Un componente del consiglio di amministrazione della Università «Tor Vergata» contestava la richiesta dell’Ateneo di comunicare i dati patrimoniali di cui all’art. 14 del d. lgs. n. 33/2013 ai fini della prescritta pubblicazione. La medesima persona, nella veste di dirigente di ruolo del Garante per la protezione dei dati personali, aveva in precedenza anche contestato la nota con la quale l’amministrazione di appartenenza gli aveva intimato di adempiere alle stesse prescrizioni. Questo secondo giudizio sfociava nella nota pronuncia della Corte Costituzionale n. 20 del 23 febbraio 2019, che dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis nella parte in cui dispone(va) la pubblicazione indiscriminata per tutti i titolari di incarichi dirigenziali.
Nel giudizio avverso la nota dell’Ateneo, il TAR, richiamata la sentenza della Consulta, accoglieva il ricorso; l’Anac e la Presidenza del Consiglio dei Ministri proponevano appello.
Nell’accogliere la tesi degli appellanti, il Consiglio di Stato ha osservato che la pronuncia della Corte Costituzionale esplica effetti unicamente in ordine alla posizione di titolari di incarichi dirigenziali e non anche su quelle dei titolari di incarichi di indirizzo politico cui deve essere assimilata la posizione dell’appellato, stante l’esercizio di funzioni di indirizzo strategico e di coordinamento della gestione amministrativa, finanziaria e patrimoniale dell’Ateneo.
Tale posizione deve ritenersi attratta nell’ambito di applicazione dell’originario testo dell’art. 14 del decreto trasparenza che, al comma 1, già imponeva obblighi di pubblicazione ai “titolari di incarichi politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo politico”.
L’esclusione dell’obbligo di pubblicazione non potrebbe nemmeno derivare dall’art. 1, co. 7, del d. l. n. 162/2019. Questo, quanto ai soggetti che si trovano nella posizione dell’appellato, si limita a escludere (non la pubblicazione) bensì il solo regime sanzionatorio di cui agli artt. 46 e 47 del d.lgs. n. 33 del 2013. Ne consegue, dunque, che per i titolari di incarichi politici permane l’obbligo di pubblicazione dei dati ma che, per effetto della disposizione appena richiamata tale obbligo non è attualmente provvisto di sanzione in caso di sua violazione.
Da ultimo, il Consiglio di Stato ha chiarito che la compressione del diritto alla riservatezza dell’appellato deve ritenersi giustificata in ragione della delicatezza dell’incarico attribuito e della natura pubblica dello stesso, e quindi della possibilità di assicurare un controllo diffuso quanto all’esercizio delle funzioni attribuite, nel quadro di un’Amministrazione democratica.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 28 luglio 2022, n. 6654
art. 14 d. lgs. n. 33/2013 - obbligo pubblicazione dei redditi - Università - membri del CDA
N. 06654/2022REG.PROV.COLL.
N. 08186/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8186 del 2021, proposto da
Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del [#OMISSIS#] pro tempore, Università degli Studi Roma Tor Vergata e Anac – Autorità Nazionale Anticorruzione, in persona dei Legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale sono ex lege domiciliati, in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
contro
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli Avvocati [#OMISSIS#] Grandi e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. -OMISSIS-/2021, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 giugno 2022 il Cons. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#];
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con nota del 18 aprile 2017, l’Università degli Studi di Roma «Tor Vergata», richiamate le Linee [#OMISSIS#] emanate dall’ANAC con delibera n. 241/2017, chiedeva ai componenti del proprio Consiglio di Amministrazione la comunicazione dei dati patrimoniali di cui all’art. 14 del D. Lgs. n. 33/2013, precisando che «che un’eventuale inosservanza [#OMISSIS#] adempimenti previsti dall’art. 14 dà luogo ad una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 10.000 euro a carico del responsabile della mancata comunicazione».
La richiesta, unitamente alla citata delibera ANAC, veniva impugnata dall’odierno Appellato, membro del Consiglio di Amministrazione dell’Università, innanzi al Tar Lazio con ricorso assegnato alla Sezione III e iscritto al n. 6189/2017 R.R., deducendone l’illegittimità per violazione del diritto alla [#OMISSIS#] privata ed alla protezione dei dati personali, nonché, dei principi sanciti in materia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dal Trattato UE, dalla Convenzione EDU, dalla direttiva n. 95/46/CE e dal Regolamento del Parlamento e del Consiglio europei n. 2016/679.
Si anticipa che l’Appellato, [#OMISSIS#] veste di Dirigente di ruolo del Garante per la protezione dei dati personali, con ricorso iscritto al n. 564/2017 R.R., proposto innanzi al medesimo Tar e assegnato alla Sezione I quater, impugnava la nota con la quale l’amministrazione di appartenenza gli intimava di adempiere alle medesime prescrizioni.
Nel giudizio da [#OMISSIS#] citato, il Ricorrente lamentava che l’art, 13 del D. Lgs. n. 97/2016, introducendo all’art. 14 del D. Lgs. n. 33/2013 il comma 1 bis, avrebbe modificato il quadro degli obblighi di trasparenza operando una illegittima equiparazione, ai fini in esame, fra i dirigenti pubblici e i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione e di governo: ragione per la quale veniva sollevata questione di costituzionalità.
Il Tar, con ordinanza n. 9828 del 19 settembre 2017, ritenendo «rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis e comma 1-ter del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, inseriti dall’art. 13, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 25 [#OMISSIS#] 2016, n. 97, [#OMISSIS#] parte in cui prevedono che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all’art. 14, comma 1, lett. c) ed f) dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, per contrasto con gli artt. 117, comma 1, 3, 2 e 13 della Costituzione», sospendeva il giudizio n. 564/2017 disponendo la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
La Sezione III, preso atto della richiamata rimessione, con ordinanza n. 9844 del 10 ottobre 2018 sospendeva il giudizio n. 6189/2017 in attesa della decisione.
La Corte, con sentenza n. 20 del 23 febbraio 2019, dichiarava «l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), [#OMISSIS#] parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)» (il riferimento è [#OMISSIS#] «incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente» e [#OMISSIS#] «incarichi di funzione dirigenziale di livello generale»).
Il vuoto normativo venutosi a creare per effetto della pronunzia determinava l’intervento del legislatore che, all’art. 1, comma 7 del D. L. n. 162/2019, nel testo risultante dalla conversione operata con L. n. 8/2020, (in vigore dall’1 marzo 2020), stabiliva che «fino al 31 dicembre 2020, nelle more dell’adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2019, n. 20, ai soggetti di cui all’articolo 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ad esclusione dei titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non si applicano le misure di cui [#OMISSIS#] articoli 46 e 47 del medesimo decreto legislativo n. 33 del 2013».
Ai sensi dell’art. 1, comma 16, del successivo D.L. n. 183/2020, detta sospensione veniva prorogata «fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al terzo periodo» (di individuazione “dei dati di cui al comma 1 dell’art. 14 …”) da adottarsi «entro il 30 aprile 2021».
Il Tar, con sentenza n. 6033 del 24 [#OMISSIS#] 2021, preso atto delle richiamate sopravvenienze, definiva il giudizio n. 6189/2017 accogliendo il ricorso sul duplice presupposto che la sentenza della Corte avrebbe «ritenuto non applicabile la disciplina contestata a chi non fosse titolare di un incarico dirigenziale pubblico ai sensi dell’art. 19 D. Lgs. 165/2001 e quindi anche al ricorrente che è stato semplicemente designato nel consiglio di amministrazione dell’Università senza assumere alcun incarico dirigenziale» e che la designazione nel Consiglio di Amministrazione dell’Università non potesse essere assimilata ad «alcun incarico dirigenziale».
L’Università, ANAC e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, impugnavano la citata sentenza con appello depositato il 26 settembre 2021 deducendo:
– con il primo motivo l’inammissibilità del ricorso di primo grado per avere il Ricorrente, in detta sede, censurato «in via esclusiva» la [#OMISSIS#] di legge deducendo [#OMISSIS#] di illegittimità «soltanto per illegittimità derivata» senza formulare «specifiche censure» riferite [#OMISSIS#] atti impugnati e senza allegare alcun «carattere di diretta ed immediata lesività» degli stessi: circostanza che determinerebbe tanto il difetto di interesse all’impugnazione quanto il difetto di legittimazione del ricorrente;
– con il secondo motivo l’erronea valutazione, da parte del Tar, degli effetti della pronunzia della Corte costituzionale che avrebbe annullato la [#OMISSIS#] fondante l’obbligo di pubblicazione con riferimento «ai soli titolari di incarichi dirigenziali e non anche ai titolari di incarichi o cariche di amministrazione, direzione o di governo».
L’Appellato si costituiva formalmente in giudizio il 5 ottobre 2021, sviluppando le proprie difese con memoria depositata il 29 ottobre successivo con la quale insisteva per la conferma dell’annullamento degli atti impugnati in primo grado «previa disapplicazione delle norme di legge specificate nel ricorso», chiedendo contestualmente di esaminare la possibilità di «sospendere il presente giudizio e rimettere gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ovvero alla Corte Costituzionale».
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di consiglio del 4 novembre 2021 veniva rinunziata l’istanza cautelare con richiesta di rinvio della causa al merito.
Con memoria depositata il 26 aprile 2022, l’Appellato rassegnava le proprie conclusioni in vista della discussione di merito dell’appello.
Appellante e Appellato chiedevano il passaggio in decisione della causa senza discussione con note, rispettivamente, del 1° e 3 giugno 2022.
All’esito della pubblica udienza del 9 giugno 2022, l’appello veniva deciso.
Con il primo capo d’impugnazione, l’Amministrazione deduce l’erroneità della sentenza per omesso rilievo dell’inammissibilità del ricorso di primo grado poiché proposto avverso atti privi di portata immediatamente lesiva.
A sostegno dell’eccezione, l’Appellante afferma che la nota impugnata si limiterebbe a richiedere la compilazione di un modulo in applicazione di una [#OMISSIS#] di legge senza, quindi, alcuna spendita di potere discrezionale.
Quanto alla direttiva ANAC impugnata, allega che l’atto rientrerebbe nel novero delle Linee [#OMISSIS#] «non vincolanti» con le quali vengono fornite mere indicazioni «sul corretto modo di adempiere [#OMISSIS#] obblighi previsti dalla normativa» (Cons. Stato, parere del 24 [#OMISSIS#] 2017, n. 1257) senza alcun contenuto novativo o integrativo della [#OMISSIS#] di riferimento.
L’eccezione deve essere disattesa.
La richiesta impugnata attualizza nei confronti del destinatario l’obbligo astrattamente previsto dalla legge, specificandone l’ampiezza e determinando in concreto l’effetto oggetto di contestazione, con contestuale previsione della sanzione in [#OMISSIS#] di inadempimento.
Tale effetto, potenzialmente lesivo della posizione del destinatario, veniva censurato in ricorso allegando la violazione degli invocati diritti alla «[#OMISSIS#] privata» e alla «protezione dei dati personali».
La circostanza che la richiesta fosse attuativa di una [#OMISSIS#] di legge, non consente per ciò solo di considerare la disposizione in sé auto-applicativa essendo, al contrario, richiesta a tali fini l’adozione di un provvedimento cui è imputabile il lamentano effetto [#OMISSIS#] sfera giuridica del destinatario.
La natura provvedimentale della richiesta, consente di assorbire l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione delle Linee [#OMISSIS#], sollevata sul rilievo della natura non vincolante delle stesse, peraltro proposta, come affermato dallo stesso Appellante, «in via cautelativa e, al limite, ad abundantiam».
Con il medesimo capo d’impugnazione l’appellante introduce l’ulteriore questione relativa alla preesistenza di un obbligo di pubblicazione dei dati in questione precedentemente all’introduzione della contestata equiparazione ai presenti fini, operata con l’introduzione del comma 1 bis dell’art. 14 del D. Lgs. n. 33/2013 fra «i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati …» ed i «titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti … »: tesi sostenuta in appello allegando che già la delibera ANAC n. 144/2014 prevedeva che gli «organi di governo», quindi anche del Consiglio di Amministrazione dell’Università, dovessero «essere qualificati come organi di indirizzo politico» e avversata dall’Appellato sul presupposto dell’estraneità dell’incarico di membro del Consiglio di Amministrazione dell’Università all’ambito di applicazione dell’art. 14, comma 1, [#OMISSIS#] sua originaria formulazione.
Entrambe le tesi, non colgono pienamente nel segno poiché, sotto un primo profilo, è pacifico il carattere non vincolante della delibera ANAC; sotto altro profilo, il richiamo al testo originario della [#OMISSIS#] in questione, come di seguito si esporrà, non è decisivo nei sensi invocati.
Con il secondo motivo, gli appellanti deducono «violazione e falsa applicazione dell’art.14 del D. Lgs. n.33/2013; dell’art.19 del D. Lgs. n.165/2001; del Decreto Legge n.162/2019 recante “Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica”, convertito in Legge 28 febbraio 2020, n. 8. Vizio di motivazione».
In particolare viene dedotta l’erronea interpretazione da parte del Tar del decisum della Corte costituzionale e la mancata considerazione della ratio della successiva novella introdotta con il citato D.L. n. 162/2019.
Il [#OMISSIS#] di prime cure, si afferma, avrebbe erroneamente ritenuto che la decisione della Corte e la successiva novella apportata con D.L. n. 162/2019 avessero riguardato la fattispecie di cui alla lett. f) dell’art. 14 (sopprimendola) «con riferimento, non solo ai “titolari di incarichi dirigenziali”, ma anche a tutti i titolari di incarico ex art. 14, co. 1-bis del d.lgs. 33/2013 e quindi anche ai “titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, [#OMISSIS#] che siano attribuiti a titolo gratuito”».
La Corte, sostiene parte appellante, avrebbe ritenuto illegittima l’indiscriminata estensione degli obblighi specificati alla citata lett. f) a tutti i Dirigenti senza distinzione alcuna ma non avrebbe inciso sulle posizioni dei titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo trattandosi di tema estraneo a quel giudizio.
A parere degli appellanti, pertanto, «il perimetro della decisione della Corte ha riguardato cioè i soli titolari di incarichi dirigenziali»: profilo non colto dal Tar con conseguente erroneità della decisione di primo grado.
La censura è fondata.
Ai fini di un corretto inquadramento della presente fattispecie, si anticipa sin d’ora che, ai sensi del primo comma dell’art. 14 «i titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, di livello statale regionale e locale, lo Stato, le regioni e gli enti locali» sono onerati della pubblicazione della seguente documentazione:
«a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all’articolo 2, della legge 5 luglio 1982, n. 441, nonché’ le attestazioni e dichiarazioni di cui [#OMISSIS#] articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni [#OMISSIS#] data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 7».
Il censurato comma 1 bis della medesima disposizione operava un’estensione dell’ambito soggettivo di applicazione del regime di pubblicazione disponendo che «le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, [#OMISSIS#] che siano attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione».
In altri termini, e per quanto di interesse ai presenti fini, venivano estesi ai «titolari di incarichi dirigenziali» gli obblighi già previsti per i titolari di incarichi di indirizzo politico.
Ciò premesso, deve rilevarsi che la Corte si pronunciava su di una questione (si rammenta) sollevata nell’ambito di un giudizio promosso da Dirigenti di ruolo, dichiarando l’art. 14, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 33/2013 «costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., [#OMISSIS#] parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, [..], anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001».
Il profilo di contrasto con il principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione veniva, quindi, rinvenuto [#OMISSIS#] previsione di obblighi di trasparenza relativamente a tutti i Dirigenti senza alcuna distinzione fra le variegate tipologie di incarico dirigenziale e senza tenere conto del diverso «grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare».
[#OMISSIS#] specie, la Corte riteneva che per i soli incarichi di Segretario generale di Ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (comma 3 dell’art. 19), nonché, di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4 dell’art. 19), la peculiarità delle funzioni attribuite rendesse «non irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza di cui si discute» mentre, l’assoggettamento ai medesimi obblighi di tutti i titolari di posizione dirigenziale, [#OMISSIS#] il principio di proporzionalità l’assoggettamento alla c.d. «trasparenza rafforzata» di cui alla lett. f dell’art. 14.
Tare differenziazione è dalla Corte ritenuta giustificata sul presupposto che «sussistono esigenze di trasparenza e pubblicità che possono non irragionevolmente rivolgersi nei confronti di soggetti cui siano attribuiti ruoli dirigenziali di particolare importanza» e che l’intervento dovesse «limitarsi all’eliminazione, dalla disposizione censurata, dei [#OMISSIS#] di più evidente irragionevolezza, salvaguardando provvisoriamente le esigenze di trasparenza e pubblicità che appaiano, prima facie, indispensabili».
Deve, quindi, ritenersi che la sentenza della Corte costituzionale esplichi effetti unicamente in ordine alla posizione di titolari di incarichi dirigenziali e non anche su quelle dei titolari di incarichi di indirizzo politico cui deve essere assimilata la posizione dell’Appellato.
L’appellato, in seno al Consiglio Amministrazione dell’Università, ricopre la carica di membro esterno ai sensi dell’art. 8, comma 3, lett. c) dello Statuto che prevede ne facciano parte «tre membri non appartenenti ai ruoli dell’Ateneo scelti dal Senato accademico su proposta del Rettore, anche sulla base di indicazioni richieste a istituzioni di alta cultura nazionali e internazionali, tra personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale e di esperienza professionale di alto livello con una necessaria attenzione alla qualificazione scientifica culturale» (testo riportato a pag. 1 della memoria di costituzione dell’appellante).
Circa la natura dell’incarico ricoperto è lo stesso interessato che precisa che «esercita le funzioni di indirizzo strategico e sovrintende alla gestione amministrativa, finanziaria e patrimoniale dell’Ateneo» (pag. 2 del ricorso di primo grado e pag. 2 della memoria datata 29 ottobre 2021).
Tale posizione deve ritenersi attratta nell’ambito di applicazione dell’originario testo dell’art. 14 che, al comma 1, già imponeva obblighi di pubblicazione ai «titolari di incarichi politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo politico».
Tale assimilazione si giustifica in ragione della sostanziale omogeneità concettuale fra la funzione di «indirizzo politico» e quella «indirizzo strategico» che compete ai titolari di «incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo» (qualificazione dell’incarico operato dallo stesso Appellato – pag. 10 della memorai del 29 ottobre 2019) che implica una diretta incisione sulla gestione amministrativa, finanziaria e patrimoniale dell’Ateneo.
Chiarita e ribadita la diversità della fattispecie sottoposta all’esame della Corte costituzionale rispetto a quella oggetto del presente giudizio (come peraltro già evidenziato dalla Sezione con ordinanza n. 5142/2017 con la quale veniva confermato l’esito cautelare di primo grado affermando che la rimessione disposta dal Tar nel giudizio n. 564/2017 afferiva ad una fattispecie «analoga (ma non identica)») devono essere definiti gli effetti che la pronunzia in esame determina sulla posizione dell’appellante.
Sul punto, la Corte, riconoscendo, quale effetto della propria decisione, la necessità di un adeguamento normativo afferma che «appartiene alla responsabilità del legislatore, nell’ambito dell’urgente revisione complessiva della materia, sia prevedere eventualmente, per gli stessi titolari degli incarichi dirigenziali indicati dall’art. 19, commi 3 e 4, modalità meno pervasive di pubblicazione, rispetto a quelle attualmente contemplate dal d.lgs. n. 33 del 2013, sia soddisfare analoghe esigenze di trasparenza in relazione ad altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali».
Il dato testuale, coerentemente all’oggetto del giudizio costituzionale, è univoco nel ricondurre all’iniziativa legislativa la sola revisione degli obblighi riferiti [#OMISSIS#] incarichi dirigenziali che di quel giudizio costituivano oggetto.
Ne deriva che le modifiche apportate in virtù del D.L. n. 162/2019, adottato in dichiarato «adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2019, n. 20», non incidono sugli obblighi di trasparenza dei soggetti, come l’Appellato, titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo indicati al comma 1 bis dell’art. 14 del D. Lgs. n. 33/2013 che restano quelli previsti dall’art. 14, comma 1.
La [#OMISSIS#] di cui all’art. 1, comma 7, del D. L. n. 162/2019, in quanto riferita espressamente «ai soggetti di cui all’articolo 14, comma 1 bis del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ad esclusione dei titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» trova applicazione, quanto ai soggetti che si trovano [#OMISSIS#] posizione dell’odierno Appellato, solo [#OMISSIS#] parte in cui – con una previsione aggiuntiva, non strettamente consequenziale, almeno considerata la sua latitudine, alla ricordata decisione del [#OMISSIS#] delle leggi – afferma che nelle more del riordino della materia «non si applicano le misure di cui [#OMISSIS#] articoli 46 e 47 del medesimo decreto legislativo n. 33 del 2013».
L’esclusione, quindi, prevista come temporanea, è espressamente riferita (non [#OMISSIS#] obblighi ma solo) al regime sanzionatorio disciplinato dalle due richiamate norme recanti, rispettivamente, «Responsabilità derivante dalla violazione delle disposizioni in materia di obblighi di pubblicazione e di accesso civico» e «Sanzioni per la violazione degli obblighi di trasparenza per casi specifici».
Con la conseguenza che permane l’obbligo di pubblicazione dei dati ma che, per effetto della disposizione appena richiamata (la cui dichiarata transitorietà consiglierebbe che il legislatore procedesse con sollecitudine al riordino della materia, adeguandosi puntualmente alla decisione della Corte costituzionale), tale obbligo non è attualmente provvisto di sanzione in [#OMISSIS#] di sua violazione.
L’Appellato, in subordine, devolve al Collegio questioni, già oggetto del ricorso di primo grado, relative alla compatibilità della disciplina normativa in materia di trasparenza con le esigenze di protezione dei dati personali riconosciute in ambito sovranazionale.
In particolare, l’appellato evoca:
– l’art. 5, comma 1, del Regolamento n. 2016/679/UE e l’art. 6 della Direttiva n. 95/46/CE (menzionati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 20/2019) [#OMISSIS#] parte in cui limitano le finalità di trattamento a quanto strettamente necessario in relazione ai fini perseguiti;
– gli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, [#OMISSIS#] parte in cui riconoscono, rispettivamente, il «diritto al rispetto della propria [#OMISSIS#] privata e familiare» e il «diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano»;
– l’art. 8 della CEDU in tema di «diritto al rispetto» della «[#OMISSIS#] privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza»;
– la Convenzione n. 108 del Consiglio d’Europa del 28 gennaio 1981 avente ad oggetto la protezione delle persone da trattamento di dati a carattere personale.
La [#OMISSIS#] di cui al più volte citato comma 1 bis dell’art. 14, a parere dell’Appellato, contrasterebbe con i principi affermati dalle richiamate fonti ed il derivante pregiudizio risulterebbe amplificato in ragione della sensibilità delle informazioni desumili dalla «dichiarazione dei redditi o inerenti lo stato patrimoniale» che si presterebbero ad essere «suscettibili di molteplici usi da parte del pubblico» ultronei rispetto alle esigenze di «trasparenza amministrativa» esponendo il privato a rischi di «furto di identità» o «di natura più grave da parte di potenziali aggressori, anche in zone del territorio diverse da quelle di abituale dimora».
Le suesposte doglianze, sebbene fondate sul richiamo a pacifici principi generali scontano, tuttavia, la mancata puntuale esplicitazione di concreti [#OMISSIS#] di pregiudizio specificatamente riferiti alla posizione dell’appellato, configurandosi, invece, come una generica critica di sistema [#OMISSIS#] ad una soggettiva definizione del punto di equilibrio fra le opposte esigenze di trasparenza e riservatezza.
Ferme restando quanto già esposto circa l’auspicato intervento del legislatore (imposto, peraltro, dalla Corte costituzionale) e la già affermata preesistenza all’introduzione del comma 1 bis degli obblighi in questione a carico dell’appellante, non può che rilevarsi la genericità delle prospettate eventuali e future lesioni (possibili usi distorti dei dati pubblicati; rischio di aggressioni di natura non meglio specificate; possibile accesso alle informazioni per mera curiosità, ecc.) connesse all’ostensione dei dati richiesti dall’Università.
Per le medesime ragioni non rileva il rischio di diffusone di dati sensibili ricavabili dalla documentazione reddituale, [#OMISSIS#] specie la dichiarazione dei redditi («condizioni di salute individuali» ricavabili dalle spese sanitarie e «convinzioni religiose (8/000), politiche sindacali (atteso che la dichiarazione può essere presentata tramite intermediari) o di altro genere (5/000)».
A tacere della genericità della doglianza, espressa in termini ipotetici, il pregiudizio allegato, come peraltro rilevato dalla stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 20/2019) è neutralizzale agevolmente mediante opportuni oscuramenti.
Premesso, quindi, che l’adempimento [#OMISSIS#] obblighi di cui si discute interferisce sia con il diritto alla riservatezza dei dati personali, quanto con quello della collettività al [#OMISSIS#] accesso alle informazioni detenute dalle amministrazioni, deve rilevarsi che i diritti invocati dall’appellato non sono incomprimibili essendo le loro limitazioni pacificamente ammesse in vista del conseguimento di obiettivi di trasparenza e pubblicità, sia pur nel rispetto dei principi proporzionalità, pertinenza, e non eccedenza rispetto alle finalità perseguite.
Di ciò se ne trae conferma dallo stesso Regolamento invocato dall’Appellato che, al quarto considerato, precisa che “il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità”.
La Corte costituzionale, inoltre, con la più volte citata sentenza n. 20/2019, pur censurando l’obbligo di pubblicazione dei dati di cui alla lett. f) del comma 1 dell’art. 14, riconduceva il profilo di illegittimità rilevato, come ampiamente esposto, alla sola operata estensione indiscriminata degli obblighi di trasparenza a tutti i Dirigenti senza distinzioni di sorta, senza, tuttavia, rilevare [#OMISSIS#] di eccedenza degli obblighi di cui all’art. 14, comma 1, rispetto alle sottese ragione di interesse pubblico alla pubblicità dei dati.
La lamentata compressione del proprio diritto alla riservatezza deve, quindi, ritenersi giustificata in ragione della delicatezza dell’incarico attribuito e della natura pubblica dello stesso, e quindi della possibilità di assicurare un controllo diffuso quanto all’esercizio delle funzioni attribuite, nel quadro di un’Amministrazione democratica.
Deve ritenersi, quindi, l’infondatezza (oltre che irrilevanza ai fini della presente decisione) degli invocati [#OMISSIS#] di illegittimità costituzionale e comunitaria.
Esenti da [#OMISSIS#] di manifesta irragionevolezza sono, infine, le censurate modalità di diffusione delle informazioni di cui all’art. 7 bis, comma 1, del d. Lgs. n. 33/2014 disciplinante l’indicizzazione delle informazioni (rintracciabilità dei dati sul web tramite motori di ricerca) che, a parere dell’Appellato, determinerebbe una «irragionevole espansione del novero dei fruitori dei dati … prestandosi alla disseminazione di dati decontestualizzati e parziali, idonei a fornire rappresentazioni erronee e fuorvianti della personalità degli interessati».
Sul punto è sufficiente rilevare che lo stesso appellato riconosce come «la Consulta non ha ritenuto, in via generale, del tutto irragionevole il modus prescelto dal legislatore (diffusione tout court dei dati personali sul web), confermandone anzi al parziale legittimità sia pure, come detto, solo in relazione ai dirigenti di cui all’art. 19, c.2 e 3, D. Lgs. 165/2001)» (pag. 5 della memoria del 26 aprile 2022).
Per quanto precede, l’appello deve essere accolto.
La novità della questione oggetto del giudizio determina la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, disattesa ogni altra domanda ed eccezione, lo accoglie nei termini di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Vista la richiesta dell’interessato e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte interessata.
Così deciso in Roma [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di consiglio del giorno 9 giugno 2022 con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] FF
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] De [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
[#OMISSIS#] Pascuzzi, Consigliere