Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2020, n. 246

Ricercatori-Contratto di lavoro a tempo determinato-Rimessone Corte di Giustizia

Data Documento: 2020-01-10
Area: Giurisprudenza
Massima

Sono rimesse alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le questioni:
1) se la clausola 5) dell’accordo quadro di cui alla direttiva n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, d’ora in avanti «direttiva»), intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», letta in combinazione coi considerando 6) e 7) e con la clausola 4) di tal Accordo («Principio di non discriminazione»), nonché alla luce dei principi di equivalenza, d’effettività e dell’effetto utile del diritto eurounitario, osta a una normativa nazionale, nella specie l’art. 24, comma 3, lett. a) e l’art. 22, comma 9, l. n. 240 del 2010, che consenta alle Università l’utilizzo, senza limiti quantitativi, di contratti da ricercatore a tempo determinato con durata triennale e prorogabili per due anni, senza subordinarne la stipulazione e la proroga ad alcuna ragione oggettiva connessa ad esigenze temporanee o eccezionali dell’Ateneo che li dispone e che prevede, quale unico limite al ricorso di molteplici rapporti a tempo determinato con la stessa persona, solo la durata non superiore a dodici anni, anche non continuativi;
2) se la citata clausola 5) dell’Accordo quadro, letta in combinazione con i considerando 6) e 7) della direttiva e con la citata clausola 4) di detto Accordo, nonché alla luce dell’effetto utile del diritto eurounitario, osta ad una normativa nazionale (nella specie, gli artt. 24 e 29, comma 1, l. n. 240 del 2010), laddove concede alle Università di reclutare esclusivamente ricercatori a tempo determinato, senza subordinare la relativa decisione alla sussistenza di esigenze temporanee o eccezionali senza porvi alcun limite, mercé la successione potenzialmente indefinita di contratti a tempo determinato, le ordinarie esigenze di didattica e di ricerca di tali Atenei;
3) se la clausola 4) del medesimo Accordo quadro osta ad una normativa nazionale, quale l’art. 20, comma 1, d.lgs. n. 75 del 2017 (come interpretato dalla citata circolare ministeriale n. 3 del 2017), che, nel mentre riconosce la possibilità di stabilizzare i ricercatori a tempo determinato degli Enti pubblici di ricerca —ma solo se abbiano maturato almeno tre anni di servizio entro il 31 dicembre 2017—, non la consente a favore dei ricercatori universitari a tempo determinato solo perché l’art. 22, comma 16, d.lgs. n. 75 del 2017 ne ha ricondotto il rapporto di lavoro, pur fondato per legge su un contratto di lavoro subordinato, al “regime di diritto pubblico”, nonostante l’art. 22, comma 9, l. n. 240 del 2010 sottoponga i ricercatori degli Enti di ricerca e delle Università alla stessa regola di durata massima che possono avere i rapporti a tempo determinato intrattenuti, sotto forma di contratti di cui al successivo art. 24 o di assegni di ricerca di cui allo stesso art. 22, con le Università e con gli Enti di ricerca;
4) se i principi di equivalenza e di effettività e quello dell’effetto utile del diritto UE, con riguardo al citato Accordo quadro, nonché il principio di non discriminazione contenuto nella clausola 4) di esso ostano ad una normativa nazionale (l’art. 24, comma 3, lett. a, l. n. 240 del 2010 e l’art. 29, commi 2, lett. d e 4, d.lgs. 81 del 2015) che, pur in presenza d’una disciplina applicabile a tutti i lavoratori pubblici e privati da ultimo racchiusa nel medesimo decreto n. 81 e che fissa (a partire dal 2018) il limite massimo di durata d’un rapporto a tempo determinato in 24 mesi (comprensivi di proroghe e rinnovi) e subordina l’utilizzo di rapporti a tempo determinato alle dipendenze della Pubblica amministrazione all’esistenza di «esigenze temporanee ed eccezionali», consente alle Università di reclutare ricercatori grazie ad un contratto a tempo determinato triennale, prorogabile per due anni in caso di positiva valutazione delle attività di ricerca e di didattica svolte nel triennio stessa, senza subordinare né la stipulazione del primo contratto né la proroga alla sussistenza di tali esigenze temporanee o eccezionali dell’Ateneo, permettendogli pure, alla fine del quinquennio, di stipulare con la stessa o con altre persone ancora un altro contratto a tempo determinato di pari tipologia, al fine di soddisfare le medesime esigenze didattiche e di ricerca connesse al precedente contratto;
5) se la clausola 5) del citato Accordo Quadro osta, anche alla luce dei principi di effettività e di equivalenza e della predetta clausola 4), a che una normativa nazionale (l’art. 29, commi 2, lett. d e 4, d.lgs. 81 del 2015e l’art. 36, commi 2 e 5, d.lgs. n. 165 del 2001) precluda ai ricercatori universitari assunti con contratto a tempo determinato di durata triennale e prorogabile per altri due (ai sensi del citato art. 24, comma 3, lett. a, l. n. 240 del 2010), la successiva instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, non sussistendo altre misure all’interno dell’ordinamento italiano idonee a prevenire ed a sanzionare gli abusi nell’uso d’una successione di rapporti a termine da parte delle Università(1).

Contenuto sentenza

N. 00246/2020REG.PROV.COLL.
N. 04232/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4232 del 2016, proposto da
El.Ca. Elettromeccanica Campana s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Gian [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio eletto presso lo studio Giovan Battista [#OMISSIS#] in Roma, via Bertoloni, 44;
contro
Autorità garante della concorrenza e del mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Trenitalia s.p.a., non costituita in giudizio;
nei confronti
[#OMISSIS#] Motor’s s.p.a., non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, 26 febbraio 2016, n.2672, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Autorità garante della concorrenza e del mercato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 28 novembre 2019 il Cons. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e udito per le parti l’avvocato Gian [#OMISSIS#] [#OMISSIS#];
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso iscritto al n. 4232 del 2016, El.Ca. Elettromeccanica Campana s.p.a. propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, 26 febbraio 2016, n.2672, con la quale è stato respinto il suo ricorso proposto contro l’Autorità garante della concorrenza e del mercato per l’annullamento, previa sospensiva,
a) della comunicazione della sanzione a firma del responsabile del procedimento n. I/759 e del responsabile della direzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato avviato, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 287/90 smi e con delibera del 5.2.2014, per accertare l’esistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza contraria all’art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE);
b) di ogni altro atto collegato, connesso e conseguente, se ed in quanto lesivo degli interessi della ricorrente, ivi compreso il verbale di adunanza del 27.05.2015, nonché il verbale di audizione finale del 22.05.2015 e tutte le comunicazioni istruttorie unitamente al verbale impugnato di comminatoria della sanzione con invito alla ricorrente al pagamento della somma di € 210.597,30.
Il giudice di prime cure evidenziava che, in seguito all’acquisizione presso gli uffici della Procura della Repubblica di Firenze nonché presso quelli della Polizia di Stato e della Guardia di finanza, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) in data 5 febbraio 2014 avviava un’istruttoria, ai sensi dell’art. 14 l. n. 287/90, volta ad accertare eventuali violazioni dell’art. 2 l. cit. o dell’art. 101 TFUE relativamente a condotte, poste in essere dai principali operatori del mercato della fornitura di beni e servizi elettromeccanici per il comparto ferroviario, suscettibili di integrare una fattispecie di intesa restrittiva della concorrenza. Successivamente, nel corso del 2014, il procedimento era esteso anche ad altri soggetti.
Comunicate le risultanze istruttorie in data 3 marzo 2015 ed esaminate le memorie conclusive delle Parti, di alcune delle quali era anche effettuata l’audizione finale, l’AGCM adottava il provvedimento finale con il quale, accertata l’esistenza della violazione dell’art. 101 TFUE per via della costituzione di un’intesa orizzontale di natura segreta e restrittiva per oggetto, attuata in tutto il territorio nazionale, tra le principali (quasi esclusive) imprese fornitrici della stazione appaltante Trenitalia s.p.a. (Trenitalia) in relazione a beni e servizi interessati dalle procedure di gara esaminate in istruttoria, nella forma della pratica concordata nel quadriennio 2008-2011, disponeva nei confronti delle varie Parti indicate, tra cui la El.Ca. Elettromeccanica Campana s.p.a. (El.Ca.), l’astensione in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata nonché sanzioni amministrativi pecuniarie di vario importo, tra cui quello nei confronti della Piaggio pari ad € 210.597,30.
In particolare, l’Autorità evidenziava di aver accertato, nel corso dell’istruttoria, che l’intesa in questione era consistita in gravi restrizioni della concorrenza derivanti dall’alterazione dei fisiologici meccanismi di mercato e del corretto confronto competitivo, mediante importanti condizionamenti reciproci alle singole politiche commerciali e di posizionamento strategico dei membri del cartello, con ripartizione del mercato in relazione alle diverse possibili commesse di Trenitalia, tramite accordi funzionali a disciplinare non soltanto le offerte dell’aggiudicatario designato ma anche quelle – artificialmente maggiori – degli altri partecipanti non designati, che risultavano così di mera “copertura”. Erano stati – a riprova – individuati continui e sistematici contatti tra le Parti, anche tramite mezzi di comunicazione a distanza, che consentivano di predisporre e aggiornare la relativa contabilità “di cartello”, incentrata sul sistema dei “debiti/crediti”, il cui computo ricomprendeva anche le compensazioni realizzate tramite sub-forniture o altri simili strumenti. Gli accordi “di cartello” in questione, per l’Autorità, erano risultati idonei a produrre effetti nella forma di un artificioso innalzamento dei prezzi delle prestazioni da rendere alla stazione appaltante, con uno scarso consequenziale incentivo a ottimizzare l’efficienza delle stesse, come confermato dalla circostanza per la quale, al cessare delle condotte collusive (coincidente, di fatto, con l’avvenuta conoscenza da parte delle imprese delle indagini penali a loro carico), Trenitalia aveva stimato una considerevole riduzione dei prezzi di acquisto, nell’ordine medio del 25%.
Con ricorso al T.A.R., ritualmente notificato e depositato, El.Ca. chiedeva l’annullamento, previa sospensiva, di tale provvedimento nonché degli altri indicati in epigrafe, lamentando, in sintesi, quanto segue.
“Violazione e falsa applicazione della l. 10.10.1990 n. 287 – Violazione dell’art. 101 TFUE – Violazione della l. 241/90 smi – Violazione dell’art. 270 cpp – Violazione dell’art. 268 cpp. Violazione dell’art. 295 cpc – Difetto assoluto di istruttoria – Inesistenza dei presupposti – Sviamento”.
Secondo la ricorrente l’AGCM avrebbe dovuto sospendere il giudizio, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. nelle more della definizione di quello penale, anche perché la condotta presa in esame riguardava un periodo pregresso (2008-2011) ed era unicamente incentrata sulle risultanze da tale processo.
El.Ca. evidenziava, poi, che tutta la ricostruzione istruttoria si era fondata sulle intercettazioni telefoniche agli atti delle indagini penali. Riportando le norme del codice penale relative all’uso delle intercettazioni, la ricorrente precisava che gli atti di indagine erano ancora secretati per l’indagato e che un provvedimento di avviso dei conclusioni di indagini, ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p., non era stato mai adottato, per cui l’Autorità non avrebbe potuto utilizzare tali intercettazioni a prescindere dalla loro legittima acquisizione nelle indagini penali.
L’utilizzo delle stesse in sede diversa da quella penale era illegittimo e gli interessati non ne avevano potuto contestare l’efficacia probatoria, dato anche che risultavano solo trascrizioni in “brogliacci”, interpretate in senso univoco da organi di Polizia Giudiziaria.
El.Ca. contestava anche il fondamento stesso del quadro ricostruito dall’AGCM, in quanto le ventiquattro gare prese in considerazione vedevano la vigenza del Sistema di Qualificazione Fornitori (SQF), che obbligava comunque le imprese partecipanti a presentare offerte anche alla luce dei dati storici ricavati dalle precedenti gare cui avevano partecipato. A ciò si aggiungeva che il documento denominato “Tabellone” su cui si era incentrata l’Autorità per sostenere l’esistenza dell’intesa non era stato riscontrato anche presso sedi di imprese diverse.
Proprio in virtù del meccanismo di offerta legato al SQF, il “Tabellone” e il Piccolo Tabellone” non erano altro che dei riepiloghi dei prezzi unitari precedenti, statisticamente raccolti nelle varie sedute di gara, cui era indispensabile assistere, necessari per la partecipazione alle gare successive e per legare le quotazioni unitarie all’importo complessivo posto a base di gara.
La ricorrente osservava anche che i notevoli ribassi di prezzo richiamati da Trenitalia si erano verificati anche in tutti gli altri settori relativi a servizi e/o forniture oggetto di gare europee bandite da tale stazione appaltante e ben potevano essere attribuiti alla crisi economica dell’ultimo quinquennio.
Non vi era in atti prova che i prezzi praticati dalle ditte partecipanti fossero maggiori rispetto a quelli di mercato e non si comprende per quale ragione imprese estere non avevano partecipato alle suddette gare offrendo prezzi più competitivi.
In subordine, premettendo che l’imposta diffida era inutile in quanto la condotta sanzionata si riferiva a periodo ormai trascorso, la ricorrente contestava anche l’entità della sanzione, fondata sull’esercizio 2014 e non su quello 2013, in riferimento all’anno di inizio del procedimento.
Risultava poi omesso ogni riferimento alla possibilità di eseguire il pagamento della sanzione nella misura ridotta di 1/3 della sanzione massima, ai sensi dell’art. 16 l. n. 689/81 e non era stato considerato che la ricorrente non aveva partecipato alle gare andate deserte non per accordi in merito con le altre imprese ma perché non in possesso di un contratto “di punta” del determinato importo richiesto e non in grado di reperire altre imprese per partecipare in r.t.i., fermo restando che le modalità di partecipazione non erano apparse convenienti.
Si costituiva in giudizio l’Autorità intimata, chiedendo la reiezione del ricorso con tesi sviluppate in una memoria “unica” sull’intero contenzioso in discussione alla camera di consiglio del 2 settembre 2015. In tale occasione la trattazione era rinviata al merito, su istanza di parte.
In prossimità della pubblica udienza l’AGCM depositava nuovamente una memoria “unica” illustrativa e la causa era discussa in data 27 gennaio 2016 e decisa con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, sottolineando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, in relazione a tutti i profili di doglianza.
Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l’errata ricostruzione in fatto e in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo come motivi di appello le proprie originarie censure, meglio descritte in parte motiva.
Nel giudizio di appello, si è costituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.
Alla pubblica udienza del 28 novembre 2019, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione.
DIRITTO
1. – L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
2. – In ordine all’inquadramento generale della vicenda, occorre ricordare che l’intesa di cui si discute e il provvedimento dell’Autorità che l’ha sanzionata sono stati già vagliati da questa Sezione che, con la sentenza 10 luglio 2018 n. 4211, ha condiviso integralmente, rigettando gli appelli ivi proposti, la ricostruzione operata in fatto e in diritto dall’organismo di tutela di settore.
Sulla scorta delle statuizioni contenute in quella sentenza, dalle quali, come si vedrà, non vi sono ragioni di discostarsi, possono essere vagliati i singoli motivi di appello proposti in questa sede.
3. – Con un unico motivo di diritto, rubricato “error in judicando in relazione alla violazione e falsa applicazione della l.10.10.1990 n.287; violazione dell’art.101 TFUE; violazione della l.241/90 smi; violazione dell’art.270 cpp; violazione dell’art.268 cpp; violazione dell’art.295 cpc; difetto assoluto di istruttoria; inesistenza dei presupposti; sviamento”, la parte appellante censura complessivamente la sentenza, integrando in una unica ragione le singole censure proposte in primo grado. A conclusione del suo excursus, vengono poi riproposte le doglianze originariamente introdotte, in vantato ossequio del principio devolutivo, riproducendo un motivo, rubricato “error in judicando in relazione alla violazione e falsa applicazione della l.10.10.1990 n.287; violazione dell’art.101 TFUE; violazione della l.241/90 smi; violazione dell’art.270 cpp; violazione dell’art.268 cpp. violazione dell’art.295 cpc; difetto assoluto di istruttoria; inesistenza dei presupposti-sviamento”, con il quale si lamentano quattro differenti profili di illegittimità del provvedimento gravato.
Stante la detta struttura dell’appello, i detti quattro profili, che contengono le effettive censure, possono essere di seguito valutati analiticamente.
4. – Con il primo profilo, si lamenta la mancata sospensione, in quanto l’Autorità Garante avrebbe arrestare il giudizio, ai sensi dell’art.295 c.p.c., nelle more della definizione del giudizio penale a carico delle stesse parti.
4.1. – La doglianza non ha pregio.
Come espressamente ricordato dal primo giudice, non solo esiste nell’ordinamento un principio di reciproca autonomia tra giudizio penale ed amministrativo (peraltro con affermazione fatta propria anche dalla parte appellante, che richiama Cons. Stato, IV, 20 dicembre 2013, n.6151 – ma anche id., 12 marzo 2012, n. 1386: “la sospensione necessaria del giudizio amministrativo in ragione della pendenza di un giudizio penale di per sé deroga al principio fondamentale, introdotto con il nuovo processo penale, della reciproca autonomia e del parallelismo dei due accertamenti giurisdizionali, i quali operano in ambiti diversi e con finalità differenti. Di conseguenza, essa può essere possibile soltanto se la definizione del giudizio amministrativo ineliminabilmente – per l’appunto – ‘dipenda’ -come dispone l’art. 295 c.p.c.- da quella del giudizio penale, in quanto ne sia vincolata in modo esclusivo, diretto e consequenziale, e comunque deve essere disposta sulla base di una accezione restrittiva dei presupposti su cui si fonda proprio perché la sospensione rappresenta un’eccezione al principio generale dell’autonomia dei giudizi che ormai informa l’intera giurisdizione”), ma soprattutto non considera che tale norma si applica solo a procedimenti giurisdizionali.
5. – Sotto il secondo profilo, viene dedotta la violazione delle regole sulla utilizzabilità della documentazione inerente ad un procedimento penale pur nell’ambito dell’autonomia sostanziale e funzionale fra i due giudizi, in particolar modo in relazione ai risultati delle intercettazioni telefoniche condotte dagli uffici della Procura della Repubblica.
5.1. – La censura non può essere accolta.
Come rilevabile dalla citata sentenza Cons. Stato, VI, 10 luglio 2018 n. 4211, si tratta di un motivo di doglianza già esaminato nei quattro appelli congiuntamente decisi. Le ragioni della presente impugnativa non si discostano da quelli allora vagliati, per cui può riprendersi l’argomentazione allora fatta propria dalla Sezione.
“Va premesso che, né la legge generale sul procedimento amministrativo (ispirato al principio di atipicità dei mezzi istruttori, con il solo limite della loro pertinenza e credibilità), né la specifica disciplina antitrust, contemplano preclusioni in ordine all’utilizzo ai fini istruttori di prove raccolte in un processo penale, a patto che:
“a) le prove siano state ritualmente acquisite in conformità con le regole di [#OMISSIS#] che presiedono alla loro acquisizione ed utilizzo;
“b) sia salvaguardato il diritto di difesa;
“c) il materiale probatorio formatosi aliunde sia stato oggetto di autonoma attività valutativa.
“In applicazione dei predetti criteri, non vi è motivo per ritenere che, nel caso in esame, la documentazione inerente al procedimento penale fosse inammissibile.
“Secondo quanto dedotto dall’Autorità (e non specificatamente contestato da controparte), la trasmissione della documentazione di cui si discute è stata specificatamente autorizzata dalla Procura della Repubblica di Firenze. Quanto alle intercettazioni, deve precisarsi che «il citato art. 270, comma 1, riguarda specificamente il processo penale, deputato all’accertamento delle responsabilità appunto penali che pongono a rischio la libertà personale dell’imputato (o dell’indagato), cosa questa che giustifica l’adozione di limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale. In ragione di tanto, è solo con riferimento ai procedimenti penali che una ipotetica, piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nell’ambito di procedimenti penali diversi da quello per cui le stesse intercettazioni erano state validamente autorizzate contrasterebbe con le garanzie poste dall’art. 15 Cost., a tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni. In relazione poi al profilo della utilizzabilità in concreto, è stato precisato che presupposto per l’utilizzo esterno delle intercettazioni è la legittimità delle stesse nell’ambito del procedimento in cui sono state disposte» (Cass. S.U. 23 dicembre 2009 n. 27292; 12 febbraio 2013, n. 3271). Sul punto, va anche rimarcato che la prova della conversazione telefonica e del suo contenuto può ben desumersi dalla lettura dei brogliacci di cui all’art. 268 co. 2 c.p.p. (cfr. ex plurimis Cassazione penale n. 49462 del 2015).
“Le imprese coinvolte hanno avuto ampio accesso e possibilità di controprova in merito a tutti gli elementi probatori sulla cui base sono stati mossi gli addebiti.
“Da ultimo, in ragione della mole dei riscontri effettuati, è evidente che l’accertamento del meccanismo di funzionamento dell’intesa è stata il frutto di una attività valutativa autonoma dall’Autorità, non limitata alla mera acquisizione della documentazione presente nel fascicolo dell’indagine penale. È significativo che il procedimento condotto dall’Autorità si sia incentrato su ben ventiquattro procedure di acquisto indette da Trenitalia, mentre il procedimento penale aveva riguardato soltanto una parte (dieci) di esse.
“L’utilizzabilità, al fine di accertare violazioni del diritto antitrust, delle fonti di prova provenienti dal procedimento penale, contrariamente a quanto paventato dalle società appellanti, non si pone in contrasto con il diritto convenzionale.
“Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, le comunicazioni telefoniche e ambientali fanno parte della nozione di «vita privata» e di «corrispondenza» nel senso dell’articolo 8 della Convenzione. La loro intercettazione, la memorizzazione dei dati così ottenuti e la loro eventuale utilizzazione nell’ambito dei procedimenti penali costituisce una «ingerenza da parte di un’autorità pubblica» nel godimento del diritto garantito dalla citata disposizione convenzionale. Tuttavia, tale ingerenza non viola l’articolo 8 quando sia «prevista dalla legge», persegua scopi legittimi, e sia «necessaria in una società democratica» per raggiungerli (Malone c. Regno Unito, 2 agosto 1984, § 64, serie A n. 82; Valenzuela Contreras c. Spagna, 30 luglio 1998, § 47, Recueil des arrêts et décisions 1998-V).
“Nel caso che ci occupa, ricorrono tutti i presupposti citati, dal momento che le intercettazioni: sono previste dalle legge (segnatamente: dal Libro III, Titolo III, Capo III, del codice di procedura penale); vengono disposte da un’autorità giudiziaria indipendente; sono previste garanzie processuali adeguate e sufficienti contro gli abusi; costituiscono uno dei principali mezzi di indagine per la repressione degli illeciti anticoncorrenziali.
“Del resto, anche sul versante costituzionale interno, la «libertà» e la «segretezza» della «corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», oggetto del diritto «inviolabile» tutelato dall’art. 15 Cost., può subire limitazioni o restrizioni «in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante», sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione (ex plurimis, Corte Costituzionale, sentenza n. 20 del 2017).
“In ordine alla doglianza genericamente incentrata sulla violazione delle norme sulla protezione dei dati personali, è dirimente considerare che, ai sensi dell’art. 47 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (codice in materia di protezione dei dati personali), in caso di trattamento di dati personali effettuato presso uffici giudiziari di ogni ordine e grado «non si applicano», se il trattamento è effettuato per ragioni di giustizia ‒ con tale espressione intendendosi i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie, «le seguenti disposizioni del codice: a) articoli 9, 10, 12, 13 e 16, da 18 a 22, 37, 38, commi da 1 a 5, e da 39 a 45; b) articoli da 145 a 151» (in deroga dunque alle regole ordinariamente per il trattamento dei dati personali da parte dei soggetti pubblici).”
Conclusivamente, facendo proprie le argomentazioni già in precedenza espresse, la Sezione ritiene ancora una volta infondata la ragione di doglianza qui riproposta.
6. – Con il terzo profilo, si lamenta l’inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto, stante la mancata prova dell’intesa anticoncorrenziale.
6.1. – La doglianza non ha fondamento.
Anche in questo caso, può farsi riferimento alla citata sentenza Cons. Stato, VI, 10 luglio 2018 n. 4211, in quanto, ancora una volta, le ragioni della presente impugnativa non si discostano da quelli allora vagliati, per cui può riprendersi l’argomentazione allora fatta propria dalla Sezione.
Rinviando a quanto espresso in quella sede (punto 8.1. della sentenza) in merito ai principi applicabili al procedimento antitrust, va qui solo ricordato quanto acclarato in merito all’esistenza della fattispecie contestata.
Va infatti condiviso quanto allora affermato in merito alla circostanza per cui “l’Autorità ha ampiamente assolto l’onere di provare l’esistenza dei fatti costitutivi dell’infrazione contestata, consistente nel coordinamento consapevole dell’attività di 12 operatori indipendenti, attivi nel mercato della fornitura di beni e servizi elettromeccanici, nell’ambito di 24 procedure pubbliche di acquisto indette da Trenitalia s.p.a. per l’acquisto di bobine elettriche e di servizi di riparazione di motori di trazione ferroviaria, nell’arco temporale che dal 2008 al 2011. Le parti dell’intesa illecita, in particolare, concordavano quali imprese avrebbero partecipato, quali avrebbero dovuto risultare aggiudicatarie e quali sarebbero stati i prezzi da offrire.
“Gli elementi di prova sono costituiti da plurimi riscontri esterni non solo documenti reperiti nel corso delle ispezioni, ma anche testimonianze di scambi di informazioni e trattative avvenuti nel corso di colloqui telefonici, incontri fisici e comunicazioni elettroniche delle “trattative” intercorse tra i rappresentanti delle diverse società prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, al fine di orientare i comportamenti delle imprese partecipanti al cartello.
“Particolarmente significativi, al fine di comprendere le concrete dinamiche dell’intesa, sono i due data base rinvenuti presso la sede della società Elca (denominati “Tabelloni”: cfr. doc. 8 e 15). È stato così possibile esaminare i prospetti dettagliati con cui venivano riepilogate le assegnazioni distribuite a ciascuna impresa partecipante al cartello (a eccezione di Iee, che all’epoca, come si vedrà, non era stata ancora costituita) per ogni appalto indetto da Trenitalia s.p.a., e le conseguenti posizioni di debito o credito maturate dai singoli soggetti nei confronti delle altre imprese. Le imprese a credito per procedure passate maturavano diritti per procedure future, pure nella forma dell’impegno dell’aggiudicatario a cedere parte della commessa (per lo più in forma di subappalto) anche a chi non risultava formalmente tra i partecipanti alla procedura interessata.
“Occorre precisare che, quando la prova della concertazione non è basata sulla semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti, ma dall’istruttoria emerge che le pratiche sono stato frutto di una concertazione e di uno scambio di informazioni in concreto tra le imprese, grava sulle imprese l’onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti. Tale prova nel presente giudizio non è stata fornita.
“Anche le obiezioni relative all’asserita mancata attuazione dell’intesa e all’assenza dei relativi effetti (avuto riguardo al concreto esito delle gare, all’andamento dei fatturati delle imprese partecipanti) sono prive di rilievo.
“Le intese finalizzate alla ripartizione dei mercati, avendo un «oggetto restrittivo» (da intendersi in economico e non giuridico) della concorrenza, appartengono a una categoria di accordi espressamente vietati dall’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, poiché un siffatto oggetto non può essere giustificato mediante un’analisi del contesto economico e giuridico in cui si inscrive la condotta anticoncorrenziale di cui trattasi (Corte di Giustizia UE, 19 dicembre 2013, cause riunite C-239/11 P, C 489/11 P e C 498/11 P; Corte di Giustizia 8 dicembre 2011 in C-272/09). In tali casi, non occorre verificarne gli effetti restrittivi concreti dell’intesa al fine della sua qualificazione in termini di illiceità, in quanto l’ordinamento sanzione già di per sé l’effetto potenziale della restrizione. La costituzione di un cartello ovvero di una organizzazione privata avente il fine precipuo di programmare la produzione e le attività dei partecipanti costituisce oggetto di un divieto assoluto, rispetto al quale non sono ammesse controprove neppure sulla circostanza che l’intesa porti con sé guadagni di efficienza che possano giustificarne l’esenzione (purché, in astratto, l’intesa appaia idonea a incidere sulla corretta e fisiologica dinamica della competizione concorrenziale).
“In ogni caso, va rimarcato che non solo i ripetuti contatti hanno senza dubbio consentito ai partecipanti di scambiare reciprocamente informazioni utili, sia per facilitare l’allineamento delle offerte commerciali, sia per consentire il controllo ex post dell’avvenuto rispetto dell’accordo di cartello, ma la concreta attuazione della ripartizione del mercato è dimostrata dal confronto tra quanto pattuito ex ante e quanto effettivamente registratosi ex post sulla base dei dati di fatturato specifico realizzato dalle parti, e dal significativo calo del prezzo dei beni e servizi oggetto di collusione al cessare delle condotte anticoncorrenziali.
Inoltre, va ricordato che “in presenza di comportamenti d’imprese in contrasto con il diritto antitrust, che sono imposti o favoriti da una normativa nazionale che ne legittima o rafforza gli effetti (con specifico riguardo alla determinazione dei prezzi e alla ripartizione del mercato), l’autorità nazionale preposta alla tutela della concorrenza non può infliggere sanzioni alle imprese interessate per comportamenti pregressi soltanto qualora questi siano stati loro imposti dalla detta normativa nazionale, mentre può infliggere sanzioni alle imprese interessate per comportamenti pregressi qualora questi siano stati semplicemente facilitati o incoraggiati da quella normativa nazionale, pur tenendo in debito conto le specificità del contesto normativo nel quale le imprese hanno agito (come stabilito dalla Corte di Giustizia 9 settembre 2003, C-198/01).
“Su queste basi, va dunque condivisa l’affermazione dell’Autorità secondo cui nella fattispecie non può trovare applicazione la speciale scriminante della “copertura normativa” dei comportamenti anticoncorrenziali delle imprese, in quanto le condotte anticoncorrenziali (costituite da plurimi e e reiterati contatti collusivi) adottate dalle odierne appellanti non sono state imposte né facilitate dalle vigenti disposizioni normative, le quali si limitavano a prevedere un sistema di prequalifica per l’accesso al mercato, basato su determinati requisiti tecnico-finanziari.”
Conclusivamente, la doglianza proposta va rigettata.
7. – Infine, con il quarto profilo, si deduce l’erronea quantificazione della sanzione, in relazione alla errata identificazione del momento iniziale della condotta.
7.1. – La censura va respinta.
Nuovamente, sono dirimenti le osservazioni rinvenibili nella sentenza Cons. Stato, VI, 10 luglio 2018 n. 4211, peraltro svolte anche in relazione al ruolo dell’attuale appellante.
“La quantificazione delle sanzioni operata dall’Autorità costituisce coerente applicazione dei criteri dettati dall’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, dall’art. 11 della legge n. 689 del 1981, dalla Linee Guida approvate dall’Autorità con delibera del 22 ottobre 2014, n. 25152, nonché dagli «Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’articolo 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003», di cui alla Comunicazione della Commissione 2006/C 210/02.
“Il disvalore delle condotte sanzionate risulta dalle seguenti circostanze: – le intese orizzontali di prezzo o di ripartizione dei mercati sono infrazioni “molto gravi” sulla sola base della loro natura; – la pratica concordata in esame si è concretata in una cooperazione stabile nel tempo, dal marzo 2008 al settembre 2011; – le parti dell’intesa hanno negoziato le principali variabili concorrenziali (quantità, prezzo, numero dei contendenti); – le quote di mercato detenute dalle imprese partecipanti al cartello erano pari alla quasi totalità degli operatori attivi nel mercato rilevante; – l’intesa è stata attuata dalle parti influenzando l’andamento dei prezzi medi di aggiudicazione delle gare.
“Il «valore delle vendite dei beni e dei servizi oggetto dell’infrazione», da porsi a base di calcolo della sanzione, è stato correttamente rapportato, in applicazione di quanto previsto dal punto 18 delle Linee Guida, agli importi oggetto di aggiudicazione (in tal senso, cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, 11 luglio 2016, n. 3047).
“Al valore del fatturato specifico, l’Autorità ha applicato la percentuale minima del 15%.
“L’Autorità ha incrementato l’importo della sanzione per le società Meis ed Elca, rispettivamente del 15% e 10%, in ragione del ruolo svolto da tali società nell’intesa.
“Da ultimo, gli importi, sono stati per alcune società, tra cui IEE, ridotti in ragione del vincolo rappresentato dalla soglia legale massima di cui all’art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, pari al 10% del fatturato totale realizzato nell’ultimo esercizio chiuso (2014) anteriormente alla notifica della diffida.”
Anche questo ultimo profilo va quindi ritenuto infondato.
8. – L’appello va quindi respinto. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalle oggettive difficoltà di accertamenti in fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti (così da ultimo, Cassazione civile, sez. un., 30 luglio 2008 n. 20598).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:
1. Respinge l’appello n. 4232 del 2016.
2. Compensa integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Presidente
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
Alessa