Consiglio di Stato, Sez. VI, 19 febbraio 2016, n. 663

Demansionamento-Esclusione attività assistenziale e di sala operatoria-Quantificazione danno

Data Documento: 2016-02-19
Area: Giurisprudenza
Massima

Il demansionamento professionale in senso proprio postula tendenzialmente l’attribuzione al lavoratore di mansioni ingiustificatamente deteriori rispetto a quelle proprie dell’originario inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla categoria superiore che sia stata successivamente acquisita ovvero alle mansioni a ultimo effettivamente svolte. Si distingue, pertanto, dall’attribuzione di incarichi didattici comunque di rilievo (pur se non graditi e contestati anche in sede giudiziaria), inidonea a integrare un’ipotesi di demansionamento.

La Corte di cassazione ha sovente ritenuto ammissibile, ai fini della quantificazione del danno da demansionamento, il ricorso al criterio della parametrazione percentuale alla retribuzione percepita. Tuttavia, non è fondata la tesi secondo cui il ricorso al richiamato criterio risulterebbe di fatto vincolante per il giudice in sede di determinazione equitativa del danno da demansionamento. Al contrario, il ricorso a tale criterio di parametrazione percentuale risulta tanto meno persuasivo nelle ipotesi in cui vari elementi inducono in modo univoco a ritenere non sussistenti numerose delle invocate voci di danno, che sarebbero riferibili al concreto esercizio dell’attività lavorativa e al contenuto professionale ed economico delle mansioni svolte.

Contenuto sentenza

N. 00663/2016REG.PROV.COLL.
N. 07658/2009 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7658 del 2009, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Arcangelo D'[#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] D'[#OMISSIS#], con domicilio eletto presso [#OMISSIS#] D'[#OMISSIS#] in Roma, Via Calcutta, 45
contro
Seconda Università degli Studi di Napoli;
Azienda Universitaria Policlinico della Seconda Università degli Studi di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Via Oriolo Romano, 59
per la riforma della sentenza del T.A.R. della Campania, Sezione II, n. 4602/2009
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Azienda Universitaria Policlinico della II Università degli Studi di Napoli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 22 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, comma 8;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 1 dicembre 2015 il Cons. [#OMISSIS#] Contessa e uditi per le parti l’avvocato Arcangelo D'[#OMISSIS#] e l’avvocato [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] per delega dell’avvocato [#OMISSIS#];
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue
FATTO
Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale amministrativo della Campania e recante il n. 3314 del 2006, il professor -OMISSIS-, odierno appellante, premesso di essere professore associato di Chirurgia Generale presso la Clinica Chirurgica Generale e di Terapia Chirurgica della Seconda Facoltà di Medicina e Chirurgia della Seconda Università degli Studi di Napoli sin dal 1983, chiedeva l’accertamento della responsabilità solidale della SecondaUniversità degli studi di Napoli (d’ora in poi anche ‘S.U.N.’) e dell’Azienda Ospedaliera della predetta Università (d’ora in poi anche ‘A.O.U.’) per i danni derivanti dall’attività amministrativa illegittima posta in essere dai citati enti, consistente nell’asserita esclusione del medesimo istante “da ogni attività assistenziale e, poi, dall’attività di sala operatoria e di reparto nonché dall’attività didattica e di ricerca”.
Il ricorrente chiedeva, inoltre, la condanna in solido dei precitati enti al risarcimento in suo favore della somma di euro 51.916.317,72, di cui:
– 35 milioni di euro per danno da perdita di chances;
– 15 milioni di euro per danno all’immagine;
– un milione di euro per danno biologico;
– 500.000 euro per danno esistenziale;
– 250.000 euro per danno morale soggettivo;
– 50.000 euro per danno da ritardo e
– 416.317,72 per danni patrimoniali,
il tutto oltre rivalutazione ed interessi.
Con la sentenza n. 4602 del 2009 il Tribunale amministrativo regionale della la Campania ha accolto il predetto ricorso, condannando l’Azienda Ospedaliera della Seconda Università degli studi di Napoli al risarcimento del danno da demansionamento e di quello non patrimoniale, in favore del professor-OMISSIS-, nella misura complessiva di euro venticinquemila, oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
Avverso la citata sentenza il professor-OMISSIS- ha proposto appello (ricorso n. 7658 del 2009), articolando due motivi di doglianza.
Con un primo motivo (‘Error in iudicando; illogicità e contraddittorietà della motivazione; travisamento dei presupposti di fatto e di diritto’) l’appellante lamenta che erroneamente il primo giudice abbia escluso la responsabilità della Seconda Università di Napoli in ordine alla determinazione del danno per cui è causa.
Al contrario, l‘Università sarebbe certamente responsabile per il danno cagionato all’appellante in ragione della sua prolungata esclusione sia dall’attività didattica che da quella di ricerca (attività, queste, che sono certamente riferibili alla sfera di imputazione dell’Università).
La condotta lesiva si sarebbe inoltre protratta fino al 1° luglio 2011, data a decorrere dalla quale il professor-OMISSIS- è cessato dal servizio.
Con un secondo motivo (‘Error in iudicando; violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ.; degli artt. 2043 e 2059 cod. civ.; carenza di motivazione; travisamento dei presupposti di fatto e di diritto’) l’appellante lamenta in primo luogo che in modo erroneo il primo giudice abbia ritenuto che l’inizio dell’attività foriera di danno fosse da collocare nell’anno 1996. Al contrario dalla documentazione in atti emergerebbe che le condotte foriere del danno ingiusto patito dall’odierno appellante fossero iniziate almeno dal 1994.
Inoltre, la sentenza in epigrafe dovrebbe essere riformata per avere il primo giudice erroneamente liquidato il danno patrimoniale e non patrimoniale patito dall’appellante nella “irrisoria” misura di venticinquemila euro. Tale quantificazione risulterebbe tanto più ingiustificata in considerazione del fatto che il Tribunale amministrativo ha riconosciuto la sussistenza di tutte le voci di danno allegate, giungendo tuttavia a una quantificazione finale del tutto incongrua in relazione alla gravità del danno patito, nonché alle altre circostanze rilevanti del caso.
Ed ancora, nel caso in esame il Collegio decidente avrebbe perpetrato in danno dell’appellante un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a quanto in tempi recenti statuito dal medesimo Tribunale amministrativo a fronte di una vicenda per alcuni casi simile (danno da demansionamento di un ricercatore universitario confermato), all’esito della quale è stato tuttavia liquidato un ristoro patrimoniale di importo ben maggiore (viene richiamata, in particolare, la sentenza di quel Tribunale amministrativo n. 6397/2007).
In particolare, per quanto riguarda il danno da demansionamento, il primo giudice avrebbe dovuto riconoscere all’appellante un ristoro pari ad almeno il cinquanta per cento delle retribuzioni percepite nel corso dell’intera vicenda in tal modo giungendo a un quantum risarcitorio non inferiore ad euro 480.015,62.
Per quanto riguarda, poi, il danno biologico, il primo giudice avrebbe erroneamente omesso di apprezzare, ai fini della liquidazione, la “sindrome ansioso-depressiva reattiva allo stress lavorativo” maturata dall’appellante a causa del comportamento ingiusto delle amministrazioni appellate.
In generale, laddove il Tribunale amministrativo avesse adeguatamente valutato tutte le circostanze rilevanti del caso, avrebbe dovuto liquidare in favore dell’appellante un danno complessivo non inferiore ad euro 51.916.317,72.
Si è costituita in giudizio l’Azienda Ospedaliera Universitaria della Seconda Università degli studi di Napoli (A.O.U.), la quale ha chiesto il rigetto dell’appello principale e ha altresì proposto appello incidentale avverso la citata sentenza, lamentandone l’erroneità sotto diversi profili.
Con ulteriori memorie l’Azienda appellata ha precisato le censure rivolte alla sentenza in epigrafe.
Con sentenza non definitiva 17 gennaio 2014, n. 223 questo Consiglio di Stato:
– ha respinto la prima censura di cui al secondo motivo dell’appello principale;
– ha respinto i motivi primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto, ottavo e nono di cui all’appello incidentale;
– ha riservato alla decisione finale la questione se la responsabilità risarcitoria azionata dall’appellante debba essere dichiarata nei confronti della sola A.O.U. ovvero anche nei confronti della S.U.N.;
– ha sancito la prescrizione di tutti i pretesi diritti risarcitori anteriori al magio del 1996;
– ha disposto la nomina di un CTU al fine di acquisire elementi di valutazione in ordine all’an e al quantum del danno biologico asseritamente patito dall’appellante in conseguenza delle condotte contestate alle amministrazioni appellate.
Il Collegio ha inoltre disposto che la Seconda Università degli studi di Napoli versasse in atti una articolata e documentata relazione che desse puntualmente conto dell’attività di didattica e di ricerca svolta alle sue dipendenze dall’appellante a decorrere dal 5 maggio 1996 in relazione alla qualifica professionale dal medesimo rivestita (la predetta relazione avrebbe dovuto altresì indicare “le modalità ed i termini con i quali – nel periodo in cui si sono svolti i fatti di cui è causa e segnatamente fino al 20 luglio 2004, data in cui l’AOU ha acquisito personalità giuridica – l’Università rispondeva dei rapporti, attivi e passivi, instaurati dalla medesima Azienda Ospedaliera”).
Il Collegio ha poi disposto che l’A.O.U. versasse in atti un’articolata relazione la quale desse puntualmente conto: “a) di tutte le competenze percepite dal prof.-OMISSIS- a decorrere dal 5 maggio 1996 e fino alla data del suo collocamento in quiescenza, avvenuta il 1° luglio 2011, specificando le singole voci retributive; b) delle competenze accessorie spettanti ai soggetti aventi la medesima qualifica ed il medesimo profilo professionale dell’appellante; c) dell’importo medio delle competenze di cui alla lettera b) annualmente percepite da soggetti aventi la medesima qualifica ed il medesimo profilo professionale dell’appellante in relazione al periodo di tempo considerato”.
A seguito della richiamata sentenza parziale, sia l’A.O.U. sia la S.U.N. hanno ottemperato (almeno in parte, secondo quanto di seguito si preciserà) alle richieste formulate dal Collegio.
Nel giugno del 2014 il professor Girardi (nominato CTU) ha versato in atti il suo primo elaborato peritale e ha concluso nel senso “[della] presenza di un ‘Disturbo dell’adattamento con ansia, di grado grave, cronico’ (secondo i criteri del DSM-IV-TR) che si sviluppa nel contesto di una personalità che non presenta elementi di rilievo clinico”.
Con successiva ordinanza n. 229/2015 il Collegio ha disposto in primo luogo che il C.T.U. versasse in atti una relazione integrativa volta a chiarire se il disturbo da cui era risultato affetto l’appellante fosse collegabile, sul piano eziologico, alla condotta asseritamente lesiva lamentata dall’appellante.
In secondo luogo il Collegio (rilevato il carattere non esaustivo della relazione versata in atti dall’A.O.U.) ha disposto che l’Azienda versasse in atti una relazione integrativa la quale desse conto: i) delle competenze accessorie spettanti ai soggetti aventi la medesima qualifica e il medesimo profilo professionale dell’appellante; ii) dell’importo medio di tali competenze per come annualmente percepite da soggetti aventi la medesima qualifica ed il medesimo profilo professionale dell’appellante in relazione al periodo di tempo considerato.
Il Consulente tecnico d’ufficio ha ottemperato a quanto richiesto facendo pervenire una relazione integrativa in data 18 marzo 2015.
Con successiva ordinanza n. 3654/2015 il Collegio ha rilevato la persistente inottemperanza dell’A.O.U. alle richieste istruttorie già rappresentate con la sentenza parziale n. 223/2014 e con l’ordinanza collegiale n. 229/2015 e ha reiterato quindi l’ordine di far pervenire le richieste informazioni e documentazione.
L’Azienda ha fatto quindi pervenire in atti ulteriore documentazione.
L’appellante, l’A.O.U. e la S.U.N. hanno prodotto ulteriori memorie.
Alla pubblica udienza del 1° dicembre 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dal prof. -OMISSIS-, professore associato di Chirurgia Generale presso la Clinica Chirurgica Generale e di Terapia Chirurgica della Seconda Facoltà di Medicina e Chirurgia della Seconda Università degli Studi di Napoli avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Campania con cui è stato accolto (ma solo in parte) il ricorso da lui proposto al fine di ottenere il ristoro di un danno da demansionamento professionale protrattosi dall’anno 1996 sino alla data del pensionamento (avvenuto nel 2011).
2.1. Come si è esposto in narrativa, con la sentenza non definitiva n. 223/2014 questo Consiglio di Stato ha respinto (così come emerge dal dispositivo) il primo, il secondo il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, l’ottavo e il nono motivo di ricorso proposti con l’appello incidentale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria della Seconda Università degli Studi di Napoli
2.2. A parziale precisazione di quanto riportato nel dispositivo della sentenza da ultimo richiamata, il Collegio osserva che, in realtà, è stato in tale occasione dalla Sezione anche esaminato (e dichiarato infondato) il settimo motivo di appello, con ragionamento che, per quanto occorra, qui appieno si richiama (si vedano le pagine da 13 a 18 della motivazione)
Deve altresì essere precisato che, con la sentenza parziale non definitiva n. 223/2014 è stato esaminato (e dichiarato infondato) il decimo motivo del ricorso incidentale (si tratta di un motivo articolato alle pagine da 39 a 48 dell’appello incidentale).
Le ragioni poste in parte qua a fondamento della sentenza sono indicate alle pagine da 21 a 23 della sentenza non definitiva (punto 13 della motivazione in diritto) e vengono testualmente riferite al “decimo motivo” dell’appello incidentale (anche se il dispositivo vi fa riferimento richiamando il “nono motivo”).
Tale apparente discrasia è in realtà motivata dal fatto che, nel rubricare i motivi dell’appello incidentale, l’A.O.U. ha erroneamente utilizzato per due volte il n. 8 (si vedano le pagine 34 e 38), ragione per cui, nell’esaminare il secondo di tali motivi, il Collegio della sentenza di appello n. 223/2014 ha correttamente fatto riferimento al “nono motivo”, mentre il successivo motivo dell’appello incidentale (articolato alle pagine da 39 a 48 e rubricato in modo parimenti erroneo come motivo n. 9 dell’A.O.U.) è stato esaminato dal Collegio della sentenza n. 223/2014 come “decimo motivo” e respinto in quanto infondato.
2.3. L’appello incidentale è quindi integralmente respinto.
3. Con la sentenza non definitiva n. 223/2014 è stata altresì respinta la prima censura di cui al secondo motivo dell’appello principale, relativa all’esatta individuazione del periodo del lamentato demansionamento.
3.1. Al riguardo, al punto 16.1.1. della sentenza da ultimo richiamata è stabilito che “prescindendo dall’individuazione della data da cui ha avuto effettivamente inizio il comportamento lesivo dell’A.O.U., all’appellante potranno riconoscersi esclusivamente i danni relativi al periodo successivo al 5 maggio 1996”.
3.2. Nel prosieguo della presente decisione saranno esaminati gli ulteriori argomenti trasfusi nel secondo dei motivi di appello, relativi alla quantificazione del danno disposta dal primo giudice.
4. Invece deve qui essere esaminato il primo motivo di appello con il quale si chiede la riforma della sentenza per la parte in cui dichiara il difetto di legittimazione passiva della Seconda Università di Napoli nella determinazione del danno all’origine del presente ricorso.
4.1. Al riguardo il Collegio osserva che, pur non potendosi condividere l’argomento del primo giudice (secondo cui l’autore dell’illecito foriero di danno sarebbe da individuare in via di principio nella sola A.O.U., non potendosi neppure in astratto configurare una condotta foriera di danno a carico della S.U.N. per quanto concerne le condotte incidenti sull’attività didattica e di ricerca), nondimeno l’esame in concreto della documentazione in atti porta a ritenere non provato che il complessivo contegno tenuto dagli organi dell’Ateneo napoletano abbia cagionato un effettivo pregiudizio in danno dell’odierno appellante.
Pertanto, il primo motivo di appello è da respingere, sia pure in base ad argomenti diversi da quelli posti dal primo giudice a fondamento della decisione impugnata.
4.2. Si osserva al riguardo:
– che la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Campania n. 16419/04 (si tratta della prima decisione favorevole all’odierno appellante nell’ambito della lunga serie di iniziative giudiziali che l’hanno visto contrapporsi all’A.O.U. e alla S.U.N.) non ha statuito in modo espresso in ordine ai motivi di ricorso con cui si era lamentata la sostanziale esclusione dell’appellante dall’attività didattica e di ricerca. Al contrario, la sentenza ha statuito in ordine a una nota del 26 novembre 1996 che aveva ad oggetto lo svolgimento della sola attività assistenziale ed ambulatoriale (riconducibile in primis alla sfera di attività dell’A.O.U.);
– che neppure la successiva sentenza di primo grado n 10544/06 ha affermato l’esclusione dell’appellante dall’attività didattica e di ricerca (la sentenza in questione ha, invece, disposto la nomina di un Commissario ad acta al fine di verificare l’eventuale inesecuzione delle statuizioni di cui alla precedente sentenza n. 16419/2014);
– che, una volta insediato, il Commissario ad acta non aveva ravvisato la radicale esclusione dell’appellante dalle attività didattiche, pur rilevando che lo stesso non fosse stato adibito ad attività di docenza direttamente afferenti la branca chirurgica;
– che solo con la sentenza di primo grado n. 17324/08 è stato ordinato alla S.U.N. di affidare all’odierno appellante l’insegnamento di materie strettamente connesse al settore scientifico-disciplinare di afferenza;
– che, secondo quanto attestato dalla S.U.N. con nota in data 21 marzo 2014, all’appellante è stato effettivamente assegnato (dall’anno accademico 2007/2008 e sino all’anno accademico 2010/2011 – data del pensionamento -) l’insegnamento di Chirurgia Generale nell’ambito del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia. La circostanza non risulta contestata dall’appellante;
– che anche per gli anni accademici precedenti (e comunque per il periodo successivo al maggio del 1996, non coperto dalla prescrizione del preteso diritto risarcitorio) non emerge la lamentata, totale esclusione dell’appellante dall’attività didattica in quanto tale e/o dall’assegnazione di compiti del tutto estranei rispetto all’area scientifico-disciplinare di afferenza. Si osserva al riguardo che, secondo quanto attestato dal Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia della S.U.N. con nota in data 22 marzo 2007, all’odierno appellante erano stati affidati nel corso degli anni insegnamenti nell’ambito della Scuola di Specializzazione in Chirurgia dell’apparto digerente ed endoscopia digestiva e nell’ambito del Corso di laurea in Medicina e chirurgia di Napoli. Anche in questo caso la circostanza non risulta contestata dal’appellante.
4.3. Si osserva al riguardo che, almeno per quanto riguarda lo svolgimento da parte dell’appellante dell’attività didattica, non sembrano ricorrere i presupposti rivelatori della lamentata dequalificazione professionale (che, nella tesi dell’appellante, sarebbe alla base dell’invocato danno patrimoniale), sussistendo un’oggettiva differenza fra:
– da un lato, l’attribuzione di incarichi didattici comunque di rilievo (pur se non graditi e contestati anche in sede giudiziaria) e
– dall’altro, il demansionamento professionale in senso proprio (il quale postula tendenzialmente l’attribuzione al lavoratore di mansioni ingiustificatamente deteriori rispetto a quelle proprie dell’originario inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla categoria superiore che sia stata successivamente acquisita ovvero alle mansioni a ultimo effettivamente svolte, giusta la previsione dell’articolo 2103 Cod. civ.).
4.4. Non si tratta qui di porre in discussione gli orientamenti giurisprudenziali (puntualmente richiamati dall’appellante) secondo cui è configurabile un demansionamento rilevante ai sensi dell’articolo 2103 Cod. civ. anche nelle ipotesi in cui sia stata attribuita al dipendente una qualifica formalmente equivalente a quella di corretto inquadramento, ma nondimeno inidonea a valorizzare in modo adeguato la sua specifica professionalità.
Ma il punto è che resta pur sempre necessario il presupposto dell’avvenuto esercizio (legittimo o illegittimo) di un concreto ius variandi da parte del datore di lavoro, ossia una modifica unilaterale – e in senso peggiorativo – del consolidato assetto lavorativo legittimamente e formalmente conseguito dal lavoratore.
Il che, nel caso in esame, non è stato.
4.5. E’ inoltre il caso di osservare che, secondo le risultanze in atti, all’indomani della sentenza di primo grado n. 17324/2008, all’appellante sono stati continuativamente assegnati incarichi di insegnamento in Chirurgia generale, in tal modo colmando definitivamente anche la lamentata discrasia oggettuale fra le materie in concreto assegnate e quelle tipiche del settore scientifico-disciplinare di afferenza (l’appellante era stato infatti nominato sin dal 1983 professore associato di Chirurgia Generale presso la Clinica Chirurgica Generale e di Terapia Chirurgica della Seconda Facoltà di Medicina e Chirurgia della Seconda Università degli Studi di Napoli).
4.6. A conclusioni non dissimili deve giungersi in relazione al danno che all’appellante sarebbe derivato a causa della sua lamentata, sistematica esclusione dall’attività di ricerca.
Si osserva al riguardo che, per quanto riguarda questa parte del ricorso, l’appellante non allega, come era suo onere, adeguate e puntuali circostanze di fatto idonee a supportare l’affermazione secondo cui il suo limitato coinvolgimento nell’attività di ricerca sia dipeso da condizioni ambientali sostanzialmente escludenti (se non palesemente ostili), piuttosto che da scelte o da circostanze attitudinali di carattere individuale.
Non si tratta qui di revocare in dubbio il principio secondo cui lo svolgimento di attività di ricerca costituisca per i professori universitari – una volta responsabilmente nominati tali e chiamati a ricoprire una cattedra – un diritto e un dovere da esercitare con piena libertà di scelta di temi e metodi (così, testualmente, l’articolo 1, comma 2 della l. 4 novembre 2005, n. 230 recante ‘Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari’).
Ma il punto è che, nel caso in esame, non è stato allegato alcun elemento concreto idoneo a dimostrare che la limitatezza dell’attività di ricerca svolta dall’appellante sia da addebitare alle scelte organizzative della S.U.N. o da un contesto ambientale (da specificare) asseritamente sfavorevole.
Si osserva infine (e si tratta di un’ulteriore notazione che depone nel senso dell’infondatezza in parte qua dell’appello) che lo stesso appellante, nel rivendicare la sua alta professionalità, sottolinea di essere autore di circa 130 pubblicazioni (peraltro, in gran parte in collaborazione con altri professionisti). Ebbene, la circostanza in questione (riferita ad uno degli aspetti più significativi dell’attività di ricerca scientifica) sembra porsi in oggettivo contrasto con la tesi secondo cui l’appellante sarebbe stato sistematicamente estromesso dall’attività di ricerca dell’Ateneo.
4.7. Anche per questa ragione il primo motivo di appello deve essere respinto.
5. Il secondo motivo di appello (con il quale si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe in relazione alla quantificazione del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale conseguente al patito demansionamento) è fondato solo in parte.
5.1. Come si è anticipato in narrativa, con il motivo in questione l’appellante chiede la riforma della sentenza in epigrafe lamentando l’inspiegabile discrasia che sussisterebbe fra (da un lato) la parte motiva della decisione, che avrebbe in sostanza accolto tutte le sue argomentazioni, e (dall’altro) la disposta quantificazione del danno, che risulterebbe del tutto incongrua a ristorare il danno patito all’esito della complessiva vicenda
Il motivo è da accogliere solo in parte in quanto, se è vero che il danno complessivamente liquidato dal primo giudice in favore dell’odierno appellante risulta di importo piuttosto contenuto rispetto alla gravità e alla durata del pregiudizio patito (e dunque il relativo importo deve essere in parte incrementato, secondo quanto fra breve si esporrà), d’altra parte sussistono in atti numerose circostanze le quali inducono a ritenere del tutto implausibile e disancorata dalla realtà delle cose qui controverse la quantificazione invocata dall’odierno appellante (il quale ha insistito, nella presente sede di appello, per un risarcimento pari ad oltre 51 milioni di euro).
5.2. Ora, una volta respinti (per le ragioni esposte con la sentenza non definitiva n. 223/2014) i motivi di appello incidentale con i quali la A.O.U. aveva posto radicalmente in dubbio la sussistenza stessa dei presupposti di un danno risarcibile, nel resta riconfermato l’impianto di fondo della sentenza appellata sia per quanto riguarda le componenti patrimoniali che per quelle non patrimoniali.
Inoltre, l’attività istruttoria disposta da questo giudice di appello con la richiamata sentenza parziale n. 223/2014 ha consentito di accertare:
– che, per ciò che attiene le componenti patrimoniali del danno patito dall’odierno appellante nel corso dell’intera vicenda, risulta effettivamente che lo stesso avesse raggiunto, nel corso del periodo compreso fra il maggio del 1996 e il luglio del 2011, livelli di reddito sovente inferiori rispetto a quelli di colleghi aventi la medesima qualifica e il medesimo profilo professionale (ci si riferisce, in particolare, agli importi percepiti nel corso del periodo 2000-2008 in relazione a rilevanti componenti accessorie del complessivo trattamento economico, fra cui l’indennità per la pronta disponibilità, la retribuzione di risultato, il compenso per lavoro straordinario e l’indennità per la pronta disponibilità);
– che per ciò che attiene le componenti non patrimoniali, la consulenza tecnica d’ufficio ha consentito di accertare (all’esito di operazioni peritali che il Collegio ritiene di condividere nel merito e nel metodo, non palesando aspetti di non persuasività o evidenti incongruenze) che l’odierno appellante fosse affetto, alla data del 6 giugno 2014, da un “disturbo dell’adattamento con ansia, di grado grave, cronico (…) che si sviluppa nel contesto di una personalità che non presenta elementi di rilievo clinico”. La successiva perizia in data 18 marzo 2014, rispondendo al quesito formulato con ordinanza collegiale n. 229/2015, ha inoltre precisato che “il disturbo di cui sopra è verosimilmente da mettere in relazione causale alla condotta asseritamente lesiva lamentata dall’appellante”. Anche in questo caso il Collegio ritiene di poter condividere nel metodo e nel merito le conclusioni cui è pervenuto il consulente tecnico d’ufficio).
5.3. Occorre a questo punto ricondurre il complessivo quadro emerso nel corso dei due gradi di giudizio a una concreta quantificazione la quale (pur dovendo comunque essere svolta sulla base del criterio equitativo – sul punto: Cons. Stato, III, 12 gennaio 2015, n. 28 -), tenga conto nel modo più possibile adeguato del complesso delle circostanze in fatto e in diritto emergenti all’esito del giudizio.
5.4. A tal fine il Collegio osserva come emerga in atti un complesso di circostanze le quali, pur inducendo a una parziale revisione (in senso favorevole all’appellante) del quantum del ristoro da accordare, impediscono tuttavia di riconoscere i ricordati importi rivendicati dal professor-OMISSIS- anche nella presente sede di appello.
5.4.1. Al riguardo si osserva:
– che, per le ragioni già esposte al punto 16.1.1. della sentenza parziale n. 223/2014, devono ritenersi prescritti tutti i pretesi diritti risarcitori riferibili a condotte anteriori al 5 maggio 1996;
– che, per le ragioni esposte al punto 4.2. della presente decisione, sono infondate le pretese risarcitorie azionate nei confronti della S.U.N. e conseguenti all’asserita estromissione dell’appellante dall’attività didattica e di ricerca. Si tratta, come è evidente, di una circostanza idonea a palesare l’infondatezza di una parte rilevante delle pretese risarcitorie dell’appellante, le quali potranno quindi limitarsi alle sole conseguenze pregiudizievoli connessi all’esercizio dell’attività assistenziale;
– che deve essere confermato quanto bene statuito alle pagine 26 e 27 della sentenza appellata, ove si è dichiarata infondata – per difetto di una prova specifica in ordine al nesso eziologico – la pretesa al ristoro patrimoniale conseguente alla mancata nomina a Primario (si osserva, peraltro, che il capo in questione non è stato fatto oggetto di specifici motivi di censura);
– che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha sovente ritenuto ammissibile, ai fini della quantificazione del danno da demansionamento, il ricorso al criterio della parametrazione percentuale alla retribuzione percepita (sul punto, ex multis: Cass., Sez. lavoro, 12 giugno 2015, n. 12253). Tuttavia, non è fondata la tesi dell’appellante secondo cui il ricorso al richiamato criterio risulterebbe di fatto vincolante per il giudice in sede di determinazione equitativa del danno da demansionamento. Al contrario, il ricorso al richiamato criterio di parametrazione percentuale risulta tanto meno persuasivo nelle ipotesi in cui (come nel caso in esame) numerosi elementi inducono in modo univoco a ritenere non sussistenti numerose delle invocate voci di danno che sarebbero riferibili al concreto esercizio dell’attività lavorativa e al contenuto professionale ed economico delle mansioni svolte (ci si riferisce, in particolare, alle voci di danno relative all’esercizio dell’attività didattica e di ricerca, che il Collegio ritiene insussistenti);
– per motivi in parte collegati con quelli appena esposti (e in considerazione delle assolute peculiarità della vicenda per cui è causa), neppure può rappresentare un congruo parametro di valutazione e commisurazione quello desumibile dalle statuizioni rese dal Tribunale amministrativo della Campania sulla vicenda di un ricercatore universitario che lamentava a propria volta la sostanziale estromissione dall’attività assistenziale didattica e di ricerca dell’Ateneo e in cui favore era stato liquidato un danno in misura ben più cospicua rispetto a quella riconosciuta all’odierno appellante. A tacer d’altro (e in disparte la condivisibilità intrinseca dei criteri di quantificazione adottati dal Tribunale amministrativo campano con la sentenza n. 6397/2007), l’odierno appellante non ha allegato circostanze concrete atte a persuadere circa la piena identità delle situazioni di fatto e di diritto sottese alle due sentenze di cui si lamenta la difformità (né può deporre univocamente in tal senso la rilevata circostanza per cui la sentenza in epigrafe sarebbe “fotocopia su tutti i principi enunciati” rispetto alla richiamata sentenza n. 6397/2007).
Si osserva, inoltre, che l’appellante non ha allegato puntuali e adeguati elementi idonei a dimostrare a questo giudice di appello che, in mancanza delle condotte dinanzi richiamate, egli concretamente avrebbe potuto godere di più favorevoli e ulteriori occasioni di [#OMISSIS#], come quelle connesse all’esercizio di attività libero professionale; e resta ferma ogni considerazione circa l’estraneità al perimetro del rapporto lavorativo che qui viene in rilievo e circa le sequenze causali sui presupposti di diritto e di fatto e sugli effetti di tali pretese e indirette opportunità. Non vi è dunque base per corrispondere a una tale pretesa risarcitoria.
5.5. Per le ragioni dinanzi esposte il secondo motivo di appello deve essere accolto solo in parte riconoscendo in via equitativa al professor-OMISSIS- (oltre al danno già liquidato con la sentenza in epigrafe, pari ad euro 18mila a titolo di danno patrimoniale e ad euro 7mila di danno non patrimoniale) l’ulteriore importo di euro 20mila, di cui: i) euro 8mila (ottomila) a titolo di danno patrimoniale e ii) euro 12mila (dodicimila) a titolo di danno non patrimoniale.
5.5.1. Per quanto riguarda il regime degli accessori deve essere confermato il passaggio di cui alle pagine 34 e 35 della sentenza in epigrafe (peraltro, non sottoposto a s