Nel caso di specie, premesso che l’università ha verificato, nel corso del procedimento nel quale ha doverosamente coinvolto la docente, se sussistessero o meno tutti i presupposti previsti dall’art. 53, comma 7, d.lgs. 165/2001 (attraverso l’indagine circa l’effettivo svolgimento di incarichi extraistituzionali, la riconducibilità degli stessi nel novero di quelli il cui svolgimento è condizionato dal conferimento dell’ente o dal previo rilascio dell’autorizzazione, l’assenza di autorizzazione da parte dell’ente, la onerosità degli stessi, l’intervenuto pagamento del corrispettivo) solo all’esito di tale verifica la medesima Università ha disposto il recupero delle somme corrisposte alla dipendente in ragione dello svolgimento di 11 incarichi.
Tale atto di recupero dunque, pur avente ad oggetto una ingiunzione di pagamento, costituisce un tipico atto amministrativo di natura autoritativa proprio della gestione del rapporto di pubblico impiego “non contrattualizzato”, diversamente da quanto ha affermato il giudice di primo grado.
L’inadempimento “di un preciso obbligo contrattuale (…)”, nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro di impiego pubblico “non contrattualizzato”, può avvenire soltanto attraverso strumenti pubblicistici, all’esito di un apposito procedimento disciplinare al quale deve farsi partecipare il soggetto interessato, che si concluderà con un provvedimento amministrativo nel quale si coagula la valutazione dell’ente circa la sussistenza dei presupposti per procedere al recupero delle somme.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 ottobre 2018, n. 5944
Personale docente a tempo pieno - Attività extra istituzionale senza previa autorizzazione
N. 05944/2018REG.PROV.COLL.
N. 08799/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8799 del 2011, proposto dall’Università degli Studi di Potenza, in persona del Rettore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
contro
la professoressa [#OMISSIS#] Fascetti, rappresentata e difesa dall’avvocato Bruno Leuzzi, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma, via [#OMISSIS#] Caro, n. 63;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata, Sez. I, 8 giugno 2011 n. 344, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio della professoressa Fascetti;
Esaminate le memorie e gli ulteriori atti depositati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del 25 gennaio 2018 il Cons. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e udita per la parte appellante l’avvocato dello Stato [#OMISSIS#] [#OMISSIS#];
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – Con ricorso in appello l’Università degli Studi di Potenza ha chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata, Sez. I, 8 giugno 2011 n. 344, con la quale ha accolto in parte il ricorso (R.G. n. 2670/2010) proposto dalla professoressa [#OMISSIS#] Fascetti per ottenere l’annullamento degli atti corrispondenti alla sequenza procedimentale attraverso la quale il rettorato dell’Università degli Studi di Potenza, con provvedimento conclusivo 7 aprile 2008 n. prot. 6810, le aveva ingiunto il pagamento della somma di € 30.212,66 – disponendone il prelievo forzoso nella misura del quinto dello stipendio in 48 rate, dalla mensilità di febbraio 2010 alla mensilità di gennaio 2014 (ed un ultima residuale rata a febbraio 2014) – per avere la medesima docente svolto attività extraistituzionale senza la necessaria previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, nonché il risarcimento dei danni patiti.
2. – Per come si legge nella parte descrittiva della sentenza qui fatta oggetto di appello, alla quale fa rinvio l’appellante Università nell’atto di gravame, era avvenuto che:
– in seguito ad apposite verifiche a campione disposte dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento della funzione pubblica, era emerso che la professoressa [#OMISSIS#] Fascetti, docente universitario a tempo pieno presso l’Università degli Studi di Potenza, aveva svolto numerosi incarichi extraistituzionali senza essere stata previamente autorizzata dall’Università, secondo quanto (invece) statuito dall’art. 1, comma 60, l. 23 dicembre 1996, n. 662 con effetto dal 1° marzo 1997;
– in conseguenza degli esiti (positivi) di tale verifica il Dipartimento della funzione pubblica, con nota del 18 marzo 2008, trasmetteva all’Università la relazione che il personale della Guardia di Finanza di Potenza, interessato di svolgere le relative operazioni istruttorie, aveva predisposto, restando in attesa di conoscere quali provvedimenti l’Ateneo avrebbe assunto nei confronti della docente “con particolare riferimento al recupero delle somme indebitamente percepite”;
– il Rettore dell’Università degli Studi di Potenza, con atto prot. n. 6810 del 7 aprile 2008 comunicava alla professoressa Fascetti l’avvio del procedimento finalizzato al recupero in favore dell’Ateneo dell’importo di 30.212,66 euro, a titolo di compensi percepiti per incarichi non autorizzati, ai sensi dell’art. 7 agosto 1990, n. 241;
– seguiva la trasmissione di controdeduzioni da parte della professoressa, con le quali la stessa puntualizzava come gli 11 incarichi rispetto ai quali le era stata contestata l’assenza di previa autorizzazione al loro svolgimento dovessero ricondursi nell’alveo delle attività che il dipendente pubblico può svolgere senza necessità di autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza ai sensi dell’art. 53, comma 6, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, oltre ad eccepire l’intervenuta prescrizione quinquennale dell’azione di recupero delle somme richieste, stante la natura prettamente risarcitoria della pretesa avanzata dall’Università;
– gli uffici del pro-rettorato dell’Università replicavano a dette controdeduzioni rimarcando (in seguito ad un confronto anche con l’Avvocatura distrettuale) come le attività dispiegate dalla professoressa e rispetto alle quali si era avviato il procedimento per verificare la necessità di richiedere la restituzione della somma suindicata dovevano tutte considerarsi riconducibili nell’alveo della categoria dei compiti extraistituzionali da svolgersi solo previo rilascio della corrispondente autorizzazione da parte dell’amministrazione datoriale (e ciò sia per la previsione di fonte primaria costituita dall’art. 53 d.lgs. 165/2001 e dall’art. dall’art. 58, comma 7, d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, come successivamente sostituito dall’art. 26 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, che per la statuizione della disciplina interna all’amministrazione recata dai decreti rettorali 1 luglio 1998 n. 708 e 26 marzo 2004 n. 150); a ciò si aggiunga che l’operazione di recupero svolta dall’Università con riferimento agli importi liquidati in favore della professoressa Fascetti in occasione dello svolgimento degli 11 incarichi (importi che peraltro non si riferivano soltanto al rimborso delle spese dalla stessa sostenute, giacché era ben distinto l’importo riconosciuto per la prestazione svolta rispetto a quanto riconosciuto a titolo di rimborso delle spese) non poteva affatto ricondursi ad “un’iniziativa risarcitoria” dell’amministrazione, configurandosi invece quale “meccanismo sanzionatorio rispetto allo svolgimento di un incarico privo di autorizzazione, teso a stigmatizzare il comportamento del dipendente che venga meno ai suoi doveri di ufficio”, sicché nessun profilo prescrizionale era attagliabile all’azione di recupero delle somme liquidate;
– in conseguenza di quanto sopra, con provvedimento del pro-Rettore 16 settembre 2009 prot. n. 12865, il procedimento veniva concluso dall’Università ingiungendo alla professoressa Fascetti il pagamento entro 30 giorni della somma di € 30.212,66 con l’espressa avvertenza che, decorso tale termine, il recupero di tale somma sarebbe stato effettuato con trattenute sulle competenze mensili spettanti alla dipendente;
– seguiva a tale provvedimento definitivo un ulteriore scambio epistolare tra l’Università e il difensore della professoressa, nel quale veniva anche coinvolto il Dipartimento della funzione pubblica, volto a contestare la legittimità del provvedimento assunto dall’Università sotto numerosi profili sia formali che sostanziali;
– infine, con atto prot. n. 2097 del 4 febbraio 2010, il direttore amministrativo dell’Università, stante il mancato pagamento della somma ingiunta, disponeva la rateizzazione della stessa (€ 30.212,66) nei limiti del quinto delle competenze mensili, spettanti alla dipendente (mediante 48 rate di € 617,63 dalla mensilità di febbraio 2010 alla mensilità di gennaio 2014 ed un’ultima rata di € 566,42 relativa alla mensilità di febbraio 2014), di talché l’amministrazione, a partire dallo stipendio relativo al mese di febbraio 2010, procedeva al recupero rateizzato;
– seguiva nell’aprile 2010 una proposta di accordo transattivo avanzata dal difensore della professoressa Fascetti alla quale non aderiva l’Università.
3. – La professoressa Fascetti proponeva quindi ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata, sostenendo la illegittimità e la nullità di tutti i provvedimenti della filiera procedimentale come sopra descritta e sospettando di illegittimità costituzionale le norme di fonte primaria che avevano costituito il presupposto per l’adozione dei provvedimenti impugnati. Veniva anche avanzata dalla ricorrente domanda risarcitoria. La ricorrente proponeva infine istanza cautelare di sospensione dell’efficacia dei provvedimenti impugnati.
Si costituiva in giudizio l’Università degli Studi di Potenza eccependo in via preliminare l’irricevibilità della domanda di annullamento dell’atto di ingiunzione in quanto “(…) l’atto Pro Rettore Università degli Studi di Potenza prot. n. 12865 del 16.9.2010, di ingiunzione alla ricorrente del pagamento entro 30 giorni della somma di 30.212,66 €, aveva natura provvedimentale e perciò doveva essere impugnato entro il termine decadenziale di 60 giorni, decorrente “perlomeno dal 19.10.2009”, cioè dalla data in cui l’attuale difensore della ricorrente aveva diffidato l’Università degli Studi di Potenza dall’eseguire il predetto atto (…)” (così, testualmente nelle difese dell’Università dedotte in primo grado e riprodotte nella sentenza qui oggetto di appello) e l’inammissibilità della domanda di annullamento dell’atto del direttore amministrativo prot. n. 10127 dell’1 luglio 2010 che doveva essere qualificato alla stregua di una atto meramente confermativo del precedente provvedimento di ingiunzione. Mel merito l’amministrazione contestava la fondatezza delle avverse deduzioni chiedendo la reiezione del ricorso.
4. – Il Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata accoglieva in parte la domanda cautelare, limitatamente all’efficacia del provvedimento di ingiunzione inerente al recupero della somma di € 15.493,71 (sull’importo complessivo di € 30.212,66) ricevuta dalla dipendente per lo svolgimento dell’incarico di studio per la redazione della Carta della vegetazione per l’Osservatorio Ambientale della Val d’Agri, conferito da ENI S.p.A. il 23 gennaio 1998 e liquidato il 31 marzo 1998.
In sede di merito, dopo aver confermato la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, per effetto degli artt. 3, comma 2, e 63, comma 4, d.lgs. 165/2001, a conoscere la controversia in questione avente ad oggetto la legittimità o meno dei provvedimenti finalizzati “al recupero dei compensi, ricevuti dalla ricorrente, docente universitario a tempo pieno dell’Università degli Studi di Potenza, per l’espletamento di incarichi professionali, non autorizzati dall’Università degli Studi di Potenza, ed anche con riferimento alla connessa domanda risarcitoria” (così nella sentenza qui fatta oggetto di appello), ha preliminarmente affermato che “la sanzione, oggetto della controversia in esame, non può essere qualificata come una sanzione disciplinare (sul punto cfr. da ultimo Cass. Sez. Lav. Sent. n. 7343 del 26.3.2010, la quale evidenzia anche che l’obbligo di tale versamento è imposto in primis all’erogante, cioè a un soggetto estraneo al rapporto lavorativo e, solo in difetto, al lavoratore che lo ha percepito), per cui gli atti impugnati non possono essere qualificati come provvedimenti amministrativi, ma vanno configurati come atti di natura privatistica e/ o paritetica, che la Pubblica Amministrazione emana in materia di pubblico impiego nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro (…)” (così, ancora, testualmente, alle pagg. 17 e 18 della sentenza qui oggetto di appello). Da ciò i giudici di prime cure fanno discendere la posizione di diritto soggettivo opposta dalla ricorrente nei confronti dell’operazione di recupero delle somme sviluppata dall’amministrazione datoriale e l’applicazione del termine prescrizionale di cui all’art. 2946 c.c. all’azione di tutela proponibile da parte della destinataria degli atti di recupero, piuttosto che il termine di impugnazione decadenziale di 60 giorni di cui all’art. 29 c.p.a..
Le eccezioni preliminari sollevate dall’Università nei confronti della rituale proposizione della domanda giudiziale avanzata dalla ricorrente si rilevavano quindi infondate.
5. – Fermo quanto sopra il Tribunale accoglieva la domanda della ricorrente limitatamente all’importo di € 15.493,71 (corrispondenti alla somma di £ 30.000.000, ricevuta dalla professoressa all’epoca dei fatti), percepito dalla stessa per l’incarico di studio relativo alla Carta della vegetazione per l’Osservatorio Ambientale della Val d’Agri, conferito dall’ENI S.p.A. il 23 gennaio 1998 e liquidato il 31 marzo 1998, in quanto la pretesa dell’Università si era prescritta alla data dell’adozione dell’atto di ingiunzione, dal momento che la sanzione pecuniaria, prevista prima dall’art. 58, comma 7, d.lgs. 29/1993 (come sostituito dall’art. 26 d.lgs. 80/1998) ed ora dall’art. 53, comma 7, d.lgs. 165/2001 e consistente nell’acquisizione al bilancio dell’Amministrazione di appartenenza del compenso corrisposto al pubblico impiegato, per gli incarichi retribuiti da enti pubblici e soggetti privati senza la previa autorizzazione dell’amministrazione datrice di lavoro, non ha la natura giuridica di una sanzione amministrativa pecuniaria, di cui alla l. 24 novembre 1981, n. 689, ma si compendia in una sanzione civilistica di natura patrimoniale, alla quale il datore di lavoro pubblico può affiancare ed aggiungere anche una sanzione di tipo disciplinare.
In altri termini, sostengono i giudici di primo grado, la pretesa azionata dall’Università nella specie “(…) va messa in relazione all’inadempimento di un preciso obbligo contrattuale, attinente al rapporto di pubblico impiego, cioè la violazione del regime delle incompatibilità (cd. dovere di esclusività), che impedisce al pubblico impiegato,·non assunto con contratto di lavoro a tempo parziale “con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno”, di poter svolgere altre e/o diverse attività di lavoro subordinato o autonomo senza la previa autorizzazione dell’Amministrazione datrice di lavoro, per cui la conseguente azione di recupero dell’Amministrazione di appartenenza del pubblico impiegato, imposta dal citato art. 53, comma 7, D.Lg.vo n. 165/2001, va assimilata ad una qualsiasi azione civilistica, volta ad ottenere un credito previsto ex lege (…)” (così, testualmente, alle pagg. 19 e 20 della sentenza qui oggetto di appello)
Da tali deduzioni discende, ad avviso dei giudici di prime cure, che nella specie è dimostrata l’intervenuta prescrizione decennale dell’azione di recupero da parte dell’Università nei confronti della docente dipendente delle somme a costei corrisposte da ENI S.p.a. in data 31 marzo 2008, atteso che il primo atto idoneo ad interromperla ai sensi dell’art. 2943 c.c. va rinvenuto nella comunicazione di avvio del procedimento di recupero che il Rettore dell’Università degli Studi di Potenza, con atto prot. n. 6810 del 7 aprile 2008, ha trasmesso alla professoressa Fascetti.
Ad ogni modo, il recupero sarebbe stato inibito dalla circostanza che, all’epoca del pagamento della somma in favore della docente da parte di ENI S.p.a., non era ancora entrata in vigore la disposizione con la quale si è prevista l’acquisizione al bilancio di appartenenza dell’amministrazione datoriale della somma percepita da un dipendente della stessa per lo svolgimento di incarichi extraistituzionali non previamente autorizzati dal medesimo ente datoriale, posto che tale previsione è stata introdotta (per la prima volta nel nostro ordinamento) dall’art. 26 d.lgs. 80/1998 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’ 8 aprile 1998 ed entrato in vigore con lo spirare del quindicesimo giorno da tale data, di talché il recupero non poteva essere disposto per gli incarichi retribuiti già espletati e già pagati alla data del 23 aprile 1998.
Analoga conclusione è da escludersi per gli altri dieci incarichi contestati alla docente, visto che per essi l’atto di comunicazione di avvio della procedura di recupero è stato idoneo ad interrompere il termine prescrizionale decennale e dovendosi ritenere pienamente fondata, sotto il profilo normativo, oltre che corretta, sotto il profilo procedimentale ed attizio, la pretesa dell’ente datoriale tradotta negli atti impugnati.
Il Tribunale amministrativo quindi, dopo avere anche rilevato la infondatezza delle proposte questioni di costituzionalità nonché la denegabilità della fondatezza della domanda risarcitoria pure proposta, accoglieva in parte la domanda di annullamento, limitatamente all’obbligo di restituzione della somma di € 15.493,71 (corrispondenti alla somma di £ 30.000.000, ricevuta dalla professoressa all’epoca dei fatti).
6. – Nei confronti della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata ha interposto appello l’Avvocatura generale dello Stato, per conto dell’Università degli Studi di Potenza, ribadendo la (già sostenuta in primo grado) configurazione giuridica della pretesa di recupero delle somme avanzata dall’Università nei confronti della docente dipendente in termini di procedura sanzionatoria definita attraverso provvedimenti amministrativi e quindi l’inapplicabilità, alla questione controversa, della impostazione fatta propria dai giudici di primo grado.
In ragione di quanto sopra l’Università ripropone, nella sede di appello, le respinte eccezioni di irricevibilità nei confronti del provvedimento di ingiunzione della sanzione e di inammissibilità nei confronti dell’atto meramente confermativo e semplicemente ricognitorio con il quale il direttore amministrativo ha risposto alle richieste di chiarimento provenienti dal difensore della professoressa dopo la comunicazione del provvedimento di ingiunzione.
Nel merito l’Università ribadisce in sede di appello la natura autoritativa e provvedimentale degli atti adottati dai suoi uffici e la macroscopica erroneità dell’interpretazione fatta propria dal Tribunale, posto che essa si è fondandata peraltro anche su precedenti giurisprudenziali inconferenti in quanto inerenti a rapporti di lavoro privato e quindi non attagliabili al rapporto di lavoro pubblico tra un docente universitario e il corrispondente ateneo, tenuto anche conto che “E’ evidente che un provvedimento ex art. 53 D.Lgs. n. 165/2001 non può essere semplicisticamente inquadrato nell’ambito di una logica “esclusivamente patrimoniale” in quanto sfugge ad un inquadramento di sinallagmaticità. E’ vero invece il contrario e, comunque lo si inquadri, l’obbligo di versamento della somma imposto da tale norma non può che essere, nell’ambito di un rapporto pubblicistico, qualificato come atto autoritativo non paritetico” (così, testualmente, a pag. 6 dell’atto di appello).
Da qui la richiesta di riforma della sentenza appellata e la reiezione del ricorso proposto in primo grado.
7. – Si è costituita nel giudizio di appello la professoressa [#OMISSIS#] Fascetti chiedendo che il gravame fosse respinto.
L’appellata non proponeva ricorso incidentale sicché la sentenza qui fatta oggetto di appello, per le statuizioni in essa contenute con riferimento alla domanda di primo grado siccome proposta originariamente dalla odierna appellata e di parziale denegazione della stessa, ha acquisito forza di cosa giudicata nei suoi confronti e quindi, non essendo per tale parte stato esteso (ovviamente) l’appello dell’amministrazione, per detta parte non vi deve più essere statuizione a cura di questo Consiglio.
8. – L’art. 53, comma 7, d.lgs. 165/2001, come è noto, stabilisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. In mancanza dell’atto di conferimento ovvero di autorizzazione e di svolgimento dell’attività, “(…) il compenso dovuto (…) deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Va subito chiarito che la disposizione appena riprodotta ha superato il vaglio della Corte costituzionale che, con ordinanza 17 marzo 2015 n. 41, pur dichiarando la inammissibilità della questione di costituzionalità a causa dell’inadeguatezza delle modalità di proposizione da parte dei giudici remittenti, ha comunque avuto modo di affermare che:
– la norma denunciata mira a rafforzare la garanzia che il lavoro dei pubblici dipendenti a favore di terzi non si riverberi negativamente sul servizio d’istituto e che, quanto alla libertà di iniziativa economica, la stessa prevedrebbe limiti in ragione dell’interesse generale a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione;
– il richiamo ad un eventuale contrasto con i principi di cui all’art. 36 Cost. si rivela “palesemente improprio”, dal momento che la norma censurata non incidere in alcun modo sul diritto del pubblico dipendente alla propria retribuzione.
La norma in esame, applicabile sia ai dipendenti con rapporto di impiego pubblico contrattualizzato sia ai dipendenti con impiego pubblico tradizionale, in relazione ai professori ordinari con rapporto a “tempo pieno” rinvia agli statuti e ai regolamenti degli atenei circa la determinazione dei criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione, per come è avvenuto nella specie con riferimento all’Università degli Studi di Potenza con i decreti rettorali 1 luglio 1998 n. 708 e 26 marzo 2004 n. 150.
Orbene, fermo quanto sopra, il punctum pruriens della vicenda contenziosa sottoposta all’esame di questo giudice di ultima istanza è costituita dalla individuazione della natura giuridica dell’atto con il quale una università, in presenza dell’acclarato svolgimento da parte di un docente con rapporto di impiego “a tempo pieno” di una attività extraistituzionale non conferita dall’ateneo e posta in essere, con acquisizione del relativo compenso, senza il previo ottenimento della prescritta autorizzazione da parte dell’ente datoriale, procede al recupero delle somme corrisposte per gli incarichi eseguiti (nella specie 11) per permettere che il corrispondente importo sia “versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”, per come prescrive il citato art. 53, comma 7, d.lgs. 165/2001.
9. – In materia di recupero delle somme trattenute da un dipendente pubblico (nel caso che qui ci occupa, con rapporto di lavoro “non contrattualizzato”) la relativa azione “(…) è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946, c.c., e non a quella quinquennale prevista dall’art. 2948, c.c., non potendosi far rientrare tale fattispecie fra le ipotesi espressamente contemplate in quest’ultima norma” (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 26 giugno 2013 n. 3505).
Tale puntualizzazione riguarda però il “tempo” entro il quale l’amministrazione datoriale può pretendere il recupero delle somme (indebitamente) corrisposte al dipendente per lo svolgimento di un incarico extraistituzionale non conferitogli dall’ente né (previamente) autorizzato dal medesimo; essa non attiene alla natura dell’atto di recupero ed al regime giuridico ad esso applicabile.
Su tale aspetto costituisce elemento centrale di scrutinio il rapporto di lavoro inerente al dipendente che ha svolto l’incarico extraistituzionale in violazione dell’art. 53 d.lgs. 165/2001, in quanto come è noto:
– gli atti che intercorrono tra pubblica amministrazione datoriale e dipendente con contratto di lavoro contrattualizzato e che ineriscono alla gestione di tale rapporto hanno natura giuridica di atti di diritto civile, propri del rapporto di lavoro civilistico (art. 5, comma 2, d.lgs. 165/2001), tant’è che per [#OMISSIS#] interpretazione giurisprudenziale spetta alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione delle controversie quando il giudizio investe atti di gestione del rapporto di lavoro contrattualizzato, anche dirigenziale (cfr., tra le molte, Cass., sez. un., 1 dicembre 2009 n. 25254);
– all’opposto gli atti che si sviluppano tra amministrazione pubblica datoriale e dipendente con rapporto di lavoro pubblicistico e ne caratterizzano la gestione hanno forma e natura di atti autoritativi e quindi di provvedimenti amministrativi in senso tecnico;
– in tale ultimo contesto occorre nondimeno distinguere, secondo il solco interpretativo tradizionale afferente al rapporto di lavoro pubblico non trasformato in “contrattualizzato” dall’intervento del legislatore delegato nel 1998, tra atti posti in essere dall’amministrazione datoriale effettivamente caratterizzati dall’esercizio del potere autoritativo ed atti “paritetici” che tale caratterizzazione autoritativa non presentano, atteso che con riferimento ai primi la posizione soggettiva del dipendente pubblico va ricondotta alla categoria dell’interesse legittimo, mentre nel secondo caso essa si manifesta come diritto soggettivo (fermo restando, ovviamente, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a conoscere entrambe le tipologie di controversie per effetto della previsione di cui all’art. 63, comma 4, d.lgs. 165/2001);
– giova al proposito ricordare come la nozione di atti paritetici (a far data dalla “storica” decisione Cons. Stato, Sez. V, 1° dicembre 1939 n. 795) venga in considerazione allorché l’amministrazione, tenuta per legge a far fronte ad un obbligo in ragione di un rapporto di diritto pubblico avente natura patrimoniale, si veda attribuito – da una legge o altra fonte normativa – il potere di definire unilateralmente detto rapporto e, quindi, di determinare essa stessa l’entità dei propri obblighi e dei correlativi diritti (tipico è il caso della determinazione di stipendi, assegni, emolumenti, etc.), in base ad una mera attività accertativa. Tali atti non possono essere ricompresi, a rigore, tra i provvedimenti amministrativi, poiché in tale ambito l’amministrazione non esercita un potere di supremazia nei confronti del privato, bensì utilizza strumenti del diritto civile che la pongono sullo stesso piano della controparte.
10. – Chiarito quanto sopra va nello stesso tempo incisivamente affermato che il rapporto paritetico tra amministrazione pubblica datoriale ed impiegato pubblico (con rapporto “non contrattualizzato”) si caratterizza per l’assenza di esercizio di potere autoritativo da parte dell’amministrazione, rispetto alla quale la norma di riferimento non ha attribuito affatto la supremazia propria dell’autoritatività dell’agire, neppure attraverso un esercizio di potere vincolato limitato alla mera verifica della sussistenza dei presupposti per la realizzazione di quanto è previsto dalla fonte normativa del proprio agire.
Al contrario, quando la fonte normativa primaria, nell’attribuire all’amministrazione datoriale un potere autoritativo nell’ambito della gestione del lavoro pubblico, indipendentemente dall’ampiezza dell’esercizio discrezionale (o, all’opposto, vincolato) di detto potere, le attribuisce anche (e soprattutto) un compito di preventiva indagine sull’an dell’adozione degli atti nei quali si estrinseca l’esercizio del potere, il compito dell’ente datoriale non può dirsi ridotto ad una mera applicazione doverosa di quanto è previsto dalla norma, ma si traduce in una vero e proprio onere di indagine valutativa preventiva, quanto meno sull’esistenza dei presupposti per l’adozione dei provvedimenti conseguenti, sicché la posizione soggettiva dell’impiegato va qualificata quale interesse legittimo e l’atto dell’amministrazione datoriale va considerato quale provvedimento amministrativo.
Nel caso di specie l’Università ha dovuto verificare, nel corso del procedimento nel quale ha doverosamente coinvolto la docente, se sussistessero o meno tutti i presupposti previsti dall’art. 53, comma 7, d.lgs. 165/2001 (attraverso l’indagine circa l’effettivo svolgimento di incarichi extraistituzionali, la riconducibilità degli stessi nel novero di quelli il cui svolgimento è condizionato dal conferimento dell’ente o dal previo rilascio dell’autorizzazione, l’assenza di autorizzazione da parte dell’ente, la onerosità degli stessi, l’intervenuto pagamento del corrispettivo) e solo all’esito di tale verifica la medesima Università ha disposto il recupero delle somme corrisposte alla dipendente in ragione dello svolgimento degli 11 incarichi.
Tale atto di recupero dunque, pur avente ad oggetto una ingiunzione di pagamento, costituisce un tipico atto amministrativo di natura autoritativa proprio della gestione del rapporto di pubblico impiego “non contrattualizzato”, diversamente da quanto ha affermato il giudice di primo grado.
L’inadempimento “di un preciso obbligo contrattuale (…)”, al quale fa riferimento a pag. 19 la sentenza qui fatta oggetto di appello, nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro di impiego pubblico “non contrattualizzato”, può avvenire soltanto attraverso strumenti pubblicistici, all’esito di un apposito procedimento disciplinare al quale deve farsi partecipare il soggetto interessato, che si concluderà con un provvedimento amministrativo nel quale si coagula la valutazione dell’ente circa la sussistenza dei presupposti per procedere al recupero delle somme. Ne deriva che le conclusioni alle quali giunge il Collegio sono opposte rispetto alla interpretazione fatta propria dai primi giudici.
11. – La prima conseguenza di quanto sopra è costituita dall’accoglimento dell’eccezione di irricevibilità del ricorso di primo grado sollevata dall’Università appellante in via preliminare, essendo la stessa fondata, come lo era già al momento della sua prima proposizione in primo grado.
L’atto di ingiunzione del pro-Rettore 16 settembre 2009 prot. n. 12865, con il quale a conclusione del relativo procedimento l’Università ingiungeva alla professoressa Fascetti il pagamento entro 30 giorni della somma di € 30.212,66, trattandosi di provvedimento amministrativo, doveva essere impugnato entro il termine di sessanta giorni decorrenti dalla piena conoscenza dello stesso da parte della docente che, in assenza di altri elementi, può farsi coincidere con la data del 19 ottobre 2009, apposta all’atto di diffida, a non procedere alle trattenute dallo stipendio, trasmesso dal difensore della professoressa Falcetti al pro-Rettore dell’Università. Non è oggetto di contestazione tra le parti (ed è anche riferito in questi termini a pag. 13 della sentenza qui oggetto di appello) che il ricorso di primo grado sia stato introdotto con atto notificato il 24 settembre 2010, quindi a circa un anno di distanza rispetto alla piena conoscenza del provvedimento con il quale si è dato atto della sussistenza dei presupposti per ingiungere il recupero delle somme incamerate dalla docente per lo svolgimento delle attività extraistituzionale con riferimento alle quali non era stata chiesta ed ottenuta, previamente, la prescritta autorizzazione da parte dell’amministrazione datoriale.
Ne deriva la fondatezza dell’eccezione di tardività della proposizione del ricorso di primo grado per come sollevata nuovamente nella sede di appello.
12. – Si presenta parimenti fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposto in primo grado con riferimento alla impugnazione dell’atto del direttore amministrativo 1 luglio 2010 n. 10127, il cui contenuto, rispetto al provvedimento di ingiunzione n. 12865 del 16 settembre 2009, si compendia in un mero riferimento confermativo, con evidenza dell’assenza di qualsivoglia nuovo approfondimento istruttorio e quindi non recante alcuna nuova manifestazione di volontà da parte dell’ente datoriale, circa la sussistenza dei presupposti per il recupero della somma percepita dalla docente per gli incarichi svolti.
Come è chiarito da granitica giurisprudenza, allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l’atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi; in particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l’atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco, e un nuovo esame de