N. 06111/2021REG.PROV.COLL.
N. 06726/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6726 del 2019, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Università degli Studi di Udine, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
Università degli Studi di [#OMISSIS#], -OMISSIS- non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] (Sezione Prima) n. -OMISSIS-/2019, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Udine;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 giugno 2021 il Cons. [#OMISSIS#] De [#OMISSIS#] e uditi per le parti gli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], anche in sostituzione dell’Avv. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], in collegamento da remoto, ai sensi dell’art.25 Decreto Legge 28 ottobre 2020 n. 137 conv. in L. 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, il Prof. -OMISSIS- appella la sentenza n. 274 del 2019, con cui il Tar Friuli [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] ha rigettato il ricorso diretto ad ottenere la condanna dell’Università degli Studi di Udine al risarcimento dei danni conseguenti all’adozione di atti amministrativi illegittimi, come tali riconosciuti ed annullati dallo stesso Tar, con sentenza n. 554/2016, confermata da questo Consiglio con sentenza n. 1794/2018.
Secondo quanto dedotto in appello:
– in data 17.5.2012 l’Università degli Studi di Udine ha concluso due distinte convenzioni temporanee della durata di 5 anni con l’Università di [#OMISSIS#] per il conseguimento di obiettivi di interesse comune, al fine di ovviare alla scarsità di docenti nel settore scientifico disciplinare ICAR/14 “Composizione architettonica e urbana”; tali convenzioni prevedevano che l’appellante, professore associato confermato nel settore scientifico disciplinare ICAR/18 “Storia dell’architettura” (ICAR 18) presso l’università di Udine, svolgesse la propria attività didattica e di ricerca presso l’Università di [#OMISSIS#]; nonché che la prof.ssa [#OMISSIS#], docente di seconda fascia nel settore scientifico disciplinare ICAR/14 “Composizione architettonica e urbana” presso l’Università di [#OMISSIS#], svolgesse la propria attività didattica e di ricerca presso l’Università di Udine;
– in data 14.4.2015 il Consiglio di Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICA) dell’Università di Udine ha proposto la risoluzione unilaterale ed anticipata di entrambe le convenzioni;
– in data 22.4.2015 il Senato Accademico non ha espresso parere favorevole sulla relativa proposta;
– con delibera del 24.5.2015 il Consiglio di Amministrazione dell’Università di Udine ha risolto entrambe le convenzioni a decorrere dall’anno 2015/2016 per sopravvenute esigenze didattiche, in accoglimento della proposta del DICA, senza tenere conto delle osservazioni formulate [#OMISSIS#] la discussione in Senato Accademico e allegate al verbale della riunione;
– a seguito di ricorso proposto dal Prof. -OMISSIS-, il Tar Friuli [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e, in appello, questo Consiglio hanno ravvisato l’illegittimità della risoluzione unilaterale (deliberata dall’Università di Udine) delle convenzioni de quibus;
– l’odierno appellante, proponendo un secondo ricorso dinnanzi al Tar Friuli [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], ha chiesto la condanna dell’Università di Udine al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’illegittima revoca della convenzione tra i due atenei e, per l’effetto, per vedere risarcito il danno conseguente all’impossibilità di proseguire nell’insegnamento a [#OMISSIS#] per la durata residua della convenzione; danni commisurati [#OMISSIS#] esborsi settimanalmente sostenuti dal ricorrente per recarsi ad Udine, nonché nei mancati introiti per fondi di ricerca di cui il Prof. -OMISSIS- non avrebbe potuto beneficiare, non avendo potuto completare a [#OMISSIS#] il periodo di insegnamento e non avendo l’Ateneo di Udine messo a disposizione le attrezzature indispensabili per continuare l’attività in tale sede;
– il Tar ha rigettato il ricorso.
2. Come emerge dalla sentenza appellata, il Tar ha rigettato il ricorso, rilevando che:
– da un lato, non sussisteva l’elemento dell’ingiustizia del danno, essendo stato annullato l’atto di risoluzione per vizi meramente formali -per un vizio del procedimento (dovere partecipativo) e per difetto di motivazione-, ammettendo, però, il potere dell’Ateneo di revocare anzitempo la convenzione; sicché, l’annullamento non vincolava senz’altro l’amministrazione a riconoscere all’interessato quanto da lui richiesto, e quindi non si poteva dire che un danno ingiusto, per non averlo ottenuto, esisteva;
– dall’altro, difettava l’elemento soggettivo della colpa, tenuto conto che l’avvenuta emissione, nell’ambito del giudizio sulla legittimità della revoca, di ben tre pronunce cautelari a favore dell’Università di Udine, dimostrava inequivocabilmente la complessità e l’incertezza della fattispecie, il che giustificava la scusabilità della condotta dell’amministrazione.
3. La parte ricorrente ha appellato la sentenza, deducendone l’erroneità con l’articolazione di quattro motivi di doglianza.
4. L’ateneo intimato si è costituito in giudizio, resistendo all’appello.
5. In vista dell’udienza di discussione dell’appello, le parti hanno argomentato a sostegno delle rispettive conclusioni con il deposito di memorie e repliche. L’ateneo appellato ha depositato altresì note di udienza.
6. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 17 giugno 2021.
7. Con il primo motivo di appello la parte appellante deduce l’erroneità della sentenza di prime cure, per avere ritenuto che l’atto di risoluzione della convenzione fosse stato annullato esclusivamente per vizi formali o procedimentali.
7.1 Secondo la prospettazione attorea, invece:
– la sentenza pronunciata dallo stesso Tar Friuli [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] nel giudizio presupposto, vertente sulla legittimità della risoluzione della convenzione, aveva accertato l’effettiva inconsistenza delle esigenze didattiche e scientifiche a sostegno della decisione [#OMISSIS#], escludendo la presenza di effettive sopravvenienze di carattere scientifico in grado di giustificare la risoluzione anticipata delle convenzioni in parola;
– per l’effetto, l’annullamento giurisdizionale doveva ritenersi disposto non solo per l’omessa comunicazione di avvio del procedimento nei confronti del Prof. -OMISSIS- o per l’omessa considerazione del parere obbligatorio del Senato Accademico, ma anche e soprattutto per ragioni sostanziali;
– sarebbe stata, in definitiva, accertata la violazione della posizione del Prof. -OMISSIS- e, quindi, del suo diritto a continuare a svolgere la docenza nell’Ateneo di [#OMISSIS#] come previsto [#OMISSIS#] convenzione, emergendo un giudizio positivo di spettanza del [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] in capo al ricorrente;
– parimenti, il Tar non avrebbe neppure riconosciuto in capo all’Università il potere di revocare anzitempo la convenzione, come invece erroneamente rilevato [#OMISSIS#] sentenza censurata, in parte qua emessa pure in violazione del giudicato.
7.2 Il motivo di appello è infondato.
7.3 Applicando un principio giurisprudenziale elaborato in tema di ottemperanza (arg. ex art. 113 c.p.a., in cui si valorizza la rilevanza della motivazione e, in specie, del contenuto dispositivo e conformativo del provvedimento giurisdizionale), ma suscettibile di operare anche in sede risarcitoria, essendo fondato su argomentazioni di carattere sistematico comuni alle due materie, deve osservarsi che la conferma della sentenza di primo grado con diversa motivazione dà luogo ad una nuova regola precettiva – idonea a conformare autonomamente il rapporto amministrativo -, sostitutiva di quella divisata [#OMISSIS#] pronuncia appellata.
Come precisato da questo Consiglio, “solo la mera conferma ([#OMISSIS#] motivazione e nel dispositivo) della sentenza di primo grado ne consolida l’efficacia, mentre la sua conferma con diversa motivazione, così come la sua riforma parziale, nel determinare il descritto fenomeno sostitutivo, ne [#OMISSIS#] sin dall’origine la portata effettuale, che si sposta sulla sentenza resa in grado d’appello (Cons. Stato, Ad. Plen.,11 giugno 2001, n. 4; Cons. Stato, IV, 26 marzo 1999, n. 420; 11 giugno 1997, n. 638)” (Consiglio di Stato, sez. V, 27 febbraio 2019, n. 1386).
7.4 Alla stregua di tali coordinate ermeneutiche, è possibile soffermarsi sul [#OMISSIS#] di specie.
Come rilevato [#OMISSIS#] descrizione dei fatti di causa e come emergente dalla sentenza n. 1794 del 2018 cit., l’Università degli Studi di Udine e l’Università degli Studi di [#OMISSIS#] hanno stipulato due convenzioni per il conseguimento di obiettivi di interesse comune, al fine di ovviare alla scarsità di docenti nel settore di “Composizione architettonica”: la prima convenzione aveva coinvolto l’odierno ricorrente, professore nel settore di “Storia dell’architettura” (ICAR 18) presso l’Università di Udine, perché svolgesse il suo incarico presso l’Università di [#OMISSIS#]; la seconda convenzione aveva coinvolto la prof.ssa -OMISSIS-, professoressa nel settore di “Composizione architettonica” (ICAR 14) presso l’Università di [#OMISSIS#], perché svolgesse attività di ricerca presso l’Università di Udine.
Il consiglio di amministrazione dell’Università di Udine il 28 aprile 2015 ha risolto le convenzioni con l’Università di [#OMISSIS#] a decorrere dall’anno 2015-2016 per «sopravvenute esigenze didattiche».
L’odierna parte appellante ha impugnato l’atto di risoluzione, deducendone l’illegittimità sia per vizi procedurali, sia per vizi sostanziali.
Il Tar Friuli [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], definendo il ricorso di primo grado, con sentenza n. 554 del 2016, ha accolto il ricorso, rilevando che:
– l’Università di Udine avrebbe dovuto notiziare formalmente l’interessato dell’intenzione di avvalersi della facoltà di cui all’art. 1, comma 4, del d.m. 26 aprile 2011, n. 167 (art. 5, comma 2, della convenzione) ovvero di dare corso alla risoluzione unilaterale (e anticipata) per sopravvenute esigenze didattiche o scientifiche entro i termini previsti per la verifica dei requisiti di docenza di cui al d.m. 22 ottobre 2004, n. 270, atteso che l’esercizio di tale facoltà comportava conseguenze dirette sull’attività professionale del docente e, di conseguenza, anche sull’organizzazione della sua [#OMISSIS#] privata; l’Università, omettendo di coinvolgere il docente nel procedimento, aveva impedito alla parte privata di esercitare in maniera efficace e tempestiva le proprie prerogative partecipative;
– il Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo aveva omesso di prendere in considerazione il parere contrario espresso dal Senato Accademico; peraltro, la circostanza che il Senato accademico fosse chiamato ad esprimere un parere obbligatorio, ma non vincolante, non faceva venire meno l’obbligo in capo al Consiglio di Amministrazione di apprezzarne i contenuti e di dare contezza delle ragioni per cui si riteneva di non tenere conto del dissenso manifestato dal detto organo, facilmente evincibile dalle risultanze della discussione e dagli interventi contrari di alcuni senatori, riportati a verbale;
– sul piano sostanziale emergeva la pretestuosità delle sopravvenienze didattiche e scientifiche invocate dall’Università a sostegno della decisione [#OMISSIS#], dovendosi escludere sulla base della documentazione in atti la sussistenza di effettive sopravvenienze di carattere scientifico in grado di giustificare la risoluzione anticipata delle convenzioni di che trattasi.
L’Università ha proposto appello avverso la sfavorevole sentenza di prime cure.
La Sezione, pronunciando sull’impugnazione dell’Ateneo, ha rigettato le censure attoree, rilevando che:
– il quadro normativo di riferimento consentiva di qualificare l’interruzione del rapporto originato dalla convenzione conclusa tra l’Università di Udine e di [#OMISSIS#] quale revoca per sopravvenienze all’esito di un procedimento amministrativo, avente effetti diretti sull’attività dei docenti svolta in attuazione della convenzione stessa; con conseguente necessità di rispettare le regole generali, poste dalla legge n. 241 del 1990, che presiedono allo svolgimento di tale attività, assicurando, ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, la partecipazione procedimentale dei docenti stessi;
– il Consiglio di Amministrazione, nell’adottare la determinazione di sua competenza, avrebbe dovuto tenere conto della posizione espressa dal Senato Accademico; sebbene non fosse stato adottato un atto formale conclusivo per il mancato raggiungimento del necessario quorum deliberativo in ragione del numero degli astenuti, sarebbe stato comunque necessario tenere conto delle posizioni sfavorevoli espresse dai singoli componenti e più in generale della stessa circostanza che aveva condotto al non raggiungimento del quorum richiesto per assumere la deliberazione programmata.
La Sezione, rigettati i primi due motivi proposti dall’Ateneo, ha ritenuto “non necessario pronunciarsi anche sulla censura volta a dimostrare la sussistenza di reali sopravvenute esigenze didattiche, atteso che, in ogni [#OMISSIS#], le stesse avrebbero dovuto, per i motivi [#OMISSIS#], essere valutate nell’ambito di un contraddittorio procedimentale, che, [#OMISSIS#] specie, è mancato”.
7.5 Alla luce del contenuto motivazionale delle due sentenze in raffronto, di primo grado e di secondo grado, emerge che la pronuncia di appello ha confermato l’esito della controversia – di accoglimento del ricorso di primo grado -, pronunciando sui soli capi decisori riguardanti l’omessa comunicazione di avvio del procedimento di risoluzione e il difetto di un’adeguata motivazione della decisione di risoluzione [#OMISSIS#] dall’Ateneo di Udine.
La Sezione, invece, assorbendo l’ulteriore motivo di impugnazione proposto dall’Ateneo, ha omesso di statuire sul capo decisorio afferente alla fondatezza, altresì, delle censure sostanziali, riguardanti l’esistenza delle effettive ragioni giustificatrici dell’impugnata risoluzione.
Ne deriva che i due titoli giudiziali non presentano il medesimo contenuto conformativo, non avendo accertato il [#OMISSIS#] di appello l’illegittimità della risoluzione unilaterale anche in relazione alla ragionevolezza e logicità delle rationes decidendi addotte dall’Ateneo a fondamento della propria decisione. Per l’effetto, la regula iuris posta dal titolo di secondo grado non può ritenersi identica a quella divisata dalla sentenza gravata.
In particolare, avuto riguardo [#OMISSIS#] effetti conformativi del rapporto sostanziale riconducibili ai due pronunciamenti in esame, mentre la sentenza di primo grado condizionava la riedizione del potere anche sul piano sostanziale, dettando criteri orientativi della discrezionalità dell’Amministrazione [#OMISSIS#] valutazione delle ragioni giustificatrici della risoluzione unilaterale; la sentenza di appello si è limitata ad orientare (in particolare) il quomodo dell’azione amministrativa, imponendo la comunicazione di avvio del procedimento e la valutazione della delibera del Senato Accademico, senza, tuttavia, influire sulle ragioni organizzative adducibili a fondamento della risoluzione unilaterale, per l’effetto rimesse ad una valutazione discrezionale dell’organo procedente non conformata dal titolo giudiziale.
In siffatte ipotesi, in cui la sentenza di appello risulta caratterizzata da un diverso contenuto conformativo rispetto a quello proprio della sentenza di prime cure, tenuto conto, pure, dell’effetto devolutivo dell’atto di appello, il titolo giudiziale di secondo grado si sostituisce al titolo di prime cure [#OMISSIS#] regolazione del rapporto amministrativo, con la conseguenza che, al fine di individuare i vincoli e gli obblighi gravanti sull’Amministrazione [#OMISSIS#] fase di riedizione del potere, deve aversi riguardo esclusivamente al comando posto dal [#OMISSIS#] di appello.
Di conseguenza, facendosi questione [#OMISSIS#] specie di una sentenza di secondo grado espressiva di una regula iuris, conformativa del rapporto amministrativo, non coincidente con quella divisata [#OMISSIS#] pronuncia gravata (avente un contenuto conformativo maggiormente esteso, afferente anche a [#OMISSIS#] sostanziali della vertenza non attinti dalla pronuncia della Sezione), deve ritenersi che la sentenza di appello si sia sostituita a quella di primo grado [#OMISSIS#] regolazione del [#OMISSIS#] concreto e, pertanto, costituisca l’unico titolo giudiziale da prendere in esame per ricostruire il precetto da ottemperare [#OMISSIS#] fase di riedizione del pubblico potere.
Il primo motivo di appello, in conclusione, deve essere rigettato, non potendo desumersi dalla sentenza del Tar n. 554/16 – non più rilevante nell’attuazione dell’assetto di interessi divisato tra il prof. -OMISSIS- e l’Università di Udine – alcun accertamento giurisdizionale suscettibile di conformare la decisione da assumere a soluzione dell’odierna controversia, in specie in ordine all’arbitrarietà delle ragioni addotte dall’Ateneo di Udine a fondamento della risoluzione annullata in giudizio.
L’accertamento giurisdizionale (riguardante l’illegittimità delle ragioni organizzative alla base della disposta risoluzione unilaterale) recato [#OMISSIS#] sentenza di prime cure non esprime infatti più la regola precettiva da osservare inter partes sul piano sostanziale.
8. Con il secondo motivo di appello viene censurata la sentenza di prime cure, [#OMISSIS#] parte in cui ha ritenuto non provata la spettanza del [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] in capo al ricorrente; quando, invece, tale spettanza sarebbe discesa dalla stessa convenzione sottoscritta tra i due Atenei, costitutiva del diritto del prof. -OMISSIS- a continuare il proprio insegnamento presso l’Università di [#OMISSIS#].
Il motivo è argomentato pure sulla base della giurisprudenza formatasi in materia di pubblico impiego, con particolare riguardo alla reintegrazione conseguente alla decisione giudiziale in [#OMISSIS#] di illegittima interruzione del rapporto di lavoro. Difatti, secondo quanto ritenuto dall’appellante, per ottenere la reintegrazione, il dipendente non avrebbe la necessità di dimostrare alcuna ulteriore spettanza oltre al diritto già nascente dal rapporto in essere con l’Amministrazione, dalla stessa illegittimamente risolto.
In ogni [#OMISSIS#], a fronte della illegittima lesione di un interesse oppositivo, ai fini risarcitori, non occorrerebbe svolgere alcun giudizio prognostico di meritevolezza, non potendosi distinguere tra interessi formali e sostanziali.
Il secondo motivo di appello deve essere esaminato, per ragioni di connessione, unitamente al terzo motivo, con cui è censurata l’erroneità della sentenza di prime cure, [#OMISSIS#] parte in cui ha escluso la sussistenza di una condotta colposa ascrivibile all’Amministrazione.
Secondo la prospettazione attorea, le pronunce cautelari valorizzate dal Tar per escludere l’integrazione del coefficiente psicologico di colpevolezza non potrebbero a posteriori rendere scusabile l’errore in cui è incorsa l’Amministrazione; in ogni [#OMISSIS#], la situazione fattuale non sarebbe stata connotata da elementi di complessità, non essendovi incertezza sul quadro normativo di riferimento, né contrasti giurisprudenziali idonei a giustificare l’azione illegittima.
Dalle sentenze emesse nel giudizio presupposto (di primo e secondo grado) emergerebbero, invece, macroscopiche violazioni a fondamentali regoli dell’agire amministrativo, recanti un precetto chiaro e comprensibile.
8.1 I motivi di appello sono fondati ai sensi di quanto di seguito precisato.
8.2 In materia di responsabilità civile della Pubblica Amministrazione la parte che affermi di avere subito un danno in conseguenza dell’altrui condotta lesiva è, tenuta ad allegare e provare puntualmente gli elementi costitutivi dell’illecito e le conseguenze pregiudizievoli subite (Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 ottobre 2020, n. 6394).
In particolare, l’illecito civile ascrivibile all’Amministrazione nell’esercizio dell’attività autoritativa, quale quella rilevante nell’odierna sede processuale, richiede:
– sul piano oggettivo, la presenza di un provvedimento illegittimo causa di un danno ingiusto, con la necessità, a tale [#OMISSIS#] riguardo, di distinguere l’evento dannoso (o c.d. “danno-evento”) derivante dalla condotta, che coincide con la lesione o compromissione di un interesse qualificato e differenziato, meritevole di tutela [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di relazione, e il conseguente pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale scaturitone (c.d. “danno-conseguenza”), suscettibile di riparazione in via risarcitoria (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3);
– sul piano soggettivo l’integrazione del coefficiente di colpevolezza, con la precisazione che la sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integra la colpa dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 15 gennaio 2019, n. 358).
Positivamente definito lo scrutinio in ordine [#OMISSIS#] elementi costitutivi dell’illecito, occorre verificare la sussistenza di conseguenze dannose, da accertare secondo un (distinto) regime di causalità giuridica che ne prefigura la ristorabilità solo in quanto si atteggino, secondo un canone di normalità e adeguatezza causale, ad esito immediato e diretto della lesione del [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] ai sensi degli artt. 1223 e 2056 Cod. civ. (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 4 agosto 2015, n. 3854).
Peraltro, ove non sia possibile accertare con certezza la spettanza in capo al ricorrente del [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] ambito, il danno patrimoniale potrebbe, comunque, liquidarsi ricorrendo alla tecnica risarcitoria della chance, previo accertamento di una “probabilità seria e concreta” o anche “elevata probabilità” di conseguire il [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] sperato, atteso che “al di sotto di tale livello, dove c’è la “mera possibilità”, vi è solo un ipotetico danno non meritevole di reintegrazione poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto” (Consiglio di Stato Sez. V, 15 novembre 2019, n. 7845).
8.3 Iniziando la disamina dei motivi di appello, giova soffermarsi – in via preliminare – sulle peculiarità del [#OMISSIS#] in esame, date, da un lato, dalla fonte della posizione giuridica azionata in giudizio dall’odierno appellante, rappresentata da una convenzione amministrativa conclusa tra due Università; dall’altro, dalla tipologia di atto lesivo assunto dall’Amministrazione intimata, riconducibile alla categoria dell’autotutela decisoria.
Al riguardo, occorre fare riferimento all’accertamento contenuto [#OMISSIS#] sentenza n. 1794 del 2018 pronunciata dalla Sezione, costituente (alla luce delle considerazioni svolte [#OMISSIS#] disamina del primo motivo di appello) il titolo giudiziale regolante il rapporto amministrativo, avente autorità di cosa giudicata tra le parti dell’odierno processo.
Si è, in particolare, in presenza di un titolo giudiziale suscettibile di conformare la presente decisione, in relazione alla soluzione di questioni che, rientrando nel perimetro oggettivo del relativo giudicato, rilevano anche nel presente giudizio per accertare la sussistenza di un illecito civile ascrivibile all’Amministrazione, [#OMISSIS#] di danni risarcibili.
Premesso che sono comprese nei limiti oggettivi del giudicato le questioni e gli accertamenti che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico ineludibile della pronuncia e che si ricollegano, quindi, in modo indissolubile alla decisione formandone l’indispensabile presupposto (cfr. Consiglio di Stato Sez. V, 28 gennaio 2021, n. 832; Id., Sez. II, 16 marzo 2021, n. 2248), avuto riguardo al giudicato formatosi sulla sentenza n. 1794/18 cit., tra le questioni ormai accertate con efficacia di giudicato, suscettibili di conformare anche la presente decisione, rilevano la illegittimità della risoluzione unilaterale della convenzione conclusa tra gli Atenei di [#OMISSIS#] e Udine e, in quanto costituente un suo antecedente logico-giuridico necessario, la natura giuridica di tale convenzione.
Come statuito [#OMISSIS#] sentenza n. 1794/18 cit., la convenzione de qua configurava “un accordo tra enti pubblici di rilevanza organizzativa finalizzata a perseguire interessi pubblici.
Tale convenzione non è interamente assimilabile al modello generale di accordi previsto dall’art. 15 della legge n. 241 del 1990, in quanto presenta taluni elementi di specialità connessi, tra l’altro, al suo particolare “oggetto” che coinvolge direttamente i privati destinatari dell’accordo stesso e cioè gli insegnanti trasferiti.
Sul piano della formazione della convenzione, parti di essa sono gli enti pubblici ma i privati, proprio per la loro peculiare posizione, devono manifestare il proprio assenso ai fini della produzione di effetti della convenzione stessa.
Sul piano della esecuzione della convezione, che rileva in questa sede, è prevista sia la possibilità di risoluzione unilaterale delle convenzioni da parte delle singole Università sia la possibilità di revoca del consenso da parte del docente con incidenza risolutoria automatica sulla convenzione stessa.
Tutte le parti, sia pure con atti di natura diversa, possono decidere di interrompere il rapporto in corso.
Se tale decisione è [#OMISSIS#] dall’Università ciò avviene mediante un atto che deve essere qualificato come provvedimento unilaterale di revoca per sopravvenienze adottato all’esito di un procedimento amministrativo, che sortisce effetti diretti sull’attività che i docenti stanno svolgendo in attuazione della convenzione stessa”.
Tale convenzione è stata reputata illegittima, per omessa comunicazione di avvio del procedimento di revoca nei confronti dell’odierno ricorrente e per difetto di motivazione, non essendo stata tenuta in considerazione la posizione espressa dal Senato Accademico.
Alla stregua degli accertamenti recati nel precedente giudiziario, non può essere più revocato in dubbio nel presente giudizio che:
– la convenzione conclusa tra l’Università di [#OMISSIS#] e l’Università di Udine non costituiva un mero accordo privato, bensì un atto consensuale implicante l’esercizio di un pubblico potere, suscettibile di incidere altresì sull’altrui posizione giuridica, in specie dei docenti contemplati [#OMISSIS#] relativa pattuizione, incaricati dello svolgimento della propria attività di ricerca e didattica presso un Ateneo diverso da quello di appartenenza;
– tali docenti, pur non partecipando alla convenzione, risultavano comunque coinvolti nell’esercizio del pubblico potere, subendo una modificazione [#OMISSIS#] propria posizione lavorativa in conseguenza dell’atto convenzionale; come confermato dalla necessità di “manifestare il proprio assenso ai fini della produzione di effetti della convenzione stessa”, ponendo in essere un atto volitivo, di accettazione dell’altrui pattuizione, che, altrimenti, a fronte di una convenzione non incidente sulla propria posizione giuridica, non avrebbe avuto alcuna giustificazione;
– l’idoneità di tale convenzione ad incidere sulla posizione del docente incaricato era confermata pure dalla necessità di assicurare la partecipazione del privato al procedimento di secondo grado, essendo un’eventuale revoca dell’atto convenzionale – comunque ammissibile nell’esercizio del potere di autotutela spettante all’Amministrazione procedente – idonea ad influire sulla prestazione lavorativa del docente interessato, da porre, dunque, in condizione di fornire il proprio contributo partecipativo al fine di condizionare in senso a sé favorevole l’esercizio del pubblico potere;
– la convenzione risultava illegittimamente revocata dall’Ateneo di Udine.
8.4 Alla luce di tali rilievi, deve ritenersi che l’odierno appellante, per effetto della revoca della convenzione de qua, abbia subito la lesione di un interesse legittimo oppositivo, in ragione dell’illegittima sottrazione di un’utilità già compresa nel proprio patrimonio; il che consente di ritenere integrato, sul piano oggettivo, un illecito civile ascrivibile in capo all’Amministrazione appellata.
8.5 In primo luogo, deve darsi atto che la decisione dell’Ateneo di Udine di risolvere anticipatamente la convenzione, anziché rilevare sul solo piano organizzativo, nei rapporti tra le parti pubbliche firmatarie, ha inciso sulla sfera giuridica dell’odierno ricorrente, cui è stata preclusa la possibilità di proseguire la propria attività didattica e di ricerca presso l’Università di [#OMISSIS#].
Come accertato [#OMISSIS#] sentenza n. 1794/18 cit., la “convenzione non è interamente assimilabile al modello generale di accordi previsto dall’art. 15 della legge n. 241 del 1990, in quanto presenta taluni elementi di specialità connessi, tra l’altro, al suo particolare “oggetto” che coinvolge direttamente i privati destinatari dell’accordo stesso e cioè gli insegnanti trasferiti”.
L’atto convenzionale, dunque, assumeva natura pubblicistica ed era idoneo a coinvolgere anche la sfera giuridica dei docenti trasferiti: facendosi questione di soggetti incisi dall’esercizio del pubblico potere, i docenti dovevano ritenersi titolari sul piano sostanziale di una posizione di interesse legittimo.
Come osservato da questo Consiglio, “L’interesse legittimo è una situazione giuridica autonoma di [#OMISSIS#] sostanziale protetta dalla [#OMISSIS#] che regola il potere pubblico e che si correla ad un [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] che, in [#OMISSIS#] di interesse legittimo oppositivo, preesiste all’esercizio del potere con interesse alla sua conservazione, ovvero, in [#OMISSIS#] di interesse legittimo pretensivo, si potrebbe ottenere all’esito dell’esercizio del potere, con interesse alla sua acquisizione” (Consiglio di Stato, sez. VI, 30 novembre 2020, n. 7520).
Nel [#OMISSIS#] di specie l’odierno appellante era interessato a proseguire l’attività didattica e di docenza presso l’Università di [#OMISSIS#]: si trattava di un’utilità già riconosciuta dall’atto convenzionale, preesistente all’esercizio del potere di autotutela (sub specie di revoca), pertanto già compresa nel patrimonio giuridico del ricorrente.
Per l’effetto, posto che il prof. -OMISSIS- era, da un lato, coinvolto [#OMISSIS#] regolazione amministrativa attuata in sede convenzionale, dall’altro, era interessato a conservare un [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] già attribuito in via amministrativa, la situazione giuridica lesa dall’intervento in autotutela aveva consistenza di interesse legittimo oppositivo.
Non potrebbe diversamente argomentarsi ritenendo che l’odierno ricorrente non avesse comunque uno specifico interesse, giuridicamente tutelato, a svolgere la prestazione lavorativa presso un Ateneo diverso da quello di appartenenza.
Un tale assunto, infatti, è smentito dalla stessa sentenza n. 1794/18, con cui la Sezione ha annullato la risoluzione della convenzione disposta dall’Università di Udine, a definizione di un giudizio introdotto in primo grado dall’odierno appellante, in tale modo implicitamente riconoscendo in favore del prof. -OMISSIS- la legittimazione e l’interesse ad opporsi all’atto di autotutela assunto dall’Amministrazione universitaria, con evidenza ritenuto lesivo di un interesse individuale, ascrivibile alla parte privata, avente ad oggetto la conservazione del [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] attribuito in sede convenzionale e negato con il provvedimento impugnato.
Inoltre, deve osservarsi che, nell’ambito di un rapporto di lavoro, la parte datoriale risulta sì abilitata ad esercitare lo ius variandi, anche in relazione al luogo di svolgimento dell’attività lavorativa, ma nel rispetto dei limiti posti dal quadro normativo di riferimento; la cui violazione determina un inadempimento datoriale (ove si faccia questione di atti negoziali – cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 10 gennaio 2019, n. 434) ovvero un’illegittimità provvedimentale (qualora si discorra di spendita di pubblico potere – cfr. Consiglio di Stato Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 284), suscettibile di ledere la sfera giuridica del lavoratore.
Il lavoratore orienta infatti le proprie scelte di [#OMISSIS#] e professionali (anche) sulla base del luogo di svolgimento della propria prestazione: è, dunque, ben possibile che il lavoratore, che abbia prestato affidamento sulla conservazione della posizione lavorativa riconosciuta dalla parte datoriale, a fronte di un sopravvenuto atto di modifica della sede di servizio, sia titolare di un interesse qualificato di natura oppositiva, che lo abilita ad impugnare la scelta datoriale, onde permanere presso la sede originariamente assegnata; si conferma, dunque, come il mutamento della sede di servizio influisca comunque su una situazione giuridica soggettiva del lavoratore meritevole di protezione.
Nel [#OMISSIS#] di specie, per effetto dell’atto convenzionale concluso tra le Università di Udine e di [#OMISSIS#], il prof. -OMISSIS- avrebbe dovuto svolgere “il 100% del proprio impegno annuo presso l’Ateneo ricevente” (art. 1 convenzione), per una “durata di cinque anni a far data dal 01.09.2012” (art. 5 convenzione), salve la possibilità di risoluzione unilaterale da parte di ciascuna delle università firmatarie per sopravvenute esigenze didattiche o scientifiche ovvero la possibilità per il docente incaricato di revocare il proprio consenso allo svolgimento dell’attività didattica e di ricerca presso l’Università ricevente.
Di conseguenza, l’assegnazione del docente, per cinque anni, presso un diverso Ateneo, con sede in altra città, sebbene riesaminabile (al pari di ogni utilità originata da un atto amministrativo, per propria natura suscettibile di autotutela decisoria), risultava comunque idonea a determinare uno stabile mutamento delle abitudini di [#OMISSIS#] e lavorative del lavoratore – in assenza di un legame funzionale con l’originaria sede lavorativa (svolgendo il prof. -OMISSIS- il 100% del proprio impegno annuo presso l’Ateneo di [#OMISSIS#] in un arco temporale predefinito di cinque anni) -, tale da fare sorgere in capo al lavoratore un interesse alla conservazione della posizione lavorativa riconosciuta in via convenzionale, per il periodo temporale all’uopo prestabilito.
Del resto, la convenzione conclusa tra le Università di [#OMISSIS#] e Udine non risultava funzionale a realizzare le sole esigenze organizzative delle parti pubbliche firmatarie, ma valorizzava pure il peculiare interesse del docente allo svolgimento della propria attività lavorativa presso altro Ateneo.
La convenzione de qua risultava, infatti, regolata altresì dall’art. 1, comma 1, del decreto ministeriale 26 aprile 2011, n. 167, secondo cui “per il perseguimento di finalità di interesse comune le università possono stipulare convenzioni per consentire ai professori e ricercatori a tempo pieno di svolgere attività didattica e di ricerca presso altro ateneo stabilendo le modalità di ripartizione dei relativi oneri”.
La convenzione, pertanto, pur essendo determinata da un interesse pubblico comune degli Atenei firmatari, tendeva anche ad abilitare i professori o i ricercatori a svolgere la propria attività lavorativa presso altro Ateneo, in tale modo realizzato pure un interesse del singolo docente ad arricchire il proprio patrimonio professionale attraverso un’esperienza lavorativa presso un’Università diversa da quella di appartenenza.
Il docente, che aveva manifestato il proprio consenso alla regolazione amministrativa, risultava dunque titolare di un interesse alla conservazione della nuova posizione lavorativa riconosciuta dall’atto convenzionale, idonea ad orientare le proprie le proprie scelte di [#OMISSIS#] personale e a soddisfare esigenze professionali.
Alla stregua delle osservazioni svolte, si conferma che il prof. -OMISSIS- era titolare di una situazione giuridica soggettiva qualificabile in termini di interesse legittimo oppositivo, essendo interessato (per effetto del consenso alla regolazione amministrativa manifestato, non revocato in costanza di rapporto) alla conservazione dell’utilità riconosciuta dall’atto convenzionale, tale da legittimare la sua opposizione ad eventuali provvedimenti di autotutela adottabili dalle parti pubbliche firmatarie.
Una revoca della disciplina convenzionale avrebbe infatti imposto un anticipato rientro del docente presso l’Ateneo di appartenenza, con conseguente lesione dell’affidamento individuale a proseguire l’attività didattica e di ricerca presso l’Università ricevente, fino al [#OMISSIS#] naturale della relativa convenzione.
8.6 Precisato che l’odierno ricorrente era titolare di un interesse legittimo oppositivo, occorre evidenziare come, diversamente da quanto ritenuto dall’Ateneo appellato, la lesione di una tale situazione giuridica, in conseguenza di un provvedimento illegittimo, non richieda, ai fini risarcitori, di svolgere un giudizio prognostico di spettanza del [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#].
Come precisato da questo Consiglio, “vero è che… l’obbligazione risarcitoria affonda le sue radici [#OMISSIS#] verifica della sostanziale spettanza del [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] ed implica un giudizio prognostico in relazione al se, a seguito del corretto agire dell’amministrazione, il [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] sarebbe effettivamente o probabilmente (cioè secondo il canone del “più probabile che non”) spettato al titolare dell’interesse (Sez. IV, 14 giugno 2018, n. 3657).
Tuttavia la responsabilità si atteggia diversamente a seconda che, oggetto della lesione sia un interesse oppositivo ovvero pretensivo.
Nel primo [#OMISSIS#], occorre infatti accertare soltanto se l’illegittima attività dell’amministrazione abbia leso l’interesse alla conservazione di un [#OMISSIS#] o di una situazione di vantaggio già acquisita, mentre è in relazione al diniego o alla ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo che occorre valutare, a mezzo di un giudizio prognostico, la fondatezza o meno della richiesta della parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole (cfr. Cass. civ., Sez. I, 13 ottobre 2011, n. 21170)” (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 gennaio 2019, n. 536).
A fronte di un interesse legittimo oppositivo, l’invalidità dell’atto lesivo e la lesione dell’interesse privato alla conservazione dell’utilità negata dall’organo procedente sono, dunque, sufficienti per riscontrare sul piano oggettivo una responsabilità civile dell’Amministrazione procedente.
In siffatte ipotesi, non occorre svolgere in sede giurisdizionale alcun giudizio prognostico di spettanza del [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] ambito dal ricorrente – come tipicamente avviene in [#OMISSIS#] di atti lesivi di un interesse pretensivo, all’acquisizione di un’utilità ancora non compresa nel patrimonio giuridico individuale, attribuibile soltanto per effetto dell’intermediazione amministrativa -, tenuto conto che il [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] a tutela del quale agisce la parte privata preesiste all’esercizio del potere censurato in giudizio, venendo riacquisito dal ricorrente per effetto dell’annullamento dell’atto sacrificativo.
Tali principi operano anche qualora il [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] sia riconosciuto, anziché direttamente da una [#OMISSIS#] giuridica, da un pregresso atto amministrativo, successivamente revocato in sede di autotutela: anche in tale ipotesi, per effetto dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento di autotutela, si determina una reviviscenza dell’atto amministrativo originario e, dunque, si ricostituisce in capo al ricorrente la posizione di vantaggio originariamente vantata.
Al riguardo, questo Consiglio ha precisato che il giudicato di annullamento è “notoriamente autoesecutivo, nel senso che non ha bisogno di essere seguito da ulteriori atti, comportamenti od attività dell’ente obbligato, producendo automaticamente un effetto demolitorio sui provvedimenti cui si riferisce, che comporta, altrettanto automaticamente, la loro cancellazione dal mondo giuridico sin dal momento della (loro) emanazione ( Cons. St., IV, 30 luglio 2012, n. 4314 ) e la reviviscenza dell’atto illegittimamente rimosso in autotutela dall’Amministrazione ( Cons. St., V, 19 febbraio 1998, n. 190 )” (Consiglio di Stato Sez. III, 14 gennaio 2013, n. 130)
8.7 L’applicazione di tali principi di diritto al [#OMISSIS#] di specie consente di ritenere integrati gli elementi costitutivi oggettivi dell’illecito civile ascritto in capo all’Ateneo intimato.
Nel presente giudizio si fa questione di danni ricondotti all’illegittima revoca di un atto convenzionale, che consentiva al ricorrente di svolgere attività lavorativa per un periodo di cinque anni presso l’Ateneo di [#OMISSIS#].
La risoluzione anticipata (rectius revoca) della convenzione ha determinato la violazione di un interesse legittimo oppositivo, avendo il ricorrente interesse a conservare l’utilità riconosciuta dalla convenzione, permanendo presso l’Università ricevente per il periodo temporale all’uopo predefinito.
L’annullamento della revoca ha comportato la riviviscenza della convenzione e, dunque, la ricostituzione, senza soluzione di continuità, in capo al ricorrente dell’originaria posizione lavorativa, che lo abilitava a svolgere attività didattica e di ricerca presso l’Ateneo di [#OMISSIS#].
Ne deriva che il docente, per il periodo in cui ha avuto materiale attuazione il provvedimento di revoca (successivamente annullato ex tunc) è stato illecitamente richiamato a svolgere la propria attività lavorativa presso l’Ateneo di appartenenza, quando, invece, avrebbe avuto titolo ad operare presso l’Ateneo di [#OMISSIS#] in virtù di un atto convenzionale comunque efficace (stante il successivo annullamento retroattivo del provvedimento di autotutela).
Non potrebbe diversamente argomentarsi rilevando che l’Ateneo appellato, a fronte del giudicato formatosi sulla sentenza n. 1794/18 – che non accertava l’insussistenza dei presupposti per l’autotutela decisoria – avrebbe potuto, [#OMISSIS#] fase di riedizione del potere, assumere un nuovo atto di revoca dal contenuto dispositivo identico a quello annullato in sede giurisdizionale, emendato dai vizi riscontrati [#OMISSIS#] sentenza inter partes emessa.
Tale nuovo atto, infatti, in quanto avente natura giuridica di revoca provvedimentale, avrebbe potuto determinare la risoluzione della convenzione de qua soltanto pro futuro, con salvezza degli effetti giuridici già prodotti.
Pertanto, una nuova risoluzione anticipata, ove legittimamente [#OMISSIS#], avrebbe potuto impedire all’odierno ricorrente di svolgere attività didattica e di ricerca presso l’Università di [#OMISSIS#] soltanto a partire dall’inizio del successivo anno accademico (ex art. 5 della convenzione), ma non avrebbe potuto giustificare, per il pregresso periodo in cui ha avuto materiale attuazione la prima illegittima risoluzione unilaterale, la riassegnazione del prof. -OMISSIS- presso l’Ateneo di appartenenza, in violazione di una regolazione amministrativa efficace (in ragione della retroattività dell’annullamento dell’atto di autotutela), su cui lo stesso docente aveva prestato un legittimo affidamento in funzione delle scelte di [#OMISSIS#] personale e professionale compiute.
8.8 In conclusione, avendo l’illegittima attività dell’amministrazione leso l’interesse alla conservazione di un [#OMISSIS#] della [#OMISSIS#] già acquisito al patrimonio giuridico dell’odierno appellante, devono ritenersi integrati gli elementi costitutivi oggettivi dell’illecito ascritto all’Ateneo appellato.
8.9 La sussistenza di una responsabilità civile dell’Amministrazione universitaria non potrebbe essere negata neppure per l’assenza del coefficiente psicologico di colpevolezza.
Al riguardo, deve confermarsi l’indirizzo giurisprudenziale, per cui il riscontrato illegittimo esercizio della funzione amministrativa non integra di per sé la colpa dell’Amministrazione, dovendo anche accertarsi se l’adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo sia conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede – alle quali deve essere costantemente ispirato l’esercizio dell’attività amministrativa – e si sia verificata in un contesto di fatto ed in un quadro di riferimento normativo tale da palesare la negligenza e l’imperizia degli uffici o degli organi dell’amministrazione ovvero se per [#OMISSIS#] la predetta violazione sia ascrivibile all’ipotesi dell’errore scusabile, per la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo o per la complessità della situazione di fatto (Consiglio di Stato, Stato, V, 9 ottobre 2013, n. 4968; VI, 14 novembre 2014, n. 5600).
Per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione assume rilievo, altresì, la tipologia di regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico [#OMISSIS#] sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere sia stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità.
A fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell’Amministrazione può, infatti, essere affermata nei soli casi in cui l’azione amministrativa abbia disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell’errore scusabile (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 05 giugno 2019, n. 3799).
Sotto il profilo processuale del riparto dell’onere della prova, inoltre, deve rilevarsi che, in [#OMISSIS#] di acclarata illegittimità di un atto amministrativo asseritamente [#OMISSIS#] di danno, al privato non è richiesto un particolare sforzo probatorio per ciò che attiene al profilo dell’elemento soggettivo della fattispecie; egli può, infatti, limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto, dovendosi fare rinvio, al fine della prova dell’elemento soggettivo della responsabilità, alle regole della comune esperienza e della presunzione semplice di cui all’ art. 2727 c.c. , mentre spetta alla Pubblica amministrazione dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile.
Tale presunzione di colpa dell’amministrazione, tuttavia, può essere riconosciuta solo nelle ipotesi di violazioni commesse in un contesto di circostanze di fatto ed in un quadro di riferimento normativo, giuridico e fattuale tale da palesarne la negligenza e l’imperizia, cioè l’aver agito intenzionalmente o in spregio alle regole di correttezza, imparzialità e buona fede nell’assunzione del provvedimento viziato, mentre deve essere negata la responsabilità quando l’indagine conduce al riconoscimento di un errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di riferimento, per la complessità della situazione di fatto (Consiglio di Stato Sez. VI, 28 giugno 2019, n. 4454).
L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al [#OMISSIS#] di specie evidenzia la sussistenza di una condotta colposa dell’Amministrazione universitaria.
La violazione riscontrata nel giudicato di annullamento formatosi tra le parti concerneva, infatti, disposizioni dal chiaro contenuto precettivo, riguardanti la comunicazione di avvio del procedimento e l’adeguata motivazione della scelta amministrativa.
L’atto lesivo, inoltre, assumeva natura pubblicistica, risultando regolato da una disciplina speciale conosciuta dall’Ateneo procedente (in quanto richiamata nelle stesse premesse della convenzione illegittimamente revocata – cfr. D.M. n. 167 del 2011) o comunque, nei limiti della compatibilità, da disposizioni generali (ex art. 15 L. n. 241/90) da ritenersi conoscibili dal soggetto pubblico, regolando l’azione amministrativa in collaborazione in concreto svolta.
Peraltro, non potevano neppure nutrirsi dubbi in ordine alla qualificazione in termini di autotutela della risoluzione unilaterale disposta dall’Ateneo procedente, facendosi questione di un intervento di secondo grado, [#OMISSIS#] ad impedire la protrazione degli effetti giuridici discendenti da un atto pubblicistico già assunto sulla base di sopravvenute ragioni di pubblico interesse, con conseguente integrazione degli estremi di un istituto giuridico – revoca provvedimentale – di portata generale (art. 21 quinques L. n. 241/90), ordinariamente impiegabile dalle Amministrazioni [#OMISSIS#] svolgimento della propria attività istituzionale.
Ne deriva che la violazione in cui è incorsa l’Amministrazione non poteva giustificarsi per la complessità della situazione fattuale, l’oscurità della normativa applicata o l’emersione di contrasti di giurisprudenza, derivando, invece, dall’inosservanza di disposizioni dal chiaro contenuto precettivo – attinenti alla comunicazione di avvio del procedimento e al dovere motivazionale -, operanti per qualsivoglia intervento di autotutela decisoria, discendenti dai principi del buon andamento e dell’imparzialità amministrativa, prescrittivi di canoni di comportamento suscettibili di imporsi a tutte le parti pubbliche nei rapporti con i privati amministrati.
In siffatte circostanza, l’illegittimità provvedimentale, foriera di un danno ingiusto, non potrebbe ritenersi scusabile, con conseguente integrazione, anche sul piano soggettivo, degli elementi costitutivi dell’illecito civile della pubblica amministrazione.
Non potrebbe argomentarsi diversamente neppure sulla base dell’emissione -nell’ambito del giudizio a quo, avente ad oggetto la legittimità dell’atto di revoca- di pronunce cautelari favorevoli alla parte pubblica, trattandosi di provvedimenti implicanti una cognizione sommaria, tendenti ad assicurare un bilanciamento dei contrapposti interessi per il solo tempo occorrente alla definizione del merito, tali, dunque, da non recare un accertamento sulla complessità delle questioni di diritto o di fatto esaminate suscettibile di rilevare in successivi giudizi, quale quello di specie.
8.9 Alla stregua delle considerazioni svolte, il secondo e il terzo motivo di appello devono essere accolti.
L’illegittima risoluzione anticipata dell’atto convenzionale che abilitava l’odierno ricorrente a proseguire la propria attività didattica e di studio presso un’Università diversa da quella di appartenenza, per un predefinito arco temporale, ha effettivamente causato un danno ingiusto, fonte di obbligazione risarcitoria in capo alla parte appellata, stante l’integrazione degli elementi costitutivi, sul piano oggettivo e soggettivo, dell’illecito civile della pubblica amministrazione.
9. Con il quarto motivo di appello la parte ricorrente ripropone la domanda risarcitoria, in relazione al quantum debeatur, indicando le poste di danno asseritamente riconducibili alla condotta amministrativa illegittima.
In particolare, in ordine al danno emergente, l’appellante chiede il risarcimento dei costi di trasferta sostenuti settimanalmente per raggiungere l’Università di Udine.
Si tratterebbe delle seguenti poste:
– spese di viaggio, quantificate, sulla base di un’indennità chilometrica di 0,42€/Km, in complessivi € 16.918,61 (tenuto conto della distanza chilometrica percorsa nei viaggi andata/ritorno Udine/[#OMISSIS#] effettuati nel biennio di durata residua della convenzione), oltre € 3.371,2 per spese di pedaggio autostradale; il ricorrente riferisce, al riguardo, di avere effettuato gli occorrenti spostamenti senza l’utilizzo dei mezzi pubblici;
– spese di alloggio, quantificate sulla base di un importo medio di € 80/notte, tenuto conto della permanenza di due notti a settimana nel corso del biennio di durata residua della convenzione; con la valorizzazione di complessivi € 13.760,00;
– spese di vitto, quantificate sulla base di € 30/pasto, per quattro pasti a settimana nel corso del biennio di durata residua della convenzione; con valorizzazione di € 10.320,00.
Con riferimento al lucro cessante, l’appellante chiede il risarcimento dei danni da mancata messa a disposizione di attrezzature hardware e software, quantificati in misura di € 1.000,00; nonché da mancata acquisizione di fondi di ricerca, quantificati in € 5.000,00.
9.1 Il motivo di appello è parzialmente fondato, nei limiti di seguito precisati.
9.2 Il principio generale dell’onere della prova previsto nell’art. 2697 c.c., si applica anche all’azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al [#OMISSIS#] amministrativo, con la conseguenza che spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria e quindi del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento danni manchi dalla prova del danno da risarcire, la stessa deve essere respinta(cfr., tra le tante, Consiglio di Stato Sez. VI, 15 febbraio 2021, n. 1354).
9.3 Nel [#OMISSIS#] di specie, devono ritenersi provati i soli danni correlati [#OMISSIS#] spostamenti di sede imposti dall’illecita condotta amministrativa.
Il doc. 7 prodotto dall’Amministrazione resistente in prime cure comprova che il docente ha svolto attività didattica in presenza presso l’Ateneo di Udine negli anni accademici 2015/16 e 2016/17, mentre il doc. 8 prodotto dalla stessa parte pubblica riconosce che il ricorrente è stato impegnato nei medesimi anni accademici in viaggi “andata e ritorno” con una permanenza presso l’Ateneo di Udine per un dato “numero di giorni”.
Risulta quindi documentato che, all’esito della risoluzione anticipata della convenzione, l’odierno ricorrente è stato costretto a rientrare presso l’Ateneo di appartenenza, sostenendo spese di viaggio, di vitto e di alloggio.
L’illecito ascritto all’Ateneo appellato, tradottosi [#OMISSIS#] revoca di una regolazione amministrativa che consentiva al ricorrente di permanere presso l’Ateneo di [#OMISSIS#] anche per gli anni accademici 2015/16 e 2016/17 (avendo la convenzione illegittimamente revocata efficacia quinquennale a partire dal 1.9.2012), ha dunque imposto all’appellante di prestare la propria attività lavorativa presso una sede diversa da quella prestabilita – in funzione della quale aveva pure orientato le proprie scelte di [#OMISSIS#] personali – con conseguente sostenimento di maggiori costi sia di trasporto (per recarsi ad Udine, partendo da [#OMISSIS#]), sia di alloggio e di vitto ([#OMISSIS#] i giorni di permanenza nel Comune di Udine) nel biennio [#OMISSIS#] il quale ha concretamente operato la revoca dell’atto convenzionale.
9.4 Provato l’an di tali spese, il Collegio, in ordine alla quantificazione dei maggiori costi sostenuti dal ricorrente, ritiene di esercitare il potere riconosciuto dall’art. 34, comma 4, c.p.a, tenuto conto pure della richiesta subordinata dell’Ateneo resistente di quantificare il danno subito dal Prof. -OMISSIS- in base [#OMISSIS#] effettivi giorni di presenza del docente presso l’Ateneo di Udine, alla stregua dei criteri di rimborso previsti dal regolamento “Attività fuori sede del personale” dell’Università di Udine, emanato con D.R. n. 748/1999.
Difatti, la parte ricorrente ha proposto la quantificazione del danno in applicazione di criteri, incentrati su un’indennità chilometrica, che non possono essere accolti.
9.5 Relativamente alla quantificazione dei costi di trasporto, attraverso l’applicazione di un’indennità chilometrica, il ricorrente quantifica un costo correlato all’utilizzo di un mezzo di trasporto privato, suscettibile di generare una spesa superiore rispetto a quella che altrimenti sarebbe emersa ricorrendo ai mezzi di trasporto pubblico (alla stregua della quantificazione operata dall’appellata a pag. 14 memoria conclusionale), avuto riguardo ai collegamenti ferroviari esistenti tra la città di Udine, presso cui il ricorrente ha svolto la propria attività per il periodo 2015/16 e 2016/17 (in conseguenza dell’illecita condotta amministrativa), e la città di [#OMISSIS#], dove il ricorrente sarebbe dovuto permanere fino alla scadenza della convenzione e dove è nei fatti rimasto nel relativo arco temporale (circostanza comunque confermata dal doc. 8 prodotto dall’Ateneo in prime cure, in cui si riconosce l’effettuazione di viaggi da parte del ricorrente).
Il [#OMISSIS#] costo discendente dall’utilizzo del mezzo proprio non può essere ascritto all’Amministrazione resistente, facendosi questione di decisioni imputabili all’odierno ricorrente, produttive di un danno non risarcibile ex art. 1227, comma 2, c.c.
Tale disposizione esprime un precetto, ostativo al riconoscimento delle conseguenze risarcitorie che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, da un lato, operante non soltanto [#OMISSIS#] materia della responsabilità da inadempimento, ma anche con riferimento alla responsabilità aquiliana, stante il rinvio operato a tale disposizione dall’art. 2056 c.c.; dall’altro, avente una sua specifica declinazione anche in sede amministrativa ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a., in forza del quale “nel determinare il risarcimento il [#OMISSIS#] valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
Anche l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio ha precisato che “l’obbligo di cooperazione di cui al comma 2 dell’art. 1227 ha fondamento proprio nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c. e, quindi, nel principio costituzionale di solidarietà” (Consiglio di Stato, Ad. Plen 23 marzo 2011, n. 3).
Per l’effetto, il Collegio ritiene di evitare una quantificazione del costo di trasporto generato da una scelta autonoma del danneggiato che, pur potendo avvalersi dei mezzi pubblici di trasporto con un costo inferiore, ha ritenuto di impiegare il proprio mezzo di trasporto.
Ne deriva che il costo di trasporto dovrà essere liquidato dall’Amministrazione resistente nel minore valore dato dal costo medio del biglietto di trasporto ferroviario per la tratta [#OMISSIS#]/Udine, moltiplicato per il numero di viaggi (andata/ritorno) che il docente ha effettuato [#OMISSIS#] il biennio 2015/16 e 2016/17 per lo svolgimento dell’attività lavorativa presso l’Ateneo di Udine.
A tale fine, posto che non emerge dagli atti del giudizio la prova dello specifico numero di giorni di presenza del ricorrente presso l’Ateneo di Udine nel biennio 2015/16 e 2016/17, non essendo comunque contestata la circostanza per cui l’appellante si è effettivamente recato presso l’Università di Udine per ivi svolgere attività professionale (il che è anzi confermato dal doc. 7 cit.), l’esatto numero di giorni di presenza deve essere determinato sulla base dei documenti amministrativi [#OMISSIS#] disponibilità dell’Amministrazione universitaria.
Pertanto, devono considerarsi i soli giorni in cui il prof, -OMISSIS- è stato presente presso l’Università di Udine nel biennio 2015/16 e 2016/17, per adempiere ai propri obblighi di servizio, come risultanti dai documenti amministrativi formati o detenuti dalla stessa Università degli Studi di Udine.
9.6 Con riferimento alle spese di vitto e alloggio, parimenti, può essere operata una quantificazione incentrata su un valore di costo medio.
In particolare, dovendo comunque presumersi l’esistenza dei costi per vitto e alloggio in ragione della documentata presenza del ricorrente presso una città (Udine) diversa da quella in cui aveva titolo di permanere e in cui effettivamente dimorava ([#OMISSIS#]), tali costi, resi necessari per effetto dell’illecito per cui è causa, possono quantificarsi in applicazione del criterio di calcolo indicato dalla parte appellata, incentrato sulla disciplina regolamentare approvata dall’Università di Udine e riguardante liquidazione delle spese per vitto e alloggio spettanti al personale docente in [#OMISSIS#] di svolgimento dell’attività lavorativa in luogo diverso rispetto alla sede ordinaria di servizio.
Difatti, facendosi questione di obbligazione risarcitoria gravante sull’Università di Udine, si ritiene ragionevole porre a base della quantificazione del danno la disciplina approvata (anziché da un’Università terza) dall’Ateneo debitore, costituente un utile parametro di calcolo ai fini della liquidazione delle conseguenze dannose per cui è causa.
Per l’effetto, tali spese, come fondatamente dedotto dalla parte appellata, andranno calcolate tenendo conto dell’“importo medio indicato nel citato Regolamento, integrato dalla deliberazione del C.d.A. dell’Università di Udine del 7.11.2014” (pag. 14 memoria conclusionale parte appellata), sulla cui base vengono valorizzati i valori medi di euro 30 a pasto ed euro 80 a notte: tali importi dovranno essere moltiplicati (rispettivamente) per il numero di pasti e pernottamenti da determinare in ragione degli effettivi giorni di presenza del ricorrente presso l’Ateneo di Udine, risultanti dai documenti amministrativi detenuti o formati dall’Università di Udine, presso cui l’appellante è stato illecitamente destinato nel biennio 2015/16 e 2016/17.
9.7 Con riferimento al danno da perdita di finanziamenti per fondi di ricerca, trattasi di posta risarcitoria non riconoscibile, in quanto non è provato in atti che l’appellante avrebbe con certezza o con serie e apprezzabili probabilità ottenuto l’affidamento di progetti di ricerca in assenza dell’illecito contestato all’Ateneo appellato.
Peraltro, i finanziamenti in ipotesi spettanti al ricorrente si sarebbero tradotti in risorse economiche da destinare allo svolgimento dell’attività di ricerca, non essendo deputate all’arricchimento del docente, sicché anche in [#OMISSIS#] di ottenimento del finanziamento, non vi sarebbe stato un incremento del patrimonio personale dell’appellante, ma soltanto la [#OMISSIS#] disponibilità di risorse da impiegare per il perseguimento di specifici obiettivi di ricerca, alla base dell’erogazione dei relativi fondi.
Non potrebbe neppure ritenersi che il docente abbia maturato un danno in ragione di costi effettivamente sostenuti a titolo personale, che altrimenti sarebbero stati finanziati attraverso i fondi per la ricerca in ipotesi perduti: difatti, da un lato, come osservato, la spettanza di tali fondi di ricerca non è comprovata in atti, dall’altro, non risulta che le spese sostenute dal ricorrente e richiamate nell’atto di appello siano correlate al suo illecito trasferimento a Udine per il biennio 2015/2016-2016/2017, non potendo, dunque, ritenersi causate dall’illecito per cui è causa.
Parimenti, non risultano provate le spese di [#OMISSIS#] della dotazione informatica (hardware e Software) e, comunque, non è dimostrato che i prodotti informatici de quibus siano stati impiegati, anziché per uso personale, per uso professionale, necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa richiesta in conseguenza dell’illecito ascritto all’odierno Ateneo appellato.
9.8 Alla stregua delle considerazioni svolte, il quarto motivo di appello merita accoglimento, [#OMISSIS#] sola parte in cui tende ad ottenere il risarcimento dei danni subiti a titolo di maggiori costi per trasporto, vitto e alloggio, effettivamente sostenuti dal ricorrente e correlati alla condotta illecita ascritta all’Ateneo appellato.
Ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., tali costi dovranno essere quantificati dall’Ateneo intimato, che provvederà a proporre al ricorrente entro il [#OMISSIS#] di novanta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza il pagamento di una somma pari:
– al costo medio del biglietto di trasporto ferroviario per la tratta [#OMISSIS#]-Udine, moltiplicato per il numero di viaggi (andata/ritorno) che il docente ha effettuato [#OMISSIS#] il biennio 2015/16 e 2016/17 per lo svolgimento dell’attività lavorativa presso l’Ateneo di Udine, avendo riguardo a tali fini ai soli giorni di presenza risultanti dai documenti amministrativi formati o detenuti dall’Università degli Studi di Udine;
– al costo di 30 euro per pasto e di 80 euro per pernottamento, da moltiplicare (rispettivamente) per il numero di pasti e pernottamenti determinati in ragione degli effettivi giorni di presenza del ricorrente presso l’Ateneo di Udine, risultanti dai documenti amministrativi formati o detenuti dall’Università degli Studi di Udine.
10. L’appello deve essere accolto ai sensi di quanto sopra indicato, con conseguente necessità di provvedere, in riforma della sentenza gravata, all’accoglimento del ricorso di primo grado nei predetti limiti.
11. L’accoglimento soltanto parziale della domanda risarcitoria giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, accoglie nei predetti limiti il ricorso di primo grado, ordinando all’Università degli Studi di Udine di proporre all’appellante, ai sensi dell’art. 34, comma 4, Cod. proc. amm., entro il [#OMISSIS#] di novanta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, il pagamento di una somma a titolo risarcitorio secondo i criteri e le modalità pure indicati in motivazione.
Compensa interamente tra le parti le spese processuali del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti processuali o le persone comunque richiamate [#OMISSIS#] presente sentenza.
Così deciso in Roma [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di consiglio del giorno 17 giugno 2021 con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#]
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] De [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore