L’art. 53, comma 7. D.lgs. 165/2001 nella prima parte dispone che: “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto.”.
Laddove l’attività realmente svolta ecceda i limiti dell’autorizzazione prevista dalla norma appena riportata, il recupero delle somme erogate in favore del dipendente in favore dell’Università è la ovvia conseguenza indicata dalla seconda parte del comma 7.
TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 29 luglio 2019, n. 205
Ricercatore-Incompatibilità
N. 00205/2019 REG.PROV.COLL.
N. 00264/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la [#OMISSIS#] Romagna
sezione staccata di Parma (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 264 del 2013, integrato da motivi aggiunti, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’Avvocatessa [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio eletto presso l’Avvocatessa [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], in Parma, borgo [#OMISSIS#] Tommasini n. 20;
contro
Università degli Studi di Parma, in persona del Legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato presso la quale è domiciliata, in [#OMISSIS#], via [#OMISSIS#] Reni n. 4;
per l’annullamento
richiesto con il ricorso introduttivo:
della nota dell’Università degli Studi di Parma n. 25529 del 2 agosto 2013;
della nota dell’Università degli Studi di Parma n. 18626 del 6 giugno 2013;
del provvedimento di diniego dell’istanza di autorizzazione ora per allora presentata dal ricorrente in data 27 novembre 2012;
della eventuale deliberazione o valutazione negativa adottata dalla Commissione per l’autorizzazione degli incarichi extralavorativi;
della eventuale deliberazione o valutazione adottata dall’Ispettorato della Funzione Pubblica alla quale l’Università ha conferito mandato per lo svolgimento delle attività necessarie all’esatta definizione del credito vantato nei confronti del ricorrente;
nonché, per l’annullamento, richiesto con motivi aggiunti:
della nota dell’Università degli Studi di Parma n. 29462 del 26 settembre 2013;
della nota dell’Università degli Studi di Parma n. 27834 del 10 settembre 2013;
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Parma;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 luglio 2019 il dott. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con atti del 28 novembre 2012, 6 febbraio 2013 e 2 luglio 2013, il ricorrente, Professore ordinario in regime di tempo pieno, presentava all’Università di Parma istanza di autorizzazione in sanatoria in relazione ad una pluralità di incarichi professionali svolti negli anni 2007-2012.
In sede istruttoria l’Università procedeva all’acquisizione del parere reso dal Collegio degli Esperti allo scopo nominato e in coerenza con la posizione in quella sede espressa, con D.R. del 4 giugno 2013, riteneva di dover avviare in via cautelativa il procedimento di recupero dei compensi percepiti in relazione [#OMISSIS#] incarichi svolti dal ricorrente in favore della BANCA MONTE S.p.A., del GRUPPO PARMACOTTO (anni 2007-2009), della TECFRIGO S.p.A. e COLD MASTER S.p.A., conferendo mandato ex art. 53, comma 7, del D. Lgs. n. 165/2001 all’Ispettorato della Funzione Pubblica per le attività di quantificazione dei relativi crediti e riservandosi le valutazioni relative [#OMISSIS#] altri incarichi oggetto di analoga richiesta di autorizzazione in sanatoria.
Con atto del 6 giugno 2013 l’Università comunicava al ricorrente l’avvio del procedimento finalizzato al recupero ex art. 53, comma 7, del D. Lgs. n. 165/2001 dei compensi percepiti per n. 3 “incarichi extralavorativi svolti, in regime di impegno a tempo pieno, in assenza di preventiva autorizzazione” nel periodo 2007-2011 (TECFRIGO, GRUPPO PARMACOTTO – primo periodo – e BANCA MONTE).
Con successivo D.R. del 31 luglio 2013, valutati, altresì, i contenuti dei pareri espressi dall’Avvocatura dello Stato il 9 luglio 2013 e dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 18 giugno 2013 (riferiti alla posizione di altro docente ma relativi alla medesima questione), tutti sfavorevoli all’autorizzazione a posteriori degli incarichi extralavorativi, l’Università respingeva le istanze di autorizzazione in sanatoria del ricorrente relativamente [#OMISSIS#] incarichi svolti presso GRUPPO PIZZAROTTI E C. S.p.A., GRUPPO SIDEL, GRUPPO BARILLA S.p.A., [#OMISSIS#] S.p.A., FIERE DI PARMA S.p.A., CER.VE, S.p.A. e GRUPPO PARMACOTTO (anni 2010 e 2011) attivando nuovamente l’Ispettorato della Funzione Pubblica per gli adempimenti del [#OMISSIS#].
Con atto del 2 agosto 2013 l’Università comunicava al ricorrente l’avvio del procedimento di recupero relativamente [#OMISSIS#] ulteriori incarichi (GRUPPO PIZZAROTTI, GRUPPO SIDEL, GRUPPO BARILLA, [#OMISSIS#], FIERE DI PARMA, CER.VE, PARMACOTTO – secondo periodo).
Con nota del 10 settembre 2013, il Dipartimento della Funzione Pubblica trasmetteva all’Università la relazione del Nucleo Speciale Pubblica Amministrazione della [#OMISSIS#] di Finanza che quantificava l’importo oggetto di recupero in € 1.531.604,29, cui seguiva il D.R. del 24 settembre 2013 con il quale l’Università procedeva al recupero del credito nei precisati termini.
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio, notificato il 19 settembre 2013, il ricorrente impugnava le due citate comunicazioni unitamente al “provvedimento tacito di diniego di autorizzazione ora per allora” presentata in data 27 novembre 2012 deducendo una pluralità di [#OMISSIS#] di illegittimità.
Con nota del 26 settembre 2013, che richiamava la citata comunicazione dell’Ispettorato per la Funzione Pubblica del 10 settembre precedente (contenente l’elenco degli incarichi svolti in regime di impegno a tempo pieno, dei compensi percepiti e gli importi da recuperare), l’Università comunicava al ricorrente l’avvio del procedimento per il recupero di € 1.531.604,29.
Con ricorso per motivi aggiunti notificato il 23 novembre 2013, il ricorrente impugnava la sopravvenuta comunicazione di avvio del 26 settembre, unitamente la citata nota dell’Ispettorato centrale [#OMISSIS#] stessa richiamata, deducendone l’illegittimità tanto in via derivata (estendendo, quindi, le medesime censure [#OMISSIS#] atti da [#OMISSIS#] gravati – 13° motivo) quanto per vizi propri.
In assenza di difese da parte dell’intimata Amministrazione (che si costituiva in giudizio con sola memoria formale del 22 novembre 2013, preceduta da deposito documentale del 15 novembre 2013), con ordinanza presidenziale n. 207 del 19 agosto 2016, veniva alla stessa richiesta “una relazione di chiarimenti [#OMISSIS#] quale, [#OMISSIS#] i fatti di causa (con la relativa documentazione) sia precisato se, successivamente all’adozione dell’atto qui impugnato, siano stati adottati ulteriori provvedimenti o sia mutata la situazione di fatto e di diritto (anche al fine di verificare l’effettiva permanenza dell’interesse alla decisione)”
Con atto dell’11 ottobre 2016 l’Università depositava una succinta relazione (n. 1 pagina), priva di sottoscrizione con la quale, richiamata l’epigrafe dei ricorsi, introduttivo e per motivi aggiunti, proposti dal ricorrente, si limitava a rappresentare il mancato versamento da parte del ricorrente delle somme richieste nel [#OMISSIS#] assegnato e la conseguente “dovuta” segnalazione dell’inadempimento alla Procura Regionale presso la Corte dei Conti, senza formulare, anche in questo [#OMISSIS#], alcuna difesa.
Con memoria depositata l’8 marzo 2019, preceduta (28 febbraio 2016) dal deposito del verbale amministrativo del Nucleo Polizia Tributaria della [#OMISSIS#] di Finanza di Parma del 4 aprile 2013, il ricorrente rassegnava le proprie conclusioni in vista della discussione di merito del ricorso.
All’esito della pubblica udienza del 10 aprile 2019, con ordinanza n. 101/2019, rilevato che la vicenda all’esame del Collegio risultava essere stata oggetto di un giudizio definito innanzi alla Sezione Giurisdizionale Regionale per l’Emila Romagna della Corte dei Conti con sentenza n. 33/19 R (depositata dalla difesa erariale in data 4 aprile u.s. ma i cui contenuti, come dichiarato in udienza, non erano conosciuti dalla difesa del ricorrente), la causa veniva rinviata onde consentire alle parti di integrare le proprie difese alla luce della richiamata sopravvenienza, rendendosi “necessario un approfondimento circa la sussistenza di un interesse residuo alla definizione del presente giudizio nel rispetto del principio del ne bis in idem”.
In data 15 [#OMISSIS#] 2019 l’Università depositava una relazione difensiva, con allegata relazione tecnica dell’Area Risorse Umane, sviluppando le proprie tesi con memoria depositata 27 [#OMISSIS#] successivo.
Il ricorrente depositava in data 30 [#OMISSIS#] 2019 una rassegna giurisprudenziale e il successivo 10 giugno la propria memoria conclusionale.
All’esito della pubblicava udienza dell’11 luglio 2019, la causa veniva decisa.
Preliminarmente si rileva che il ricorrente, circa il rapporto fra il presente giudizio e quello definito con la citata sentenza della Corte dei Conti n. 22/2019, sotto un primo profilo rappresenta che detta pronunzia è oggetto di appello pendente innanzi alla Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello.
Sotto altro profilo, che l’interesse alla presente decisione, autonomo rispetto a quello fatto valere innanzi alla Corte dei Conti, attiene al riconoscimento della legittimità dell’autorizzazione “ora per allora” allo svolgimento degli incarichi extralavorativi in ambito privato.
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione dell’art. 10 bis della L. n. 241/1990 per omessa comunicazione del preavviso di diniego in ordine alla propria istanza di autorizzazione “ora per allora”.
Il motivo è infondato.
A tacere del fatto che, come si argomenterà in sede di scrutinio dei successivi motivi di ricorso, la mancata concessione dell’autorizzazione ora per allora è coerente con quanto disposto dall’art. 53, comma 7, del D. Lgs. n. 165/2001, a [#OMISSIS#] del quale “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza”, con conseguente applicabilità dell’art. 21 octies della L. n. 241/1990 ove dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, nel [#OMISSIS#] di specie non è ravvisabile alcuna lesione dei diritti partecipativi dell’interessato.
Il ricorrente, infatti, veniva posto in condizione di interloquire con l’Università a seguito della citata comunicazione di avvio “ex legge 241/1990” del procedimento teso al recupero delle somme datata 6 giugno 2013, preceduta da analoga nota del 4 giugno 2013 “ex art. 10 Legge n. 240/2010”, con la quale l’Università lo convocava per il giorno 18 successivo “per una prima audizione personale, [#OMISSIS#] quale potrà produrre memorie e/o farsi assistere, n conformità a quanto previsto dalla legge”.
Con la nota da [#OMISSIS#] citata il Rettore precisava che “la condotta cui si riferisce la presente e su cui verterà il colloqui, è relativa al “fatto” riconducibile alla Sua richiesta [#OMISSIS#] al prot. n. 39734 in data 28 novembre 2012, alla nota rettorale di prot. n. 1823 in data 17 gennaio 2013 con cui è stata fatta richiesta di ulteriore documentazione, alla nota rettorale di prot. n. 7693 in data 1 marzo 2013 con cui si comunicava la prosecuzione dell’iter istruttorio, all’accertamento istruttorio condotto dalla preposta commissione per l’autorizzazione degli incarichi extralvorativi, sino alle risultanze della Commissione istruttoria tenutasi in data 3 giugno”.
Non trova, quindi, conferma l’affermazione di parte ricorrente per la quale “[#OMISSIS#] fattispecie di cui è causa nessuna garanzia finalizzata alla partecipazione dialettica e, comunque, deflattiva del contenzioso è stata posta in essere” (pag. 8 del ricorso).
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 3 della L. n. 241/1990 ed eccesso di potere per perplessità, contraddittorietà con la posizione [#OMISSIS#] dal Collegio di esperti appositamente nominata, illogicità e difetto di istruttoria.
Espone il ricorrente che la determinazione impugnata non espliciterebbe le ragioni per le quali l’Università si sarebbe determinata in senso difforme da quanto espresso dal Collegio di esperti laddove, circa il profilo in disamina, si affermava che “l’autorizzazione in sanatoria è in linea di principio ammessa nel [#OMISSIS#] ordinamento, a meno che non sia espressamente proibita o non vi siano altri fattori particolari che ne giustificano l’esclusione. L’autorizzazione in sanatoria all’assunzione di incarichi extraistituzionali non è sicuramente vietata dalla legge e sarebbe un sofisma sostenere che essa non sia possibile solo perché la normativa prescrive che sia ottenuta a titolo preventivo” (tratto dal verbale del 13 [#OMISSIS#] 2013, e riportato a pag. 11 del ricorso).
Ritiene ulteriormente il ricorrente l’irrilevanza della circostanza che l’istituto dell’autorizzazione preventiva non sia espressamente previsto dalla legge poiché servirebbe, invece, una espressa previsione normativa per escluderla.
Il motivo è infondato.
L’art. 11, del d.P.R. n. 382/1980, prevede che “l’impegno dei professori ordinari” possa essere “a tempo pieno o a tempo definito” (comma 1) e che la scelta fra i due regimi spetti al docente interessato.
La medesima disposizione, chiarisce ulteriormente che, “il regime a tempo pieno” sia “incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito”
L’art. 53, comma 7, del D. Lgs. n. 165/2001, dispone che “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza”.
Le richiamate disposizioni sono univoche nell’imporre ai docenti in regime di tempo pieno, come il ricorrente, un generale divieto di svolgimento di attività esterne retribuite con possibilità di deroga a detto divieto unicamente in [#OMISSIS#] di conferimento dell’incarico da parte di una Amministrazione pubblica (circostanza che non ricorre nel [#OMISSIS#] di specie) o se previamente autorizzate (e non è contestato che una previa autorizzazione non sia stata né richiesta né concessa).
Le conseguenze dello svolgimento di attività in difetto di una preventiva autorizzazione sono disciplinate dalla legge prevedendo, al citato art. 57, che “in [#OMISSIS#] di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e [#OMISSIS#] restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del [#OMISSIS#] dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
La necessità della preventiva concessione dell’autorizzazione all’incarico si ricava, altresì, dalla disciplina regolamentare interna dell’Università.
Il “Regolamento dell’Università degli Studi di Parma in materia di attività svolte dal personale docente nell’ambito di rapporti con terzi” approvato con D.R. n. 818 del 19 agosto 1999 in relazione [#OMISSIS#] “incarichi non consentiti” di cui all’art. 5, prevedeva al successivo art. 6 “Procedimento di autorizzazione” che “il soggetto pubblico o privato che conferisce un incarico al personale docente … deve chiedere preventiva autorizzazione …” (comma 1).
L’art. 7 “Sanzioni”, al punto 1) disponeva che “qualora il docente o ricercatore svolga incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’Università di Parma, incorre in responsabilità disciplinare, salve le più gravi sanzioni”.
Al successivo punto 2) era precisato che “qualora il corrispettivo non sia ancora stato versato dall’ente erogante, questo dovrà conferirlo al [#OMISSIS#] dell’Amministrazione di appartenenza del docente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti di pertinenza del personale docente e ricercatore. Nel [#OMISSIS#] in cui, invece, il pagamento sia già avvenuto, il docente dovrà versare il compenso ricevuto nei fondi menzionanti”.
L’art. 6 “Procedimento di autorizzazione” (che prevedeva al punto 3 un meccanismo di formazione del silenzio rifiuto, non più ripreso nelle successive versioni del testo normativo), al punto 5) precisava che “l’autorizzazione per gli incarichi continuativi non può avere durata superiore a due anni. Alla scadenza di tale periodo gli incarichi devono essere nuovamente sottoposti ad autorizzazione”.
Le successive versioni del medesimo Regolamento interno (approvate con D.R. n. 875 del 6 novembre 2009, D.R. n. 310 del 28 aprile 2010 e, infine, con D.R. 1595 del 25 agosto 2010), relativamente ai [#OMISSIS#] di interesse nel presente giudizio, confermano il Regolamento emanato con D.R. n. 818/2009.
Il Regolamento approvato con D.R. 875/2009 disponeva all’art. art. 3 “Attività svolte al di fuori dell’ambito universitario” che “per lo svolgimento degli incarichi di cui al comma precedente [attività consentite previa autorizzazione, ndr] deve essere richiesta preventiva autorizzazione da parte dell’Ente conferente o da parte del docente interessato, senza la quale l’incarico non potrà essere svolto” (punto 4, comma 1).
Al comma 2, 3° cpv, era disposto che “l’autorizzazione …non può avere durata superiore a due anni alla scadenza dei quali gli incarichi devono nuovamente essere sottoposti ad autorizzazione”.
Le disposizioni di cui all’illustrato punto 4 vengono confermate tanto [#OMISSIS#] versione approvata con D.R. n. 310/2010, tanto in quella approvata con D.R. n. 1595/2010.
La disciplina normativa di riferimento, come evidenziato, era, quindi, chiara e univoca e non poteva generare alcun legittimo affidamento del ricorrente circa la possibilità di svolgere attività extra lavorative in assenza di preventiva autorizzazione.
Infondata è, altresì, la dedotta contraddittorietà dell’agire amministrativo e, [#OMISSIS#] specie, fra le conclusive determinazioni in questa sede impugnate e il parere espresso dal Collegio di esperti (che il ricorrente riporta solo parzialmente).
Sul punto non può che rilevarsi che in detta sede, come emerge dall’esame del richiamato verbale del 13 [#OMISSIS#] 2013, non è dato ricavare elementi certi a sostengo di alcuna tesi avendo, gli esperti incaricati, formulato un parere “aperto” ad ogni soluzione possibile.
Il Collegio, infatti, come già anticipato, affermava che l’autorizzazione “costituendo condizione per il lecito svolgimento di un’attività che altrimenti sarebbe vietata, dovrebbe essere chiesta e ottenuta dall’interessato prima di assumere l’incarico: si tratta di un rilievo persino banale, sul quale si può evitare di dilungarsi oltre”.
Allo stesso tempo, valorizzando “indicazioni provenienti dal sistema giuridico italiano” (in diverse materie) riteneva, tuttavia, che “pur con tutte le cautele rese necessarie dalla particolarità della materia e della sua disciplina, parrebbe quindi possibile concludere nel senso che l’autorizzazione all’assunzione di incarichi extraistituzionali possa essere accordata in sanatoria”.
Precisava, infine, che sarebbe spettato [#OMISSIS#] uffici (nel [#OMISSIS#] di specie all’Università) “verificare con particolare attenzione se si tratta di incarico che – in forza delle sue caratteristiche concrete: intensità del impiego richiesto, durata, eventuale presenza di potenziali conflitti di interesse, ecc. – in teoria sarebbe stato autorizzabile e se il suo materiale svolgimento non ha interferito in maniera negativa con le mansioni istituzionali dell’interessato”.
Il parere del Collegio, pertanto, a tacere del fatto che non è vincolante, non offre univoci riferimenti a sostegno della autorizzabilità a posteriori degli incarichi extraistituzionali e ciò non consente di cogliere alcun profilo di contraddittorietà nelle determinazioni impugnate che, come argomentato, sono assolutamente conformi alle fonti legislative e alle fonti regolamentari interne.
Circa tale questione si evidenzia ulteriormente che la necessità dell’autorizzazione preventiva allo svolgimento di incarichi extra lavorativi è stata già affermata dalla Sezione in presenza di analoga fattispecie (relativa a docente della medesima Università) rilevando che “il Regolamento di Ateneo, sia quello del 1999 che quello del 2009, oltre a fare espresso riferimento ad una preventiva autorizzazione, non contiene alcuna previsione in ordine alla ammissibilità di una autorizzazione postuma, la quale, peraltro, appare incompatibile con la finalità dell’autorizzazione che è, sempre in base al disposto di cui all’art. 53, comma 7 citato, quella di verificare l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Sarebbe un controsenso autorizzare ex post un incarico in base ad un potenziale conflitto di interessi, se si considera, altresì, che il fondamento della disciplina della [#OMISSIS#] citata deve rintracciarsi negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ovvero nelle garanzie di imparzialità, efficienza e buon andamento dei pubblici impiegati che sono a servizio esclusivo della Nazione. Sussiste in questa materia una presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio (in termini, T.A.R. Lombardia, sez. IV, 7 marzo 2013, n. 614)” (TAR [#OMISSIS#] Romagna, Parma, 5 giugno 2017, n. 191.
Nessun rilievo, ai fini in esame, riveste la circostanza che in passato altri analoghi incarichi venissero autorizzati al ricorrente atteso che la circostanza non è di per sé idonea a fondare un ragionevole affidamento circa la concessione di autorizzazioni successive (Cassazione civile, Sez. VI, 18/02/2019 , n. 4701) e ciò determina l’irrilevanza dei [#OMISSIS#] di illegittimità dedotti con il dodicesimo motivo (primo motivo aggiunto) con il quale il ricorrente contesta all’Università di essere incorsa in una disparità di trattamento allegando che, in presenza di fattispecie analoghe, in passato consentiva ai docenti di sanare a posteriori la propria posizione.
A sostegno della tesi esposta allega i DD.RR. n. 301 del 5 marzo 2007, n. 306 del 7 marzo 2007, n. 366 del 26 marzo 2007, n. 686 del 4 giugno 2007, n. 802 del 4 luglio 2007, n. 1246 del 12 settembre 2007, n. 130 del 31 gennaio 2008, n. 525 del 17 aprile 2008, n. 901 del 30 luglio 2008, n. 1507 del 6 novembre 2008, D.R. n. 1533 del 12 novembre 2008, n. 1652 del 15 dicembre 2008, n. 767 del 1 luglio 2009, n. 870 del 4 agosto 2009, n. 1157 del 7 settembre 2009, n. 190 del 2 febbraio 2010, n. 409 e 410 del 25 febbraio 2010, n. 411, 412, 413 e 414 del 25 febbraio 2010, n. 939 del 6 [#OMISSIS#] 2010, n. 1791 del 28 settembre 2010 e n. 1754 del 21 dicembre 2011 (oggetto di deposito [#OMISSIS#] atti del giudizio del 5 dicembre 2013 – doc. 6).
La circostanza è priva di rilievo poiché, come di recente ribadito in giurisprudenza “in [#OMISSIS#] di condotte illegittime della pubblica amministrazione, non può essere invocata la sussistenza del vizio di eccesso di potere [#OMISSIS#] forma della disparità di trattamento in [#OMISSIS#] di mancata estensione ad altri soggetti di un’azione amministrativa non conforme ai parametri di legittimità. (Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2000, n. 726 e Tar Lazio, Roma, sez. I, 17 gennaio 2012, n. 463)” (TAR Abruzzo, Pescara, 14 marzo 2019, n. 83).
Quanto allegato (pregresse condotte difformi dell’Università) rileverà, semmai, a diversi fini e in sede diversa.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce, sotto altro profilo, il difetto di istruttoria e di motivazione e la contraddittorietà rispetto ad altri atti autorizzatori rilasciati dalla stessa Amministrazione.
Espone a tal proposito che l’Amministrazione avrebbe omesso ogni valutazione circa la natura degli incarichi da autorizzarsi (intensità dell’impegno, durata, presenza di potenziali conflitti di interesse, ecc.) così come non avrebbe considerato che il ricorrente non sarebbe mai venuto meno ai propri obblighi di servizio ricevendo sempre ottime valutazioni da parte degli studenti.
Gli incarichi svolti, infatti, avrebbero richiesto un impegno “variabile in termini di pochi o pochissimi giorni all’anno” e le relative attività sarebbero state svolte “nei fine settimana o nei periodi di sospensione delle attività didattiche” (pag. 18 del ricorso).
Il motivo è inconferente prima ancora che infondato.
In primis si rileva che, come già affermato dalla Sezione, “la situazione di incompatibilità deve, conseguentemente, essere valutata in astratto, sul presupposto che la [#OMISSIS#] mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del [#OMISSIS#] rendimento, indipendentemente anche dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 13 gennaio 1999, n. 29)” (TAR Parma, sentenza n. 191/2017, cit.)
Oggetto del presente giudizio, inoltre, sono gli atti di una procedura di recupero che trova causa nell’espletamento di incarichi extraistituzionali retribuiti in assenza di preventiva autorizzazione che il ricorrente non ha richiesto, benché ciò fosse imposto dalla legge, con conseguente irrilevanza delle argomentazioni spese a sostegno della affermata astratta autorizzabilità degli incarichi svolti.
Né tali [#OMISSIS#] possono essere introdotti in giudizio censurando in questa sede un preteso diniego tacito all’istanza di autorizzazione postuma presentata dal ricorrente il 27 luglio 2017.
Nel [#OMISSIS#] di specie, infatti, non è configurabile alcun silenzio significativo avente portata provvedimentale atteso che l’inerzia dell’Amministrazione può assumere una tale consistenza unicamente in presenza di una espressa [#OMISSIS#] che gliela conferisca
Circa lo specifico profilo (e [#OMISSIS#] restando la già affermata necessità che la richiesta di autorizzazione debba precedere l’assunzione dell’incarico) deve rilevarsi che la disciplina interna dell’Università, oggi vigente in tema di procedimenti di autorizzazione ad incarichi esterni, non prevede un [#OMISSIS#] di conclusione del procedimento né disciplina gli effetti del silenzio maturato in ordine alle istanze.
A tal proposito si rileva che il “Regolamento interno per il rilascio dell’autorizzazione al conferimento di incarichi retribuiti al personale docente” approvato con D.R. n. 818 del 19 agosto 1999, disciplinava in passato la materia all’art. 6 “Procedimento di autorizzazione” prevedendo, come già esposto, al punto 1) che “il soggetto pubblico o privato che conferisce un incarico al personale docente … deve chiedere preventiva autorizzazione …” e disponendo al successivo punto 3) che l’Ammirazione universitaria dovesse “pronunciarsi entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta. Qualora decorra inutilmente tale [#OMISSIS#] se il soggetto conferente è pubblico, l’autorizzazione si intende accordata (silenzio assenso), se il soggetto conferente è privato, l’autorizzazione si intende negata (silenzio rigetto)”.
Analoga previsione non è presente nelle successive stesure del Regolamento approvate con D.R. n. 875 del 6 novembre 2009, D.R. n. 310 del 28 aprile 2010 e D.R. n. 1595 del 25 agosto 2010 modifica il D.R. 875.
Ne deriva l’applicabilità al [#OMISSIS#] di specie del principio generale di cui all’art. 2, comma 2, della L. n. 241/1990, ove dispone che “nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un [#OMISSIS#] diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il [#OMISSIS#] di trenta giorni”: [#OMISSIS#] spirato il quale non residua che la possibilità di esperire i rimedi previsti dalla legge a fronte dell’inerzia della pubblica amministrazione per imporle l’adozione di un provvedimento espresso.
Allo scadere di tale [#OMISSIS#], tuttavia, il ricorrente non attivava il prescritto [#OMISSIS#] ex artt. 31 e 117 c.p.a. al fine di acquisire una determinazione in ordine alle proprie istanze.
Per le ragioni già esposte, nessun rilievo ai fini in esame riveste, altresì, la circostanza, ribadita dal ricorrente, che in passato altri analoghi incarichi svolti dal ricorrente venissero autorizzati.
Priva di pregio è, infine l’affermazione per la quale l’autorizzazione postuma non potrebbe essere negata solo “in quanto non espressamente prevista dalla legge” poiché in linea generale, varrebbe il principio opposto, ovvero, che necessiterebbe una espressa previsione di legge per inibirla.
Sul punto basti richiamare il generale dovere di esclusività che grava sui dipendenti pubblici che relega a mera eccezione la possibilità di svolgere altre attività.
Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione del Regolamento dell’Università in materia di attività extraistituzionali svolte dal personale docente, la violazione dell’art. 2397 c.c. ed eccesso di potere per illogicità e carenza di motivazione sotto altro profilo.
Espone il ricorrente che sino al momento dell’entrata in vigore del Regolamento emanato con D.R. 875/2009, nessuna disposizione vietava ai docenti l’assunzione di incarichi di componente di collegi sindacali in società anche private essendo vietate solo le cariche in organi di gestione quali i Consigli di amministrazione di società di capitali a prevalente partecipazione privata.
In relazione [#OMISSIS#] incarichi svolti, pertanto, non sussisterebbe un’incompatibilità assoluta e sarebbero, quindi, autorizzabili a [#OMISSIS#] rilevando, ai fini della concessione del titolo autorizzativo, il fatto che siano già stati espletati al momento della rihciesta.
A sostegno della tesi esposta allega che l’art. 2397 c.c. dispone al primo comma che “il collegio sindacale si compone di tre o cinque membri effettivi, soci o non soci. Devono inoltre essere nominati due sindaci supplenti” e al secondo comma che “almeno un membro effettivo ed uno supplente devono essere scelti tra i revisori legali iscritti nell’apposito registro. I restanti membri, se non iscritti in tale registro, devono essere scelti fra gli iscritti negli albi professionali individuati con decreto del Ministro della giustizia, o fra i professori universitari di ruolo, in materie economiche o giuridiche”.
La [#OMISSIS#], secondo il ricorrente, lascerebbe “chiaramente intendere che l’affidamento degli incarichi di componente del collegio sindacale ai professori universitari (senza alcun riferimento al loro regime di lavoro) costituisce… una chiara preferenza legislativa rivolta a garantire l’esigenza che i fondamentali compiti di controllo dell’attività degli amministratori [#OMISSIS#] società di capitali siano svolti da soggetti di adeguata qualificazione professionale e, proprio in ragione di questo, di indipendenza e autonomia di giudizio” (pag, 21 del ricorso).
Il motivo è infondato.
La richiamata disposizione, se da un lato legittima i docenti universitari allo svolgimento dell’attività di componente di un collegio sindacale, in [#OMISSIS#] smentisce il già affermato principio della necessaria acquisizione preventiva dell’autorizzazione.
Irrilevante nei sensi invocati in ricorso è, altresì, l’allegata circostanza che il ricorrente, negli stessi anni in cui svolgeva gli incarichi in questione, non sarebbe venuto meno ai propri doveri assolvendo alle proprie mansioni all’interno dell’Ateneo atteso che ciò, per le ragioni già esposte, non può escludere a posteriori la necessità di una autorizzazione che la normativa dispone sia preventivamente acquisita a seguito di una valutazione di compatibilità dell’incarico da assumersi con le funzioni proprie del dipendente pubblico che non può che essere ex ante.
Per le medesime ragioni deve ritenersi l’infondatezza del [#OMISSIS#] motivo di ricorso con il quale il ricorrente, riprendendo argomenti già spesi nei precedenti capi di impugnazione, si limita a sostenere una generica compatibilità dell’espletamento di attività nell’ambito di un collegio sindacale con le proprie funzioni (profilo, peraltro, mai contestato dall’Amministrazione).
Allo stesso modo deve ritenersi infondato il sesto motivo con il quale il ricorrente deduce la violazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 382/1980 laddove prevede che sono escluse dal regime di incompatibilità “le attività, comunque svolte, per conto di amministrazioni dello Stato, enti pubblici e organismi a prevalente partecipazione statale purché prestate in quanto esperti nel proprio campo disciplinare e compatibilmente con l’assolvimento dei propri compiti istituzionali”.
Il riferimento è all’incarico, in qualità di designato dal Comune di Parma, di componente del Consiglio di Amministrazione di [#OMISSIS#] S.p.A che è ente a prevalente partecipazione pubblica.
La censura è inconferente atteso che il riferimento alla natura pubblica dell’ente presso il quale il docente presta la propria attività extraistituzionale rileva unicamente nel senso di rendere autorizzabile un incarico che, per sua natura sarebbe incompatibile.
Ciò non determina, tuttavia, un’equazione fra incarico autorizzabile e incarico liberamente assumibile in assenza di preventiva autorizzazione.
Con il settimo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 53, comma 10, del D. Lgs. n. 165/2001 [#OMISSIS#] parte in cui prevede, in relazione alle istanze di autorizzazione relative ad incarichi presso enti pubblici, il meccanismo del silenzio assenso.
Espone che la [#OMISSIS#] invocata prevede un [#OMISSIS#] per provvedere, decorso il quale, “l’autorizzazione, se richiesta per incarichi da conferirsi da amministrazioni pubbliche, si intende accordata; in ogni altro [#OMISSIS#], si intende definitivamente negata”.
La censura viene formulata con riferimento [#OMISSIS#] incarichi svolti presso Fiera di Parma S.p.A. e [#OMISSIS#] S.p.A (enti a partecipazione pubblica) nel triennio 2007-2009: circostanza che determinerebbe l’applicabilità della disciplina di cui al Regolamento interno approvato con R.D. n. 818/2009 che, come già rilevato, prevedeva all’art. 6, punto 3, la formazione del silenzio assenso allo scadere del 30° giorno in tutte le ipotesi in cui il soggetto conferente l’incarico fosse pubblico.
Il motivo è infondato.
La tesi del ricorrente si fonda sull’erroneo presupposto che la disciplina invocata, relativa al procedimento di autorizzazione preventiva, “per analogia [possa] essere estesa anche all’autorizzazione in sanatoria” (pag. 23 del ricorso).
In altri termini, il ricorrente invoca in via analogica l’applicazione delle richiamate disposizioni ad un procedimento (quello dell’autorizzazione in sanatoria) che, per le argomentazioni già illustrate, non è ammesso: profilo che esclude in radice ogni parallelo, o possibile analogia, con la diversa fattispecie dell’autorizzazione preventiva.
Con l’ottavo motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2947 c.c. affermando che, in relazione [#OMISSIS#] incarichi svolti “nel 2007 e parte nel 2008” la pretesa dell’Amministrazione sarebbe prescritta in quanto spirato il [#OMISSIS#] quinquennale di cui alla [#OMISSIS#] invocata.
Il ricorrente riconosce che la Sezione in passato “in una sentenza del 2017” affermava che in materia “la prescrizione sarebbe decennale” (pag. 2 della memoria deposita l’8 marzo 2019), tuttavia, detto orientamento sarebbe superato dalla più recente giurisprudenza del Consiglio Stato laddove si afferma che il diritto a riscuotere le somme ex art. 53, comma 7, del D. Lgs. n. 165/2001, si prescriverebbe in 5 anni (Cons. Stato, Sez. II, 22 febbraio 2018, n. 1129)
Il motivo è infondato.
La [#OMISSIS#] codicistica invocata dispone che “il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato”.
Il successivo art. 2948 dispone ulteriormente che “si prescrivono in cinque anni: 1) le annualità delle rendite perpetue o vitalizie; 1-bis) il capitale nominale dei titoli di Stato emessi al portatore; 2) le annualità delle pensioni alimentari; 3) le pigioni delle case, i fitti dei beni rustici e ogni altro corrispettivo di locazioni; 4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi; 5) le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”.
Ciò premesso si rileva che, come la più recente giurisprudenza ha già avuto modo di precisare (successivamente alla pronunzia invocata dal ricorrente) che “l’azione di recupero di somme indebitamente corrisposte al pubblico dipendente da parte della Pubblica Amministrazione è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946, c.c., e non a quella quinquennale prevista dall’art. 2948, c.c., non potendosi far rientrare tale fattispecie fra le ipotesi espressamente contemplate in quest'[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] (cfr.: T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 10.10.2014, n. 5294; Cons. St., sez. VI, 26.6.2013, n. 3503)” (TAR Lazio, Roma, Sez. I bis, 19 [#OMISSIS#] 2018, n. 5577).
Con il nono motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 6 della L. n. 240/2010 ed eccesso di potere per illogicità con riferimento all’incarico conferito da [#OMISSIS#] S.p.A. nel triennio 2007/2009
La doglianza si fonda sulla circostanza che la nomina a componente del Consiglio di Amministrazione avveniva su designazione del Sindaco di Parma e che l’Amministrazione comunale, nell’occasione, effettuava una scelta determinata dalle conoscenze e competenze personali del ricorrente.
Per tale ragione l’incarico dovrebbe essere fatto rientrare “nell’ambito di una attività collaborazione scientifica a vantaggio del Comune, quale socio di [#OMISSIS#] S.p.A.” che non richiederebbe alcuna autorizzazione.
Alla fattispecie dovrebbe essere, infatti, applicato quanto disposto dall’art. 6, comma 10 della L. n. 240/2010, anche se successiva, che riconosce la possibilità di “svolgere liberamente, anche con retribuzione, attività di valutazione e di refe raggio, lezioni e seminari di carattere occasionale, attività di collaborazione scientifica e di consulenza, attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale”.
Il motivo è infondato
A tacere della dubbia applicabilità della disposizione invocata con effetto retroattivo, l’incarico di componente di un CdA non è, né può essere in ragione delle competenze attribuite a detto organo, riconducibile al genus degli incarichi di collaborazione scientifica e, pertanto, è espressamente vietato in assenza di preventiva autorizzazione
Con il [#OMISSIS#] motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 4 della Costituzione ed eccesso di potere per illogicità manifesta, iniquità ed ingiustizia, difetto di motivazione e di istruttoria con riferimento all’incarico svolto in favore di Banca Monte Parma S.p.A. da luglio ad ottobre 2011 in qualità di [#OMISSIS#] del Collegio sindacale.
Il ricorrente afferma di aver ritenuto in buona fede “che non fosse necessario richiedere la preventiva autorizzazione” in ragione del proprio passaggio al regime a tempo pieno al regime a tempo definito nelle more intervenuto.
Il motivo è infondato.
La necessità della preventiva autorizzazione anche per gli incarichi di componente di un collegio sindacale è già stata affermata in sede di scrutinio dei precedenti capi d’impugnazione.
Quanto all’invocato mutamento di regime del proprio rapporto con l’Università, non può che rilevarsi che quest’[#OMISSIS#] veniva riconosciuto al ricorrente solo il 1° novembre 2011 ad incarico già espletato.
Con il tredicesimo motivo (terzo motivo aggiunto), infine, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 8 della L. n. 689/1981 con riferimento alla quantificazione dell’importo dei compensi assoggettati a recupero.
Espone il ricorrente che l’invocata [#OMISSIS#], in presenza di più violazioni commesse con una sola azione od omissione impedirebbe la definizione dell’importo della sanzione cumulando le sanzioni previste in relazione a ogni singola violazione ma imporrebbe di applicare il cumulo giuridico quantificando al sanzione nell’importo della sanzione più elevata aumentata di un terzo.
Che il recupero disposto a carico del ricorrente integri una sanzione amministrativa, lo si ricaverebbe dal testo dell’art. 53, comma 7, del D. Lgs. n. 165/1981 laddove stabilisce che in [#OMISSIS#] di violazione del divieto in questione si proceda al recupero dei compensi percepiti “… salve le più gravi sanzioni …”.
La doglianza è infondata atteso che il recupero disposto dall’Amministrazione non integra una sanzione amministrativa che, per essere tale, necessita di una espressa previsione normativa.
Per quanto precede il ricorso deve essere respinto affermando la legittimità dell’azione di recupero posta in essere dall’Amministrazione e riconoscendo, tuttavia, che il recupero in questione, come già affermato dalla Sezione, “deve essere effettuato al netto e non già al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali” (così da [#OMISSIS#] ord. Tar Lazio II ter 1698/2017) ovvero limitatamente alle somme entrate [#OMISSIS#] sfera patrimoniale del dipendente (cfr. CdS VI, 2 marzo 2009, n. 1164, CdS III 3984/2011, ma vedi anche Tar Milano IV 614/2013” (TAR Parma, n. 191, cit.).
Le spese di giudizio sono poste a carico del ricorrente [#OMISSIS#] misura liquidata in dispositivo.
In relazione [#OMISSIS#] eccepiti [#OMISSIS#] di disparità di trattamento allegati dal ricorrente sul presupposto che l’Università abbia in passato, per prassi, proceduto al rilascio di autorizzazioni “ora per allora”, come argomentato in questa sede non ammesse (v. deposito di parte ricorrente del 5 dicembre 2013 – doc. 6), si dispone la trasmissione della presente sentenza alla Procura Regionale della Corte dei Conti per le eventuali valutazioni di competenza in ordine all’allegato mancato recupero da parte dell’Università in presenza delle indicate (e ritenute analoghe dal ricorrente) posizioni di altri docenti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'[#OMISSIS#] Romagna, Sezione staccata di Parma, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in € 3.000,00.
Dispone la tramessine della presente sentenza alla Procura Reginale della Corte dei Conti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità del ricorrente.
Così deciso in Parma [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di consiglio del giorno 11 luglio 2019 con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] De [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] FF
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Primo Referendario