsi indetti dagli atenei con procedura aperta ex art. 18.” (cfr. Tar Puglia, I, 18.2.2022, n° 267).
Sulla base dell’anzidetta cornice normativa va quindi escluso che, [#OMISSIS#] prassi, le Università possano “abusare” dei contratti a tempo determinato di tipo “A”, in violazione della disciplina eurounitaria (direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999) attuata dagli artt. 1 e 6 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n° 368, tenuto conto che in relazione a tale tipologia di contratto è prevista la possibilità di un’unica proroga biennale.
3.1.3. Ulteriormente, il Collegio rileva come non colga nel segno l’ottica rappresentata da parte ricorrente, laddove l’astratta possibilità del ricercatore universitario di permanere nell’ambito del circuito dei contratti a tempo determinato per una durata superiore ai 36 mesi fissati dall’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 viene ricondotta alla violazione della citata direttiva CEE n.1999/70/CE, che impone [#OMISSIS#] Stati membri di limitare l’uso dei contratti a tempo determinato, vietando il ricorso abusivo [#OMISSIS#] stessi.
Infatti, ciò che caratterizzava l’uso (e l’abuso) dei contratti a tempo determinato era la prassi di reiterare indefinitamente la stipula di tali tipologie contrattuali senza che ad essa si ricollegasse una correlata disciplina normativa volta alla stabilizzazione del relativo rapporto lavorativo. Ma in ambito universitario, è lo stesso sistema che delinea un percorso che, attraverso fasi scandite e di durata predeterminata, traccia la strada verso l’approdo all’immissione in ruolo quale professore universitario di seconda fascia. Ovviamente, in tale percorso, delineato in via astratta dal legislatore, deve instradarsi il ricercatore universitario che, su base meritocratica, potrà ambire ad un positivo sviluppo di carriera.
Come ampiamente evidenziato, questa fisiologica fase di inserimento “in progress” nel mondo accademico è consustanziale alle caratteristiche dell’attività di ricerca e, a ben vedere, non rappresenta una distorsione del sistema di ingresso nel mondo della docenza universitaria.
Tali [#OMISSIS#] sono stati valorizzati anche dalla recente sentenza della CGUE del 4.6.2021, ove si afferma che “l’art. 24, comma 3, lettera a) della Legge 240/2010 stabilisce non solo un limite per quanto riguarda la durata massima del contratto a tempo determinato dei ricercatori universitari rientranti [#OMISSIS#] categoria cui apparteneva il ricorrente, ma anche per quanto riguarda il numero possibile di rinnovi di tale contratto. Più precisamente, relativamente al contratto di tipo A, tale legge fissa la durata massima del contratto a tre anni e autorizza una sola proroga limitata a una durata di due anni.
Pertanto, l’articolo 24, comma 3, della legge n. 240/2010 contiene due delle misure indicate alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, ossia limiti riguardanti la durata massima totale dei contratti a tempo determinato e il numero di possibili rinnovi (…)”.
Sulla base di tali approdi, la CGUE ha concluso nel senso che “la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale in forza della quale è prevista, per quanto riguarda l’assunzione dei ricercatori universitari, la stipulazione di un contratto a tempo determinato per un periodo di tre anni, con una sola possibilità di proroga per un periodo [#OMISSIS#] di due anni, subordinando, da un lato, la stipulazione di tali contratti alla condizione che siano disponibili risorse “per la programmazione, al fine di svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio [#OMISSIS#] studenti”, e, dall’altro, la proroga di tali contratti alla “positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte”, senza che sia necessario che tale normativa stabilisca i criteri oggettivi e trasparenti che consentano di verificare se la stipulazione e il rinnovo di tali contratti rispondano effettivamente a un’esigenza [#OMISSIS#], se essi siano idonei a conseguire l’obiettivo perseguito e siano necessari a tal fine.”.
In altri termini, si rivela inappropriato il richiamo alla durata massima dei 36 mesi, richiamata da parte ricorrente quale parametro per evocare la violazione degli obblighi imposti a livello eurounitario. Le più volte rappresentate peculiarità del progredire della carriera in ambito universitario giustificano –alla luce della legge di riforma in vigore– come l’immissione nel ruolo dei professori associati ben possa giungere a [#OMISSIS#] del delineato percorso (la cui durata complessiva è normativamente fissata) “a fasi” scandite da rapporti di lavoro a tempo determinato.
- Con il quarto motivo di ricorso, la ricorrente eccepisce l’incostituzionalità dell’art. 24 della l. 240 del 2010 per violazione, sotto altro profilo dell’art. 9, comma 1, e dell’art. 33, comma 1, Cost. e chiede, pertanto, al Collegio di voler sollevare di fronte alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la [#OMISSIS#] che appone un [#OMISSIS#] di durata al contratto di ricercatore universitario, in quanto il ricercatore sarebbe legato da un contratto che, oltre ad essere “precario”, è qualificato dalla legge come di lavoro subordinato. Ciò, invero, porrebbe un evidente problema di compatibilità con il principio della “libertà” della scienza: il contratto di lavoro subordinato, per sua stessa natura, implica infatti l’integrale assoggettamento alla volontà del datore di lavoro e ciò precluderebbe ai ricercatori universitari il pieno esercizio della propria libertà di ricerca scientifica in violazione dei predetti precetti costituzionali.
Ciò in quanto la stabilità del rapporto di lavoro è un valore che, nel [#OMISSIS#] dei ricercatori universitari, assume una rilevanza –se possibile– ancora [#OMISSIS#] rispetto a quella che assume con riferimento ad altre categorie di lavoratori.
4.1. Anche tale motivo non è, però, suscettibile di positivo apprezzamento.
Il Collegio ritiene sufficiente richiamare le osservazioni formulate nel precedente punto 2.1.1.
Non può condividersi l’assunto della ricorrente che assume come la presenza di un contratto di ricerca strutturato in termini di lavoro subordinato sarebbe idoneo, di per sé, a minare l’operatività dei precetti costituzionali volti a promuovere la ricerca scientifica e a proclamarne la libertà.
La giurisprudenza, peraltro, ha già avuto modo di chiarire –per analoghe doglianze– che non si ravvisa alcun profilo di incompatibilità tra la natura subordinata del rapporto di lavoro dei ricercatori universitari e i principi costituzionali che garantiscono la cultura, la ricerca e la libertà di insegnamento. Più in particolare, in proposito è stato affermato che “Da un lato, infatti, l’assoggettamento ad un potere direttivo non implica necessariamente una diretta ingerenza sul contenuto dell’insegnamento e sugli obiettivi di ricerca. Al contempo, la natura “a [#OMISSIS#]” dell’incarico di ricercatore si esplica pur sempre all’interno di un orizzonte temporale (tre anni, prorogabili ad altri due) senz’altro compatibile con l’attività di ricerca scientifica e le sue tempistiche.” (cfr. Tar Friuli [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], sez. 1^, 17.11.2021, n° 342.)
- Con l’[#OMISSIS#] motivo di doglianza la ricorrente evidenzia come, anche a prescindere dal tema dell’applicabilità o meno alla ricorrente della disciplina dell’art. 20 del d.lgs 75 del 2017, sussisterebbero comunque i presupposti per disporre la trasformazione del proprio rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Evidenzia che le ragioni che fondano tale pretesa sono sempre quelle connesse alla violazione del diritto europeo, stante che sia la Corte di Giustizia UE, sia la Corte costituzionale, hanno già riconosciuto l’illegittimità delle disposizioni nazionali che, con riferimento al settore della docenza scolastica, prevedevano la reiterazione di rapporti di lavoro a tempo determinato senza che ragioni obiettive lo giustificassero.
Ribadisce la ricorrente che, a fronte di una durata massima di contratti a tempo determinato pari a trentasei mesi, nel [#OMISSIS#] della ricorrente, così come nel [#OMISSIS#] di ogni ricercatore di tipo A che abbia ottenuto la proroga biennale, tale durata massima è di sessanta mesi.
Sottolinea, inoltre che non sono state introdotte misure volte ad «ottenere la stabilizzazione grazie o a meri automatismi […] ovvero a selezioni blande (concorsi riservati)», come fatto per altri settori.
Né, sarebbe, percorribile la strada del risarcimento del danno di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001. stante che, nel [#OMISSIS#] di specie, non sussiste il presupposto della violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori.
Pertanto per salvaguardare l’effetto utile del diritto europeo deve imporsi una soluzione che, in ossequio ai principi di dissuasività, proporzionalità ed effettività, sia idonea a rimediare alla violazione perpetrata, quale quella della trasformazione del contratto a tempo determinato della ricorrente in un contratto a tempo indeterminato, non ostandovi il divieto di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001.
5.1. Le osservazioni sopra riportate in maniera diffusa conducono alla reiezione anche di tale [#OMISSIS#] motivo di gravame.
Ritiene il Collegio sufficiente richiamarsi alle osservazioni già formulate in merito alla specificità del percorso che connota la carriera universitaria, in cui la contrattualizzazione a tempo determinato –con un numero di proroghe e una durata complessiva predeterminata– rappresenta un aspetto fisiologico del progresso professionale di chi persegue tale inserimento lavorativo.
Anche con riferimento alla richiamata asserita violazione del principio di equivalenza, secondo cui, in assenza di una diversa misura altrettanto afflittiva, il diritto europeo impone il rispetto del principio di equivalenza, secondo il quale il [#OMISSIS#] applicabile ad una determinata fattispecie non può essere diverso e meno favorevole rispetto a quello che si riferisce a situazioni analoghe di natura interna, osserva il Collegio che la CGUE (sentenza sez. VII, 3.6.2021 cit.) ha già avuto modo di osservare come “tale principio non è applicabile nel [#OMISSIS#] di specie, poiché tale necessità riguarda solo le disposizioni che hanno ad oggetto diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”.
In definitiva, la disciplina in questione non concreta un utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato in ragione della speciale ed organica disciplina di riferimento, alle caratteristiche dell’attività lavorativa svolta ed al fatto che tale tipologia contrattuale ha un definito orizzonte temporale funzionale a saggiare l’idoneità dei soggetti contrattualizzati ai fini del successivo inserimento in ruolo in ambito accademico.
Per [#OMISSIS#], l’auspicata conversione del contratto di lavoro determinerebbe una eccezione al principio del concorso pubblico di cui all’art. 97 Cost., la cui inderogabilità è stata più volte ribadita dalla Corte costituzionale (oltre che dalla giurisprudenza civile e amministrativa) al di fuori dei casi in cui tale possibilità è eccezionalmente consentita, ovvero nei soli casi in cui ciò sia maggiormente funzionale al buon andamento dell’amministrazione e corrispondente a straordinarie esigenze di interesse pubblico, individuate dal legislatore in base a una valutazione discrezionale, effettuata nei limiti della non manifesta irragionevolezza. (cfr. Adunanza della Commissione speciale del Consiglio di Stato dell’11 aprile 2017, n° 422).
In [#OMISSIS#] si è osservato che “non è neppure ipotizzabile un’interpretazione estensiva della [#OMISSIS#] in esame, oltre i confini suoi propri, atteso che la stabilizzazione del personale precario della pubblica amministrazione può essere operata soltanto se abilitata da leggi emanate ad hoc, come tali di stretta interpretazione, secondo quanto ha chiarito più volte la giurisprudenza sia del [#OMISSIS#] costituzionale sia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. In conclusione, può ritenersi ormai acquisito che l’Accordo Quadro trova applicazione per il settore pubblico nei rigorosi limiti sanciti dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 in tema di utilizzo di contratti di lavoro flessibile” (TAR Lazio, Roma, sez. I bis, 18 ottobre 2018, nn. 10087 e 10088).
6.Conclusivamente il ricorso proposto deve respingersi siccome infondato.
- Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio liquidate in euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di consiglio del giorno 20 aprile 2022 con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#]
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] Montixi, Referendario, Estensore
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L’ESTENSORE |
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IL [#OMISSIS#] |
[#OMISSIS#] Montixi |
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[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] |
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IL SEGRETARIO
Pubblicato il 19/05/2022