Applicazione dei principi espressi dalla sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 20 dicembre 2017, n. 12, la quale ha: a) escluso la possibilità di sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.; b) escluso di poter rinviare la definizione del giudizio di revocazione, posto al suo esame, ad una data successiva alla pronuncia della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite con la citata ordinanza n. 6891 del 2016, poiché l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 69, comma 7, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, non inciderebbe sul giudicato antecedentemente formatosi con la sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 22 febbraio 2007, n. 4; c) dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione, affermando che, “all’esito della decisione della Corte Costituzionale n. 123 del 26 maggio 2017 – che ha esplorato tutti i possibili argomenti posti a sostegno della dedotta questione ed alla cui completa esposizione nulla ritiene questa Adunanza Plenaria di dovere aggiungere – è evidente che il ricorso per revocazione (il cui petitum per la eventuale fase rescissoria, era quello postulante la reiezione degli appelli proposti dalle amministrazioni e, per l’effetto, la conferma delle sentenze di prime cure impugnate e la corresponsione agli odierni ricorrenti del pagamento della contribuzione previdenziale e dell’indennità di fine rapporto) deve essere dichiarato inammissibile, in quanto risulta essere stato proposto per una ipotesi non contemplata dall’ordinamento giuridico, ed è noto che per la costante giurisprudenza civile ed amministrativa, “attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi”.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 5 marzo 2018, n. 1361
Personale azienda ospedaliera-Attività assistenziale-Retribuzione-Applicazione principi Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 20 dicembre 2017, n. 12
N. 01361/2018 REG.PROV.COLL.
N. 05354/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso per revocazione n. 5354 del 2014, proposto dal signor [#OMISSIS#] Baldo, rappresentato e difeso dall’avvocato [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] in Roma, via Sicilia, n. 50;
contro
– l’Università degli Studi di Napoli “[#OMISSIS#] II”, in persona del Rettore pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Angelo Abignente, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma, piazza Benedetto Cairoli, n. 2;
– l’Istituto nazionale della previdenza sociale-INPS (gestione ex INPDAP), in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati [#OMISSIS#] Marinuzzi e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] dell’Avvocatura dell’Istituto ed elettivamente domiciliato in Roma, Via [#OMISSIS#] Beccaria, n. 29;
– l’Azienda ospedaliero universitaria “[#OMISSIS#] II” di Napoli, in persona del rappresentante legale pro tempore, non costituito in giudizio;
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 aprile 2008, n. 1796.
Visti il ricorso per revocazione e i relativi allegati;
Visto gli atti di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Napoli “[#OMISSIS#] II” e dell’INPS e i documenti prodotti;
Esaminate le memorie difensive e visti gli ulteriori atti depositati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 novembre 2017 il Cons. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti gli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Angelo Abignente e [#OMISSIS#] Marinuzzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – La parte ricorrente riferisce che:
ha svolto, nel periodo tra il 1983 e il 1997, funzioni assistenziali presso il Policlinico dell’Università degli Studi di Napoli “[#OMISSIS#] II” in esecuzione di contratti a termine aventi ad oggetto l’esplicazione di una attività medico-professionale remunerata “a gettone”.
tale attività medico professionale è stata svolta anche da altri colleghi che nel corso degli anni avevano chiesto tutela giudiziale dinanzi al giudice amministrativo al fine di veder accertare lo svolgimento di un rapporto di lavoro dipendente e quindi la spettanza del diritto al versamento dei relativi contributi previdenziali e assistenziali;
alcuni ricorsi dei ‘medici gettonati’ hanno avuto un esito favorevole sia in primo grado che in sede di appello, tanto che l’Università, in sede di ottemperanza, ha versato i contributi previdenziali in loro favore;
successivamente al 15 dicembre 2000, per analoghe ragioni la parte odierna ricorrente in sede di revocazione ha proposto un ricorso al TAR per la Campania, Sede di Napoli, che è stato accolto con una sentenza che è stata però riformata da questa Sezione (con la sentenza n. 1796 del 2008), la quale – in accoglimento dell’appello dell’Amministrazione soccombente – ha dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, in applicazione dell’art. 69 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
2. Ciò premesso, la parte odierna ricorrente si duole della circostanza che la sentenza n. 1796 del 2008 di questa Sezione, qui impugnata per revocazione, non ha esaminato la fondatezza o meno della domanda proposta, ma ha applicato il sopra richiamato art. 69 del d.lgs n. 165 del 2001, dichiarando, dunque, inammissibile il ricorso proposto in primo grado.
Riferisce ancora la parte oggi ricorrente che:
– la sentenza di questa Sezione n. 1796 del 2008 si è attenuta al principio giuridico enunciato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 22 settembre 2007, n. 4;
– tale sentenza dell’Adunanza Plenaria è stata sottoposta all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo, che, con la sentenza del 4 febbraio 2014, ha dichiarato che lo Stato italiano ha violato l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, allorquando ha fatto applicazione del citato art. 69 d.lgs. 165/2001, interpretandolo nel senso che per i ricorsi in materia di pubblico impiego – inerenti a questioni antecedenti rispetto al luglio 1998, ma proposti successivamente alla “data fatale” del 15 settembre 2000 –vi è una preclusione processuale per l’esame della domanda degli interessati.
La odierna parte ricorrente ha dunque proposto la domanda di revocazione della sentenza con cui questa Sezione ha dichiarato inammissibile il suo ricorso di primo grado (proposto per ottenere il riconoscimento ab origine dell’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente con l’Università, per far affermare che la qualificazione di “attività professionale” dissimulava un rapporto di lavoro subordinato e per ottenere il riconoscimento del diritto al versamento dei relativi contributi previdenziali).
3. – Si sono costituiti in giudizio l’Università degli Studi di Napoli “[#OMISSIS#] II” e l’INPS (gestione ex INPDAP), contestando le avverse prospettazioni ed eccependo l’inammissibilità del ricorso per revocazione.
Non si è costituita in giudizio l’Azienda ospedaliera universitaria di Napoli “[#OMISSIS#] II”.
Le parti hanno quindi presentato memorie ulteriori, ribadendo le già precisate conclusioni.
All’udienza del 30 novembre 2017, all’esito della discussione, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
4. – Ritiene la Sezione che il ricorso per revocazione vada dichiarato inammissibile, poiché va fatta applicazione dei principi enunciati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 20 dicembre 2017 n. 12.
Con questa sentenza, l’Adunanza plenaria – con riferimento al ricorso per revocazione proposto nei confronti della citata sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2017, in virtù degli esiti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di data 4 febbraio 2014 – ha espresso principi che si attagliano al caso in esame.
Pur se la sentenza dell’Adunanza plenaria è stata depositata dopo la discussione della questione relativa all’odierno ricorso per revocazione e successivamente al suo trattenimento in decisione, di essa si può tenere conto in questa sede, poiché le parti innanzitutto nei loro scritti difensivi ripetutamente hanno formulato le loro più ampie difese e considerazioni sulle questioni giuridiche già sottoposte all’esame dell’Adunanza plenaria, e inoltre poiché anche nel corso della discussione finale si è sottolineato come l’esito del presente giudizio non poteva che essere coerente con le statuizioni che – sia pure con riferimento a posizioni giuridiche non coincidenti a quelle ora in esame – avrebbe reso proprio l’Adunanza plenaria (sicché le parti neppure hanno chiesto un differimento della discussione, ad una data successiva al deposito della sua sentenza).
Ciò posto, ai fini del corretto inquadramento della odierna vicenda contenziosa, va preliminarmente riferito quanto segue, tenendo conto anche della ricostruzione delle questioni, come effettuata dalla Adunanza plenaria.
Con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, il legislatore delegato ha stabilito che a far data dal 1° luglio 1998 le controversie in materia di “pubblico impiego”, che fino a quella data erano rimesse alla cognizione, in sede di giurisdizione esclusiva, del giudice amministrativo, fossero attribuite all’Autorità giudiziaria ordinaria in funzione di Giudice del lavoro.
Tale disposizione, in ordine alla giurisdizione, è poi stata trasfusa nell’art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Per il periodo transitorio e con riferimento alle questioni relative al pubblico impiego “privatizzato” o (rectius) “contrattualizzato”, sorte in epoca antecedente al 1° luglio 1998, l’art. 45, comma 17, d.lgs. 80/1998 (poi trasfuso nell’art. 69, comma 7, d.lgs. 165/2001) ha disposto che “le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”. Pertanto, con la surriprodotta disposizione legislativa veniva mantenuta in capo al giudice amministrativo la giurisdizione (esclusiva) in ordine alle controversie relative al periodo in cui il rapporto di lavoro c.d. pubblico aveva ancora carattere pubblicistico (cioé fino al 30 giugno 1998), subordinando la proponibilità del ricorso giurisdizionale al termine decadenziale del 15 settembre 2000.
La disciplina del periodo di transizione tra il precedente ed il nuovo rapporto di pubblico impiego, con riferimento alla distribuzione tra i due plessi giurisdizionali delle controversie attinenti all’ormai superato rapporto di impiego pubblicistico, si limitava a quanto sopra richiamato e dunque non stabiliva nessuna regola per le controversie che, seppure riferibili al periodo antecedente rispetto al 30 giugno 1998, fossero state introdotte dopo il 15 settembre 2000, non avendo il legislatore delegato dettato alcuna circa la sorte delle controversie proposte successivamente a tale data.
5. – In siffatto contesto normativo, un primo orientamento giurisprudenziale aveva ritenuto che le controversie inerenti a questioni attinenti il periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30 giugno 1998 potevano essere sottoposte all’esame del giudice civile, in funzione di giudice del lavoro, dopo il 15 settembre 2000.
5.1 – Successivamente si è formato un consolidato orientamento giurisprudenziale (al punto da costituire autentico ‘diritto vivente’), in virtù del quale la Corte costituzionale (cfr. Corte cost., ord. 11 maggio 2006, n. 197; ord. 7 ottobre 2005, n. 382; ord. 26 maggio 2005, n. 213, e ord. 6 luglio 2004, n. 214), le Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr., per tutte, Sez. un., 29 maggio 2012, n. 8520), la Corte di cassazione Sezione lavoro (cfr. ord. 30 settembre 2014, n. 20566), l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. Ad. plen., 21 febbraio 2007, n. 4) nonché le Sezioni di questo Consiglio (cfr., ad esempio, Cons. Stato, Sez. III, 11 luglio 2014, n. 3584), hanno affermato costantemente che il termine previsto dall’art. 69, comma 7, d.lgs. 165/2001 (in precedenza art. 45, comma 17, d.lgs. 80/1998), rilevante per l’esame di domande attinenti al periodo anteriore al 30 giugno 1998 e proposte dopo il termine del 15 settembre 2000, non ha natura processuale, ma di decadenza sostanziale.
In considerazione del sopra richiamato orientamento della Corte Costituzionale, è risultata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, citato, nella parte in cui ha stabilito il termine di decadenza del 15 settembre 2000 per la proposizione, davanti al giudice amministrativo, delle controversie riguardanti rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (con esclusione dei rapporti “non privatizzati”), se relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla data del 30 giugno 1998, in riferimento agli art. 3, 24 e 36 Cost.
Le sopra richiamate sentenze delle Sezioni unite e del Consiglio di Stato hanno ritenuto che il riferimento alla data del 15 settembre 2000 va inteso come richiamo ad un termine di decadenza per la proponibilità della domanda giudiziale e non come un limite temporale della persistenza della giurisdizione amministrativa.
In particolare, le Sezioni unite hanno affermato che la indicata previsione di decadenza segna, infatti, il limite assoluto di proponibilità della domanda, con conseguente difetto assoluto di giurisdizione (sia del giudice amministrativo che del giudice civile) per le domande proposte dopo tale data, disciplina, questa, che non può considerarsi irragionevole in considerazione del suo carattere transitorio, volto a regolare il passaggio del contenzioso del c.d. pubblico impiego dal giudice amministrativo a quello civile, evitando che quest’ultimo decida controversie non recenti (cfr. Cass., Sez. un., 12 marzo 2004, n. 5184).
5.2 – La sentenza dell’Adunanza plenaria n. 4 del 2007 non ha invece considerato attendibili le osservazioni svolte da questa Sezione con l’ordinanza n. 2729 del 2006 (v il § 5.8.), per la quale si sarebbe potuta escludere nella specie la rilevanza dell’art. 69, comma 7, del d.lgs n. 165 del 2001 (in ragione della indubitabile assenza di un rapporto di pubblico impiego in senso tecnico tra l’Amministrazione ed i c.d. medici gettonati) e, di conseguenza, si sarebbe potuta affermare “la possibilità per gli interessati di far valere le loro pretese innanzi al giudice del lavoro” (in coerenza con i principi di effettività e di indefettibilità della tutela giurisdizionale), pur se le domande erano state proposte dopo il 15 settembre 2000.
6. – Sennonché, nel 2014, la Corte EDU con due sentenze (4 febbraio 2014, Staibano c. Italia e Mottola c. Italia, divenute definitive il 4 maggio 2014) ha accolto il ricorso di alcuni c.d. medici gettonati, risultati soccombenti con la sopra citata sentenza dell’Adunanza plenaria n. 4 del 2017 ed i cui ricorsi di primo grado (proposti innanzi al TAR per la Campania) sono stati dichiarati irricevibili, perché proposti oltre il termine del 15 settembre 2000.
Con tali sentenze, la Corte di Strasburgo:
a) ha riconosciuto che l’art. 69, comma 7, citato, pur perseguendo la legittima e condivisibile finalità di effettuare una ripartizione di competenze tra il giudice civile e il giudice amministrativo, nonché di porre dei limiti temporali certi per incardinare le controversie in materia di pubblico impiego, ha violato il “diritto di accesso a una Corte”, di cui all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ove, in ragione della pluralità di interpretazioni contrastanti tra loro di cui è stato oggetto, nella sostanza ha limitato la tutela giurisdizionale dei soggetti che in buona fede abbiano adìto un tribunale incompetente e non possano poi trasporre il giudizio presso l’autorità giudiziaria competente;
b) nel constatare come il regime transitorio in materia di riparto della giurisdizione si sia prestato a diverse interpretazioni, ha dichiarato sussistente la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul diritto ad un processo equo, avendo riconosciuto che i ricorrenti erano stati privati della possibilità di presentare ricorso al giudice competente;
c) ha altresì rilevato la violazione dell’art. 1, prot. n. 1, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avendo qualificato la legittima aspettativa al trattamento previdenziale dei ricorrenti quale bene patrimoniale da tutelare, non avendo lo Stato italiano realizzato il giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in conflitto;
d) ha stabilito che costituisce una violazione dell’art. 1, prot. n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’interpretazione dell’art. 69 d.lgs. 165/2001, nella parte in cui, disponendo che il superamento del termine del 15 settembre 2000 per adire il giudice amministrativo per le controversie in materia di pubblico impiego anteriori al 30 giugno 1998 comporti la definitiva perdita del diritto dei soggetti a far valere i propri diritti in materia pensionistica, non consente di trasporre il giudizio presso l’altro ufficio giudiziario.
Relativamente invece alla domanda di “equa soddisfazione” formulata dai ricorrenti ai sensi dell’art. 41 della Carta CEDU, la Corte europea non si è pronunciata, ritenendo “che allo stato attuale non vi sia luogo per decidere sull’applicazione dell’art. 41. Di conseguenza, si riserva la decisione e fisserà l’ulteriore procedimento tenuto conto della possibilità che il Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo”.
7. Dopo il deposito delle sopra richiamate sentenze della Corte di Strasburgo:
– con l’ordinanza n. 2 del 2015 l’Adunanza plenaria di questo Consiglio ha sollevato questioni di costituzionalità, decise dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 123 del 2017;
– le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno sollevato altre questioni di costituzionalità, decise dalla Corte Costituzionale con la sentenza 18 gennaio 2018, n. 6.
8. Infatti, dopo le citate sentenze della Corte di Strasburgo, i ‘medici gettonati’ – risultati soccombenti con le sentenze del Consiglio di Stato – hanno proposto ricorsi, volti a far riaffermare innanzi ai giudici nazionali i principi enunciati dalla CEDU, sia pure tramite una previa dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione che ha fissato il termine di decadenza alla data del 15 settembre 2000, per chiedere tutela giurisdizionale.
8.1. I medici risultati vittoriosi davanti alla Corte di Strasburgo hanno impugnato per revocazione la decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 2007, che ha comportato la loro soccombenza innanzi al giudice nazionale.
Con l’ordinanza 4 marzo 2015, n. 2, l’Adunanza Plenaria:
a) ha ritenuto che il giudice amministrativo, così come quello ordinario, non può disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, poiché sulle norme interne contrastanti con le norme pattizie internazionali, ivi compresa la Cedu, spetta esclusivamente alla Corte costituzionale il ‘sindacato accentrato di costituzionalità’;
b) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c., in relazione agli artt. 117, primo comma, 111 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono un ulteriore caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46 par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.
8.2 – A loro volta, alcuni ‘medici gettonati’ – soccombenti nel giudizio conclusosi con la sentenza di questa Sezione n. 4001 del 2013, con cui erano stati dichiarati inammissibili i ricorsi di primo grado, in coerenza con le statuizioni della sentenza n. 4 del 2007 della Adunanza Plenaria – hanno impugnato innanzi alle Sezioni Unite la medesima sentenza n. 4001 del 2013, prospettando che con questa si sarebbe concretato un ‘diniego di tutela’, contrastante con il diritto alla tutela giurisdizionale riconosciuto dall’art. 6 della Convenzione, come tale sanzionabile dinanzi alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 362, primo comma, c.p.c.
Con l’ordinanza 8 aprile 2016, n. 6891, le Sezioni unite hanno considerato tempestivo il ricorso per cassazione e – per le ragioni processuali e sostanziali ivi esposte – hanno ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, d.lgs. 165/2001, per contrasto con l’art. 6 della Convenzione, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo.
9. – La Corte costituzionale, con la sentenza 26 maggio 2017, n. 123, ha dapprima deciso le questioni sollevate dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 2 del 2015.
9.1. – Con tale sentenza n. 123 del 2017, la Corte ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 c.p.c., con riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, ed ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dei medesimi articoli, con riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, rilevando che:
a) nei processi civili e amministrativi non è in discussione la libertà personale;
b) nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo;
c) la decisione di prevedere la riapertura del processo è rimessa agli Stati contraenti i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in conflitto (fra cui la certezza dei rapporti giuridici e l’affidamento dei consociati);
d) allo stato non esiste, in seno alla Convenzione, una larga maggioranza di Stati membri che abbia scelto la soluzione della riapertura dei processi civili o amministrativi.
9.2 – Dopo il deposito della sentenza della Corte Costituzionale n. 123 del 2017, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 12 del 2017:
a) ha escluso la possibilità di sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.;
b) ha escluso di poter rinviare la definizione del giudizio di revocazione, posto al suo esame, ad una data successiva alla pronuncia della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite con la citata ordinanza n. 6891 del 2016, poiché l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 69, comma 7, d.lgs. 165/2001, non inciderebbe sul giudicato antecedentemente formatosi con la sentenza della Adunanza Plenaria n. 4 del 2007;
c) ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione, affermando che, “all’esito della decisione della Corte Costituzionale n. 123 del 26 maggio 2017 – che ha esplorato tutti i possibili argomenti posti a sostegno della dedotta questione ed alla cui completa esposizione nulla ritiene questa Adunanza Plenaria di dovere aggiungere – è evidente che il ricorso per revocazione (il cui petitum per la eventuale fase rescissoria, era quello postulante la reiezione degli appelli proposti dalle amministrazioni e, per l’effetto, la conferma delle sentenze di prime cure impugnate e la corresponsione agli odierni ricorrenti del pagamento della contribuzione previdenziale e dell’indennità di fine rapporto) deve essere dichiarato inammissibile, in quanto risulta essere stato proposto per una ipotesi non contemplata dall’ordinamento giuridico, ed è noto che per la [#OMISSIS#] giurisprudenza civile ed amministrativa, “attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi”.
10. Con la successiva sentenza n. 6 del 2018, la Corte Costituzionale si è poi pronunciata sulle questioni sollevate dalle Sezioni unite con l’ordinanza n. 6891 del 2016, dichiarandole inammissibili, per “mancanza di legittimazione del giudice a quo”, dal momento che la Corte di Cassazione non può sindacare la sentenza del Consiglio di Stato che “adotti una interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda”.
Da ultimo, per completezza, la Corte costituzionale, con l’ordinanza 2 febbraio 2018, n. 19, si è nuovamente pronunciata in merito alla possibilità di considerare ammissibile, in via interpretativa, l’ampliamento dei casi di revocazione, con riferimento all’art. 106 c.p.a. ed agli artt. 395 e 396 c.p.c., sollevata in relazione agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, dichiarando inammissibile la questione.
11. – Tenuto conto di tutto quanto si è fin qui esposto, risulta la sostanziale sovrapposizione delle questioni poste a base della domanda revocatoria proposta dalla parte ricorrente, rispetto a quelle decise dapprima dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 123 del 2017 e poi dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 12 del 2017.
11.1 – Infatti, la odierna parte ricorrente ha dedotto che:
– la domanda di revocazione sia ammissibile e che in subordine siano sollevate questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 106 del c.p.a. e degli artt. 395 e 396 del c.p.c., per violazione degli artt. 111 e 117 Cost., nella parte in cui non prevedono che si possa disporre la revocazione della sentenza quando essa contrasti con una disposizione della CEDU, per come interpretata dalla Corte di Strasburgo;
– in sede rescissoria, previa applicazione dell’art. 69, comma 7, d.lgs. 165/2001 in senso conforme alla Convenzione, sia riaffermata la sussistenza della giurisdizione amministrativa e sia confermata l’originaria sentenza del T.A.R. per la Campania, di accoglimento delle pretese previdenziali dei c.d. medici gettonati.
11.2 – Ritiene la Sezione che tali domande vadano dichiarate inammissibili, per le medesime ragioni esposte dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 12 del 2017.
Questa ha preso in considerazione ed analiticamente scrutinato – respingendole – tutte le argomentazioni poste anche a base del ricorso qui in esame ed ha concluso nel senso di non riproporre ulteriori questioni di costituzionalità, in considerazione delle ampie e preclusive affermazioni di principio poste a base della sentenza della Corte costituzionale n. 123 del 2017 (che ha rilevato la infondatezza delle questioni sollevate con l’ordinanza della Adunanza plenaria n. 2 del 2015, peraltro pienamente sovrapponibili a quelle proposte nel presente giudizio di revocazione).
Ne consegue che il ricorso – poiché si basa su ragioni giuridiche che non sono prese in considerazione dall’art. 106 del c.p.a. e dagli articoli 395 e 396 del c.p.c., che non si possono interpretare analogicamente – va dichiarato inammissibile.
12. – Per di più, va rilevato che il presente giudizio è stato proposto da chi non è risultato vittorioso innanzi alla CEDU con le sentenze del 2014, e cioè da un soggetto interessato che, a suo tempo, non si è avvalso del rimedio di tutela previsto dalla Convenzione, dopo il deposito della sentenza resa in sede di appello dal Consiglio di Stato.
Come ha osservato la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 123 del 2017 (al § 8), vi è «una radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale».
Sotto tale profilo, non è neppure prospettabile un contrasto tra “giudicati”, il che costituisce una ragione dirimente per ritenere insussistenti – anche in sede interpretativa – i presupposti per l’applicazione dell’art. 106 del c.p.a. e degli articoli 395 e 396 del c.p.c.
Le questioni di legittimità costituzionale segnalate nel ricorso, in considerazione della sopra richiamata giurisprudenza costituzionale, in questa sede vanno dichiarate manifestamente infondate.
13. – Proprio perché l’odierna parte ricorrente non ha ottenuto una sentenza per sé favorevole della Corte di Strasburgo, non rileva in questa sede la diversa e delicata questione dei rimedi di tutela spettanti – sulla base dell’ordinamento nazionale – a chi abbia ottenuto una sentenza favorevole della Corte di Strasburgo.
Di conseguenza, neppure rileva in questa sede esaminare quale rilievo vada attribuito alla posizione processuale della parte vittoriosa nel giudizio di cognizione innanzi al giudice amministrativo, ma che non sia risultata parte anche nel giudizio deciso in senso diverso dalla Corte di Strasburgo.
14. – In ragione delle suesposte osservazioni, il ricorso per revocazione va dichiarato inammissibile.
Per la peculiarità delle questioni trattate, ritiene il Collegio che sussistano i presupposti indicati dall’art. 92 del c.p.c., richiamato dall’art. 26, comma 1, del c.p.a, per compensare le spese del presente giudizio nei confronti di tutte le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) dichiara inammissibile il ricorso per revocazione n. 5354 del 2014.
Spese compensate del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2017, con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Presidente
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] Mele, Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
Pubblicato il 05/03/2018