Come chiarito dalla più recente giurisprudenza amministrativa, la nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non può ritenersi fissa ed immutevole ma funzionale e cangiante. Non può ritenersi, in altri termini, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione. L’individuazione dell’ente pubblico deve perciò avvenire in base a criteri non “statici” e “formali”, ma “dinamici” e “funzionali”. Applicando tali coordinate ermeneutiche, deve concludersi per la natura di persona giuridica pubblica delle libere università, avuto riguardo alla sostanziale equiparazione che le stesse ricevono dalla legge alle Università statali sotto plurimi profili (fra cui quelli: del fine pubblico perseguito, del controllo statale, dei poteri certificativi e disciplinari ad esse spettanti e del valore legale dei titoli di studio da esse rilasciati). Ne deriva, agli effetti della giurisdizione, il carattere pubblico dei rapporti d’impiego tra Università e personale dipendente: non solo insegnante, ma anche amministrativo ed esecutivo, poiché tanto i professori e gli assistenti (per l’attività didattico-scientifica) quanto i funzionali e gli agenti (per l’attività burocratica e materiale) quanto il resto del personale (per le attività tecniche e ausiliarie) concorrono, ognuno nell’ambito delle rispettive mansioni, al conseguimento dei fini istituzionali dell’ente.
Pertanto, la domanda di chi, assumendo di avere prestato la propria opera di professore universitario in forza di contratto stipulato ai sensi dell’art. 25, del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, chiede dichiararsi la natura subordinata del rapporto intercorso e il riconoscimento dell’obbligo della controparte di versare i dovuti contributi, introduce una controversia inerente a rapporto di pubblico impiego, come tale riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
TAR Milano, sez. III, 18 gennaio 2021, n. 155
Università non statali e personalità giuridica pubblica.
N. 00155/2021 REG.PROV.COLL.
N. 02592/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2592 del 2017, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Massimo [#OMISSIS#], con domicilio eletto presso il suo studio in Milano, viale Monte Nero, 28;
contro
Università Cattolica del Sacro Cuore, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio eletto presso lo studio della prima in Milano, via Visconti di Modrone, 12;
per l’accertamento
– della natura subordinata del rapporto di lavoro, in qualità di docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con decorrenza dall’anno accademico 1984/1985, con inquadramento nella qualifica di Professore Ordinario di Prima Fascia a tempo definito e/o determinato, nonché, per la condanna al pagamento delle relative differenze retributive, anche ai sensi dell’art. 36 Cost.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 novembre 2020, tenutasi ai sensi dell’art. 25, comma 1, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 e dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n.28 (convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70), mediante collegamento da remoto in videoconferenza, per mezzo della piattaforma in uso presso la Giustizia amministrativa, la dott.ssa [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti i difensori, come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1) Con ricorso notificato il 23 ottobre 2017 e depositato il 17 novembre 2017 l’esponente ha proposto l’azione di accertamento, in epigrafe specificata, al fine di ottenere la condanna dell’intimata Università al pagamento delle differenze retributive, da lui asseritamente maturate nel periodo compreso tra il 15 settembre 1984 e il 31 luglio 2015.
2) Ha riferito, in fatto, che:
2.1) – ha iniziato a lavorare in favore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano a far data dall’anno accademico 1974/1975, in qualità di addetto alle esercitazioni tecniche, a completamento dell’attività didattica dell’insegnamento ufficiale di “Elaboratori Elettronici e Sistemi Meccanografici”, presso la Facoltà di Economia e Commercio;
2.2) – tale attività si è protratta, senza soluzione di continuità, sino all’anno accademico 1983/1984;
2.3) – a partire dall’anno accademico 1984/1985 e fino all’anno accademico 2014/2015 è stato addetto, senza soluzione di continuità, all’insegnamento ufficiale di “Elaboratori Elettronici e Sistemi Meccanografici”, poi denominato “Informatica Generale”, presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’intimata Università;
2.4) – nella sua qualità di docente assume di avere svolto le stesse attività demandate ai professori di ruolo, sotto la direzione ed il controllo del Preside di Facoltà e sulla base del calendario stabilito dagli organi Accademici.
3) In diritto, l’esponente osserva quanto segue.
3.1) Sulla natura subordinata a tempo indeterminato del rapporto di lavoro de quo, a decorrere dall’anno accademico 1984/1985, previo accertamento della nullità e/o illegittimità e/o inefficacia dei contratti di diritto privato, stipulati ex art. 25 e ss. del D.P.R. n. 382/1980:
3.1.1) – si deduce la violazione dell’art. 6 della Legge Delega n. 28 del 1980 e degli artt. 25 e ss. del D.P.R. n. 382/1980.
Il ricorrente è stato assunto ogni anno e per 31 anni consecutivamente con contratti di lavoro a tempo determinato, in ossequio agli art. 25 e ss. del D.P.R. n. 382/1980, ove si prevede che, per i professori a contratto, i contratti hanno la durata massima di un anno accademico e non possono essere rinnovati per più di due volte in un quinquennio con la stessa Università. Deroghe a tale limite possono essere concesse con decreti del Ministro della pubblica istruzione su proposta del Consiglio universitario nazionale, esclusivamente ove risulti impossibile impartire altrimenti insegnamenti di particolare specializzazione e ad alto contenuto tecnologico, in settori per i quali l’Università non disponga delle idonee competenze. Il successivo art. 29, rubricato “Professori a contratto presso le Università non statali”, statuisce quanto segue: “Le Università non statali possono avvalersi di professori a contratto in percentuale superiore a quella indicata nell’art. 25 e possono in casi particolari ed eccezionali conferire contratti di insegnamento anche a professori delle Università statali”.
Come si evince dai contratti prodotti, l’assunzione del ricorrente non è stata causalmente collegata né alla materia oggetto dell’insegnamento affidatogli, né all’eccezionalità ed alla temporaneità dell’incarico.
In ragione delle sopraesposte considerazioni, è di tutta evidenza come la disciplina formulata dal legislatore (art. 6 della Legge Delega n. 28/1980 e artt. 25 e seg. del D.P.R. 382/1980) sia stata violata e fraudolentemente elusa dall’Università.
3.1.2) – Si deduce, quindi, l’inapplicabilità e/o la violazione dell’art. 100, lett. d) del D.P.R. 382/1980.
La disposizione da ultimo richiamata riguarda esclusivamente le facoltà ed i corsi di nuova istituzione. Nel caso di specie sia la Facoltà di Economia e Commercio, così come il corso di “Elaboratori Elettronici e Sistemi Meccanografici”, sin dall’anno accademico 1985/1985 non potevano certamente considerarsi di nuova istituzione.
Inoltre, l’attivazione dei cd. contratti di diritto privato a tempo determinato è subordinata al previo “nulla-osta” del Ministero della pubblica istruzione che, nella specie, non è mai stato rilasciato.
La deroga all’applicazione dei cd. contratti di diritto privato a tempo determinato, infine, va riferita esclusivamente alle Università statali e non anche a quelle private, atteso che la norma richiama il solo art. 25 del D.P.R. 382/80 e non anche l’art. 29, norma che prevede per l’appunto l’estensione di tale tipologia contrattuale anche alle Università private come la resistente.
Ad ogni modo, anche alla luce della deroga resta fermo il limite temporale della rinnovabilità dei contratti (non più di due nell’arco di un quinquennio) che nel caso di specie è stato ampiamente superato.
3.1.3) – Si deduce, ancora, la violazione dell’art. 1, comma 32, della L. 549/1995.
Come si evince dal tenore letterale della disposizione sopra richiamata, l’intento del legislatore era quello di estendere l’utilizzo della fattispecie contrattuale, che fino a quel momento era limitato ai corsi integrativi, anche all’insegnamento dei corsi ufficiali “non fondamentali o caratterizzanti”.
Tale estensione è, tuttavia, limitata a particolari e comprovate esigenze didattiche, di cui non vi è traccia nei contratti sottoscritti dall’istante.
3.1.4) – Si deduce, a seguire, la non applicabilità e/o la violazione del D.M. n. 242/1998.
La nuova normativa trova applicazione solo nei confronti delle Università statali e non anche nei confronti di quelle private, come la resistente. Ciò comporta che, con l’abrogazione degli artt. 25 e 100 del D.P.R 382/1980, contenuta nella riforma, non vi sarebbe la possibilità per università private di stipulare contratti di diritto privato a tempo determinato, così come regolati dalle norme oggetto di abrogazione. In ogni caso, anche ammesso che la riforma in questione possa trovare applicazione anche nei confronti della resistente, non si possono non considerare i limiti imposti dal D.M. n. 248/98, primo fra tutti la natura eccezionale dello strumento contrattuale e, in secondo luogo, il suo utilizzo limitato nel tempo (non essendo rinnovabili per più di sei anni). Entrambi disattesi nella fattispecie.
3.2) Sulle conseguenze della illegittimità dei contratti sottoscritti dal ricorrente e sulla natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra il ricorrente e l’Università, con decorrenza dall’anno accademico 1984/1985 all’anno accademico 2014/2015, ovvero dal 15 settembre 1984 al 31 luglio 2015.
3.2.1) In ragione di quanto sin qui argomentato, ovvero, della violazione delle disposizioni di legge disciplinanti i “contratti di diritto privato a tempo determinato”, il patrocinio ricorrente ritiene che il rapporto di lavoro intercorso tra l’esponente e l’Università Cattolica deve considerarsi come un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, con decorrenza dall’anno accademico 1984/1985 all’anno accademico 2014/2015, ovvero dal 15 settembre 1984 al 31 luglio 2015.
3.2.2) I contratti in questione devono, altresì, considerarsi illegittimi, ovvero, superati a favore della tipologia del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, per avere comunque il ricorrente, sin dalla data di decorrenza di ciascun contratto e per tutta la durata di vigenza del medesimo, eseguito la propria prestazione con tutti i caratteri tipici della subordinazione.
3.3) Sul diritto del ricorrente alla parità di trattamento retributivo e contributivo ex art. 36 della Costituzione.
3.3.1) Posta la natura subordinata del rapporto di lavoro de quo (ed in ogni caso l’assimilabilità delle mansioni svolte dal ricorrente con quelle svolte dai suoi colleghi di ruolo), con decorrenza dall’anno accademico 1984/1985 all’anno accademico 2014/2015 (ovvero per il periodo compreso tra il 15 settembre 1984 ed il 31 luglio 2015), il ricorrente ha quindi diritto a vedersi riconoscere sia la “giusta retribuzione” sia i contributi previdenziali ed assicurativi ed il TFR.
3.3.2) Quanto alle differenze retributive, il ricorrente avanza la pretesa, in ragione delle mansioni effettivamente svolte, ad essere inquadrato come professore ordinario di prima fascia a tempo definito e/o determinato e, quindi, a vedersi riconoscere la relativa retribuzione.
In particolare, il ricorrente afferma il proprio diritto a percepire per i 31 anni di servizio, detratto quanto dallo stesso percepito anno per anno, sia a titolo di differenze retributive (retribuzione mensile, 13^ mensilità, indennità integrativa speciale), sia a titolo di TFR, ai sensi dell’art. 2120 c.c., l’importo lordo complessivo di € 558.624,80, di cui € 513.844,77, a titolo di differenze retributive, ed € 44.780,03, a titolo di TFR.
4) Si è costituita l’Università Cattolica di Milano, controdeducendo con separata memoria alle censure avversarie e contestando le circostanze di fatto riportate da parte ricorrente a comprova del carattere subordinato del rapporto di lavoro svolto a favore del medesimo Ateneo.
4.1) La difesa dell’Ateneo ha, in particolare, riferito che:
– l’Università Cattolica è una università fondata nel 1921 dall’Istituto [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di Studi Superiori, persona giuridica di diritto privato avente natura di fondazione;
– i contratti stipulati col ricorrente sono stati tutti attivati in esito a sua richiesta e dichiarazione di disponibilità e – per i casi in cui è espressamente riportato in contratto – previa sua partecipazione all’apposito bando;
– il ricorrente ha tenuto corsi annuali di insegnamento di informatica ed esercitazioni, con le modalità e l’organizzazione decise autonomamente dal medesimo (salvo il coordinamento strettamente necessario con l’attività complessiva dell’Università) e per l’impegno orario eventualmente previsto in ciascun contratto (per lo più in misura complessiva e/o per la sola attività di insegnamento), senza alcuna predeterminazione analitica di detto orario né della sua distribuzione (né per la didattica frontale né per alcuna delle attività connesse);
– il ricorrente ha ricevuto il compenso pattuito in ciascun contratto, determinato annualmente dagli organi direttivi dell’Università, in una o due soluzioni annuali, come risultante dalle relative certificazioni di pagamento;
– per ogni contratto stipulato con l’Università il ricorrente è stato impegnato per un arco temporale massimo compreso tra le date del 15/9 e del 31/7 di ciascun anno, coincidente con la durata dell’anno accademico, a cui ogni contratto fa esplicito riferimento e, quindi, con interruzione di almeno un mese e mezzo fra la conclusione della prestazione oggetto del singolo contratto e l’inizio della prestazione oggetto del contratto successivo;
– erronea, oltre che contrastante con la stessa narrativa di controparte e comunque non provata, è l’affermazione di aver prestato attività lavorativa senza soluzione di continuità: vero è, viceversa, che nei predetti periodi di interruzione fra un contratto e l’altro (dal 31/7 al 15/9) il ricorrente non ha mai reso né offerto alcuna prestazione lavorativa;
– il ricorrente non è mai stato sottoposto a direzione né a controllo del Preside di Facoltà, rimanendo assolutamente libero di organizzare, gestire e decidere in totale autonomia la programmazione ed il contenuto delle lezioni e delle esercitazioni tenute, così come lo svolgimento dei relativi esami e ogni attività connessa al proprio rapporto con gli studenti, salvo il necessario coordinamento con l’organizzazione complessiva universitaria e di facoltà, per cui il Preside di Facoltà è mero referente;
– il ricorrente non è mai stato tenuto a giustificare – né di fatto ha mai giustificato – alcuna assenza presso l’ufficio del personale dell’Università mentre il semplice avviso di assenza o impedimento temporaneo era apprezzato per poter tempestivamente informare gli studenti iscritti ai suoi corsi;
– il ricorrente non ha mai dovuto richiedere all’Ufficio Personale – né di fatto ha mai richiesto – alcuna autorizzazione per ferie o permessi di alcun tipo;
– il ricorrente ha svolto l’attività prevista in ciascun contratto per un impegno orario complessivo corrispondente a quanto risulta dai Registri prodotti in giudizio, dallo stesso compilati e sottoscritti, sempre inferiore al normale orario previsto dalla legge per i professori di ruolo, anche a tempo definito;
– l’Università non era tenuta a chiedere alcun nulla osta né autorizzazione al MIUR per la stipulazione dei contratti col ricorrente, non essendo un’Università statale;
– la stipulazione di tutti i contratti è stata determinata dalle ragioni didattiche, organizzative e di bilancio analiticamente esposte in ciascuna delle relative delibere prodotte, richiamate in ciascun contratto.
4.2) In diritto, l’Università ha aggiunto quanto segue.
4.2.1) In via pregiudiziale, la difesa dell’Ateneo ha eccepito il difetto di giurisdizione del G.A., trattandosi qui di diritti soggettivi, affermati nei confronti di un soggetto non qualificato come pubblico.
4.2.2) Indi, la difesa della resistente ha precisato che, le domande ex adverso svolte sono tutte finalizzate all’accertamento – e conseguente condanna al pagamento – di presunte differenze retributive asseritamente a credito del ricorrente per tutti i contratti succedutisi dall’a.a.1984/85 all’a.a.2014/15, ma, di fatto, quantificate con riferimento al periodo compreso fra l’a.a.1998/99 e l’a.a.2014/15. A ciò consegue che si deve ritenere consumata la domanda di differenze retributive nei termini predetti, così come ex adverso formulata, in relazione a tutti i rapporti contrattuali intercorsi con l’esponente, restando l’eventuale accertamento concernente il periodo precedente del tutto irrilevante, o meglio “assorbito” nella più limitata quantificazione predetta.
4.2.3) Ancora, la resistente ha evidenziato come vi siano tre aspetti pacifici e caratteristici dei contratti succedutisi nel tempo fra l’esponente e l’Università Cattolica: (i) si è trattato – per espressa previsione normativa – di “contratti di diritto privato”; (ii) si è trattato – per espressa previsione normativa e contrattuale – di contratti “a termine”; (iii) la normativa speciale di riferimento non qualifica espressamente il rapporto di lavoro instaurato in esito a questi contratti come subordinato, piuttosto che come autonomo.
4.2.3.1) Da ciò consegue, in primo luogo, la decadenza ex art. 32 L. 183/10 e la conseguente prescrizione dell’asserito credito per differenze retributive.
In forza della citata norma, spiega la difesa della resistente, il contratto a termine deve essere impugnato, a pena di decadenza, entro un termine originariamente di 60 giorni, poi divenuto (dal luglio 2012, ex L. n. 92/2012) di 120 giorni, e la relativa azione deve essere promossa entro il successivo termine di 270 giorni, poi divenuto (sempre dal luglio 2012, ex L. n. 92/2012) di 180 giorni, a pena di inefficacia dell’impugnazione.
Detti termini per l’impugnazione e per la proposizione dell’azione giudiziaria si applicano a tutti i contratti di lavoro subordinati a tempo determinato, cioè – oltre a quelli stipulati successivamente all’entrata in vigore della L. 183/10 – anche “ai contratti di lavoro a termine (…) in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine” (c. 4 lett. a, cit. art. 32), ed anche “ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al D. Lgs. 368/2001 e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge”.
L’ultimo contratto di lavoro stipulato col ricorrente è pacificamente terminato il 31/7/2015: né questo né alcun altro precedente contratto a termine è mai stato impugnato ai sensi e per gli effetti della normativa appena citata. Il ricorrente è, dunque, incorso nella decadenza, prevista dall’art. 32 L. n. 183/2010, per cui non può più contestare il termine apposto a ciascun contratto di lavoro né, conseguentemente, pretendere che il rapporto sia considerato come unitario, dalla stipulazione del primo contratto di lavoro e fino alla cessazione del rapporto in data 31/7/2015.
4.2.3.2) Le conseguenze della decadenza come sopra eccepita sono duplici: (i) i termini di durata apposti a ciascun contratto di lavoro devono essere considerati legittimi ed efficaci e non potrà, quindi, essere accertata l’unitarietà del rapporto (né considerati, ad alcun fine, i periodi di interruzione fra un contratto e l’altro, in cui il ricorrente non ha comunque reso né offerto la prestazione lavorativa); (ii) dalla scadenza di ciascun termine contrattuale è decorsa la prescrizione quinquennale, ex art. 2948 nn. 4 e 5 c.c., di tutte le pretese retributive riferite allo specifico contratto.
4.2.3.3) Poiché il ricorso è stato notificato il 24/10/2017, si eccepisce la prescrizione di tutte le differenze retributive (e competenze di fine rapporto) pretese con riferimento a tutti i contratti intercorsi, fino al contratto cessato il 31/7/2012, per l’a.a. 2011/12, per il quale la prescrizione è maturata, da ultimo, il 31/7/2017 (cioè prima della notifica del ricorso).
4.2.3.4) La volontà delle parti è stata formalmente e chiaramente espressa nel senso dell’autonomia di ciascun rapporto, sicché è onere del ricorrente, che contesta detta formalizzazione e che chiede l’accertamento della natura subordinata e unitaria del rapporto, fornire una rigorosa e concreta prova al riguardo. Detto onere non risulta qui assolto, poiché l’esponente non è in grado di indicare (e tantomeno provare) con precisione alcun elemento di fatto da cui desumere un chiaro ed inequivoco inquadramento della fattispecie nel senso della subordinazione, consentendo così il superamento della diversa volontà manifestata dalle parti all’atto della stipulazione dei contratti.
Nella capitolazione istruttoria (cfr. a pp. 1-11 del ricorso) vi sono solo sporadiche e generiche affermazioni, non solo non rispondenti al vero (e per questo motivo tutte analiticamente contestate), ma piuttosto simili a mere petizioni di principio.
Per la prova della subordinazione non è sufficiente elencare le mansioni del ricorrente, essendo necessario identificare e provare (attraverso fatti specifici e concreti) che le modalità concrete di esecuzione di dette mansioni implicassero – in contrasto con la volontà negoziale espressa – la soggezione del ricorrente al controllo, alla direzione, al potere disciplinare e di verifica del datore di lavoro. Nulla di tutto ciò si legge nel ricorso, che risulta pertanto del tutto insufficiente a superare, nel caso, l’accordo manifestatosi (reiteratamente e mai prima d’ora contestato) nel senso dell’autonomia dei singoli rapporti contrattuali.
4.2.3.5) È documentalmente provato che i contratti non contenessero alcuna predeterminazione dell’orario di lavoro, né della sua distribuzione (anzi, in alcuni contratti è indicato solo l’ammontare complessivo delle ore da dedicare all’insegnamento, cioè alla didattica frontale; in altri contratti nemmeno quello) e che prevedessero il pagamento del compenso in una o due soluzioni annuali e non a cadenza fissa mensile.
4.2.3.6) E’, inoltre, da escludersi il carattere esclusivo o anche solo prevalente della prestazione lavorativa resa a favore dell’Università, considerato il ridotto impegno complessivo nell’arco dell’intero anno e l’entità del corrispettivo pattuito (in relazione al risultato – cioè la conduzione di un corso di insegnamento e/o di un ciclo di esercitazioni nel singolo anno accademico – e non in relazione alla messa a disposizione di energie lavorative tout court, come è invece caratteristico del rapporto di lavoro subordinato).
4.2.3.7) La resistente evidenzia, in aggiunta, che, quand’anche fosse accertato il superamento dei limiti temporali di rinnovabilità dello specifico contratto a termine previsto dalla normativa sui professori a contratto (limiti peraltro variabili nel tempo), o la non utilizzabilità di detto strumento per assegnare corsi di insegnamenti (anche) ufficiali, anziché solo integrativi (a ciò si riducono, in sostanza, le obiezioni di controparte) questo accertamento non consentirebbe di trarre le conseguenze volute da parte ricorrente, poiché: (i) il rapporto di lavoro intercorso, in mancanza di chiara e idonea prova contraria sulle modalità di resa della prestazione, resterebbe comunque autonomo; (ii) i contratti stipulati resterebbero in ogni caso contratti a termine (pur se di lavoro subordinato), non esistendo alcuna specifica previsione, nella normativa speciale che disciplina il rapporto con i professori a contratto, che ne consenta la conversione in rapporto a tempo indeterminato; (iii) il trattamento economico della prestazione contrattuale resa è stato, comunque, sempre correttamente determinato, in senso conforme alla normativa speciale sui professori a contratto ed alle delibere dei competenti organi universitari e, soprattutto, proporzionato al (ridottissimo) impegno orario della prestazione effettivamente resa.
La “giusta retribuzione” non può essere automaticamente individuata in quella che compete ai professori di ruolo, ma deve costituire oggetto di accertamento e valutazione di fatto, accertamento e valutazione che non possono ridursi a mere considerazioni teoriche, slegate da qualsiasi concreta considerazione di merito e di fatto.
4.2.3.8) Fin dall’introduzione della disciplina dei professori a contratto (L. 28/80), per le Università non statali è stato consentito avvalersi di questa tipologia specifica di contratto anche per l’affidamento di insegnamenti ufficiali, e così è stato sempre più chiaramente confermato nel tempo (segnatamente a decorrere dalla L. 549/95).
La rinnovabilità di detti contratti è stata anch’essa progressivamente estesa, fino a pervenire (dal 1998) a 6 anni di rinnovabilità: è evidente che quantomeno entro il periodo di rinnovabilità consentita, nessun profilo di illegittimità si sarebbe – nemmeno sotto questo specifico aspetto – verificato nel caso in esame.
4.2.3.9) Nessuna norma, in nessun caso, prevede la conversione del contratto a termine stipulato col professore a contratto – che può legittimamente essere anche di lavoro autonomo – in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, preclusa in radice dalla circostanza che al ruolo dei professori universitari si accede, per legge, solo per concorso; né alcuna norma dà diritto ai professori a contratto di essere compensati/retribuiti per i periodi non lavorati fra un contratto e l’altro. Anzi, nell’ambito della maggiore autonomia che caratterizza le Università non statali, l’unica norma che ha chiaramente stabilito i limiti minimo e massimo di compenso orario per detti professori a contratto (DM 313/11), ha lasciato libere le Università non statali di aderire o meno alla previsione specifica.
4.2.3.10) Nella specie, il ricorso a detta tipologia contrattuale è stato determinato dalle ragioni (didattiche, organizzative e di bilancio) analiticamente descritte nei verbali del CdA prodotti, per ciascun anno accademico, e richiamati in ciascuno dei contratti stipulati col ricorrente.
La stipulazione dei contratti col ricorrente, aggiunge la difesa dell’Ateneo: (i) è avvenuta per ogni a.a. su richiesta del ricorrente medesimo, che dichiarava la propria “disponibilità” ad impartire l’insegnamento, conservando in tal modo un ampio margine di autonomia e libertà per svolgere, altrove, altre attività; (ii) è stata giustificata per il fatto che, come si evince dalle previsioni dei contratti in atti, il numero di alunni iscritti ai corsi tenuti dal ricorrente era molto ristretto, ed ogni anno si presentava concretamente il serio rischio che il corso non potesse essere attivato per mancanza totale di iscritti; (iii) è stata coerente col ridotto impegno orario complessivo richiesto per l’insegnamento assegnato al ricorrente, assai inferiore rispetto all’impegno orario financo di un docente a tempo definito (l’art. 1, c. 16, L. 230/05 ha precisato che, l’impegno orario per la sola didattica frontale, cioè per l’insegnamento in aula, non può essere inferiore a 120 ore per un professore di ruolo a tempo pieno, e ad 80 ore per un professore di ruolo a tempo definito); (iv) è dipesa anche dalla professionalità specifica, trasversale e non tipica delle scienze economiche, richiesta dall’insegnamento in questione, che ne ha di fatto impedito la copertura mediante affidamento ai professori in ruolo.
4.2.3.11) La normativa sull’assegnazione di insegnamenti a professori a contratto non è stata affatto violata, se non sotto l’unico profilo della reiterazione di detti contratti oltre il periodo di 6 anni, da ultimo consentito dalla normativa in questione. Ma da questa specifica violazione il ricorrente non ha conseguito un pregiudizio, poiché gli è stato consentito di proseguire nella collaborazione traendone il relativo [#OMISSIS#], pur mantenendo – grazie alla forma autonoma del rapporto ed all’esiguo impegno orario complessivamente richiestogli – la più ampia libertà di svolgere altre attività a favore di terzi. Il ricorrente, poi, è sempre stato retribuito conformemente alle determinazioni degli Organi direttivi dell’Università e sempre entro i limiti stabiliti dalla normativa di riferimento.
4.2.4) Nella denega ipotesi in cui i contratti col ricorrente dovessero essere considerati di lavoro subordinato, e la violazione del termine per la reiterazione dei medesimi dovesse comportare che il valore della prestazione resa debba commisurarsi non al compenso stabilito per i professori a contratto bensì a quello stabilito per i professori ordinari di ruolo, anche in questo caso, i conteggi delle presunte differenze retributive effettuati da controparte sarebbero errati.
L’unico confronto in tesi possibile sarebbe quello col trattamento economico riservato ai professori di ruolo per la stessa attività (incarico di insegnamento annuale/semestrale) effettivamente assegnata e svolta dal ricorrente [tenuto conto che dagli stessi registri prodotti sub doc. 7, compilati e sottoscritti dal ricorrente, emerge che l’impegno annuale complessivo (non solo, quindi, per la didattica frontale), del ricorrente è stato al massimo pari a circa 170 ore (e ciò solo in alcuni anni, essendo per la maggior parte degli anni nettamente inferiore), e si è svolto nel solo periodo 15 settembre – 31 luglio)]. Si ribadisce, al riguardo, che un professore ordinario, oltre agli impegni relativi alla didattica, è altresì tenuto a svolgere “attività di ricerca e di aggiornamento scientifico”, di cui deve fornire apposita rendicontazione, per una quantificazione stabilita in via figurativa come pari a complessive 1.500 ore per i professori a tempo pieno e 750 ore per i professori a tempo definito (art. 6 L. 240/10), cui si aggiungono gli ulteriori impegni connessi alla partecipazione agli organi collegiali e di governo universitari. Tutte attività che il ricorrente, al pari di qualunque altro professore a contratto, non ha pacificamente mai svolto.
4.2.5) In via istruttoria, la resistente ha chiesto, occorrendo, di: (i) ammettere prova per testi su tutte le circostanze riepilogate nella parte in “fatto”, indicando a testimoni i Signori: Dr. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Sig. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Avv. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], tutti presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Largo Gemelli n. 1, Milano; (ii) ordinare al ricorrente e/o all’Amministrazione Finanziaria l’esibizione e la produzione in giudizio delle dichiarazioni dei redditi presentate dal 1984 al 2015; (iii) non ammettersi la prova per testi richiesta da controparte, in quanto vertente su capitoli generici e inammissibili, ovvero su circostanze documentali; (iv) essere ammessi, in caso di ammissione anche solo parziale dell’avversa prova orale, alla relativa prova contraria, con i medesimi testimoni già sopra generalizzati.
5) All’udienza del 17 novembre 2020 – tenutasi ai sensi dell’art. 25, comma 1, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, e dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n.28 (convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70), mediante collegamento da remoto in videoconferenza, per mezzo della piattaforma in uso presso la Giustizia amministrativa -, presenti, come da verbale, gli avvocati Massimo [#OMISSIS#] per la parte ricorrente e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] per l’Università Cattolica del Sacro Cuore, la causa è stata trattenuta in decisione.
6) Pregiudizialmente, sull’eccezione di difetto di giurisdizione, il Collegio osserva quanto segue.
6.1) Come chiarito dalla più recente giurisprudenza amministrativa, la nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non può ritenersi fissa ed immutevole ma funzionale e cangiante (cfr. Cons. di Stato, VI, 26.05.2015, n. 2660, per cui «Non può ritenersi, in altri termini, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione…Si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica… il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa. Occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica. La conseguenza che ne deriva è, come si diceva, che è del tutto normale, per così dire “fisiologico”, che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali»; id., 11.07.2016, n. 3041, per cui «…l’individuazione dell’ente pubblico debba avvenire in base a criteri non “statici” e “formali”, ma “dinamici” e “funzionali”»).
6.2) Applicando le suesposte coordinate ermeneutiche al caso di specie, deve concludersi per la natura di persona giuridica pubblica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, avuto riguardo alla sostanziale equiparazione che le Università «libere» ricevono dalla legge alle Università statali sotto plurimi profili (fra cui quelli: del fine pubblico perseguito, del controllo statale, dei poteri certificativi e disciplinari ad esse spettanti e del valore legale dei titoli di studio da esse rilasciati).
Con specifico riguardo all’elemento finalistico, giova rammentare che, l’art. 1 del R.D. 31/08/1933, n. 1592, dopo aver enunciato, nel comma primo, il principio che “l’istruzione superiore ha per fine di promuovere il progresso della scienza e di fornire la cultura scientifica necessaria per l’esercizio degli uffici e delle professioni“, dispone, nel comma secondo, che essa è impartita nelle Università statali e in quelle “libere” (categoria, quest’ultima, alla quale appartiene, ai sensi del successivo art. 198, «ogni Università … il cui ordinamento sia conforme alle norme del presente testo unico“), alle une e alle altre affidando, a pari titolo, il perseguimento di quel fine.
Ancora, la stessa norma, al comma terzo, con riguardo ad entrambe le categorie di Università, statuisce che esse “hanno personalità giuridica e autonomia amministrativa, didattica e disciplinare, nei limiti stabiliti dal presente T.U. e sotto la vigilanza dello Stato” [cfr., sugli elementi ulteriori che confermano la tendenziale identità dei due tipi di atenei, collegati nella regolamentazione giuridica e forniti del medesimo potere di rilasciare titoli aventi valore legale: ancora Cass. civ., Sez. Unite, 11-03-2004, n. 5054, per cui «giova ancora rammentare: che ogni Università ha uno speciale statuto contenente determinazioni fissate per legge ed è emanato con decreto del Capo dello Stato (cfr. art. 17, 18, 200 e 201 R.D. n. 1592 del 1933); che, di regola, le norme dettate per l’istruzione superiore in generale valgono anche per le Università libere (cfr. art. 199 tu.); che su queste Università, le quali possono essere soppresse, fra l’altro, “per ragioni inerenti all’interesse generale degli studi o alla distribuzione territoriale degli istituti di istruzione superiore” (art. 212 tu.), ampi poteri di impulso e di controllo spettano al ministero della p.i. (v. art. 210 R.D. n. 1592 del 1933 – tu. – e art. 10 R.D.L. 20 giugno 1935 n. 1071); che le Università libere hanno gli stessi poteri certificativi, disciplinari e di polizia spettanti alle Università statali; che i rispettivi docenti, uguali per funzioni e prerogative inerenti all’ufficio, possono essere trasferiti dalle une alle altre (cfr. art. 207 e 208 – tu. – R.D. n. 1592 del 1933; art. 2 e 16 legge 24 febbraio 1967 n. 62)].
È utile notare, in aggiunta, come lo stesso Statuto dell’Ateneo resistente, all’art. 1, prevede che: «L’Università Cattolica del Sacro Cuore… ente morale riconosciuto con Regio Decreto 24 giugno 1920, n. 1044… è stata giuridicamente riconosciuta con Regio Decreto 2 ottobre 1924, n. 1661, quale Università libera. L’Università Cattolica è università non statale, persona giuridica di diritto pubblico, secondo le leggi vigenti (…)».
6.3) La conseguenza che da tutto ciò deriva, agli effetti della giurisdizione, è il carattere pubblico dei rapporti d’impiego tra Università e personale dipendente: non solo insegnante, ma anche amministrativo ed esecutivo, poiché tanto i professori e gli assistenti (per l’attività didattico-scientifica) quanto i funzionali e gli agenti (per l’attività burocratica e materiale) quanto il resto del personale (per le attività tecniche e ausiliarie) concorrono, ognuno nell’ambito delle rispettive mansioni, al conseguimento dei fini istituzionali dell’ente (cfr. sempre Cass., n. 5054/2004, cit.).
6.4) Ne consegue ancora che, con specifico riguardo alla controversia in esame, la domanda di chi, assumendo di avere prestato la propria opera di professore universitario in forza di contratto stipulato ai sensi dell’art. 25, del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, chiede dichiararsi la natura subordinata del rapporto intercorso ed il riconoscimento dell’obbligo della controparte di versare i dovuti contributi, introduce una controversia inerente a rapporto di pubblico impiego, come tale riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (cfr. Corte di Cassazione, SS.UU., sent. n. 60, del 13.02.1999; id., n. 11623, del 21.11.1997; id., n. 98, del 12/03/2001; ad analoghe conclusione è giunta anche la giurisprudenza amministrativa: cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 4550/2008; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, Sent., 28/02/2011, n. 232).
Deve, pertanto, respingersi la suindicata eccezione, appartenendo la controversia in esame alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
7) Il Collegio deve, a questo punto, rammentare che, per consolidata giurisprudenza incline a salvaguardare il superiore principio di economia dei mezzi processuali in connessione con quello del rispetto della scarsità della risorsa giustizia (su cui cfr. Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014; Ad. plen., nn. 5 del 2015 e 9 del 2014), è possibile derogare alla naturale rigidità dell’ordine di esame, ove si ritenga preferibile risolvere la lite rigettando il ricorso nel merito o nel [#OMISSIS#] in base ad una ben individuata ragione più liquida «…sulla scorta del paradigma sancito dagli artt. 49, co. 2, e 74 c.p.a. … sempre che il suo esercizio non incida sul diritto di difesa del contro interessato e consenta un’effettiva accelerazione della definizione della lite…» (Ad. plen. Cons. Stato n. 9 del 2014 e n. 10 del 2011; da ultimo, Cons. Stato, VI, 07.01.2021, n. 200), e purché sia stata preventivamente assodata, da parte del medesimo giudice, la giurisdizione e la competenza.
8) In applicazione del suindicato criterio della «ragione più liquida», si può soprassedere dall’esame delle questioni preliminari, stante l’infondatezza nel merito del ricorso.
9) In premessa, è utile chiarire che, ai noti “indici rivelatori” (su cui cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. V, Sent., 02-10-2018, n. 5646) della presenza di un rapporto di pubblico impiego, può attribuirsi soltanto una funzione di astratta qualificazione ai fini della determinazione della giurisdizione e della disciplina economica e previdenziale delle prestazioni lavorative di fatto erogate, essendo comunque nullo e improduttivo di effetti un rapporto di lavoro instaurato al di fuori dei parametri legislativi che, nel rispetto dell’art. 97, comma 3 della Costituzione, regolano l’accesso al pubblico (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 15 novembre 2011, n. 6021; id., 5 aprile 2017, n. 1601; id., 30 maggio 2016, n. 2275; id., sez. V, 18 marzo 2010, n. 1580, per cui «anche ove si trattasse di rapporto di pubblico impiego, nullo “ex lege” in quanto instaurato in violazione di norme imperative, non potrebbe comunque trovare applicazione l’art. 2 l. 18 aprile 1962 n. 230, che ha previsto i casi in cui un rapporto di lavoro a tempo determinato si converte in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, atteso che l’art. 97 comma 3, cost. e le leggi di settore impongono che la trasformazione dei rapporti “de quibus” sia configurabile solo in presenza di uno degli atti genetici previsti dalla normativa specifica; di conseguenza l’Amministrazione non potrebbe trasformare il rapporto di lavoro subordinato a termine del dipendente in uno a tempo indeterminato, ostandovi l’art. 9, d.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 che vieta, al pari di quanto già previsto per l’impiego statale dall’art. 3, t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 e per il personale degli enti locali dall’art. 5 l. 8 gennaio 1979 n. 3, l’assunzione di personale non di ruolo a tempo indeterminato senza il prescritto concorso, con la conseguenza che al g.a. è preclusa la statuizione di accertamento sull’esistenza di un rapporto prodotto da un atto nullo per violazione delle norme sulle assunzioni»).
Nel settore del pubblico impiego, contrattualizzato o meno, l’accesso ad un posto di ruolo può avvenire, ex art. 97 Cost., solo tramite pubblico concorso a ciò espressamente destinato (Cass. Civ., Sez. Lav., 25/6/2020, n. 12718; id., 29/4/2014, n. 9385; Cons Stato, Sez. VI, 13/5/2011, n. 2927; id., 25/6/2008, n. 3209).
10) Ciò premesso, il Collegio ritiene che, nel caso di specie, non è stata provata la sussistenza dei predetti «indici sintomatici».
10.1) Affinché possa configurarsi un rapporto di pubblico impiego, a prescindere, dalla qualificazione utilizzata nella definizione formale del rapporto o dall’atto di assunzione, devono contestualmente ricorrere tutti gli elementi sintomatici che strutturano tale tipo di rapporto, ovvero:
«a) un’attività svolta in modo continuativo per un apprezzabile lasso temporale; b) un compenso mensile e predeterminato; c) un servizio prestato in orario e giorni predeterminati; d) il riconoscimento implicito per le modalità di svolgimento del servizio che si tratti di lavoro subordinato: vincolo di subordinazione gerarchica, mansioni corrispondenti a quelle della qualifica rivendicata, evidenziate da ordini di servizio, inserimento stabile nell’organizzazione dell’ente; e) l’esclusività della prestazione lavorativa» (così, Cons. Stato, Sez. V, Sent. 02-10-2018, n. 5646; nello stesso senso, fra le tante, Cons. Stato, V, 5 aprile 2017, n. 1601; id., 30 maggio 2016, n. 2275, T.A.R. Lazio Roma Sez. III bis, Sent., 29-11-2018, n. 11578).
10.2) Orbene, nella specie, a fronte di quanto risultante dal complesso della documentazione prodotta in giudizio, da cui si evince quale oggetto della prestazione il singolo insegnamento (nella specie, di “Informatica generale” o, prima ancora, di “Elaboratori Elettronici e Sistemi Meccanografici”) circoscritto al singolo anno accademico, volta per volta considerato (cd. opus), l’esponente non ha affatto dimostrato di avere messo a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative (cd. operae) con il contestuale assoggettamento al relativo potere direttivo (cfr. Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 11-07-2018, n. 18253, per cui «l’elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa»).
Detto altrimenti, l’onere della prova degli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata, gravante come noto sul lavoratore che intende affermare in giudizio la subordinazione, nel caso di specie non può ritenersi assolto (cfr., tra le molte, Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 22-05-2009, n. 11937).
10.3) Non risulta, infatti, alcun elemento di prova in ordine alle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che deponga per la presenza del vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro.
Non è allegato e dimostrato che, diversamente da quanto pattuito, ricorresse nella specie una retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa (anzi, dal documento n. 8 della produzione resistente, si evince il pagamento in una o massimo due soluzioni del compenso pattuito per ciascun anno accademico) né che vi fosse un orario di lavoro fisso e continuativo, funzionale alle esigenze tecnico-organizzative dell’Ateneo e che andasse al di là dell’impegno ordinariamente richiesto al professore a contratto (su cui, cfr. sentenza n. 7024/2015 della Corte Cassazione).
Anche i registri-presenze depositati in giudizio (cfr. docc. 7 e ss. della produzione resistente) denotano un’attività lavorativa discontinua, limitata – specie quanto all’attività didattica – a poche ore e ad alcuni mesi soltanto dell’intero anno accademico. Nulla di paragonabile con l’attività didattica di un docente di ruolo (su cui, cfr. l’art. 46 dello Statuto, che rinvia alle disposizioni di legge; l’art. 6 della legge 30/12/2010, n. 240, per cui «1. Il regime di impegno dei professori e dei ricercatori è a tempo pieno o a tempo definito. Ai fini della rendicontazione dei progetti di ricerca, la quantificazione figurativa delle attività annue di ricerca, di studio e di insegnamento, con i connessi compiti preparatori, di verifica e organizzativi, è pari a 1.500 ore annue per i professori e i ricercatori a tempo pieno e a 750 ore per i professori e i ricercatori a tempo definito. La quantificazione di cui al secondo periodo, qualora non diversamente richiesto dai soggetti finanziatori, avviene su base mensile. 2. I professori svolgono attività di ricerca e di aggiornamento scientifico e, sulla base di criteri e modalità stabiliti con regolamento di ateneo, sono tenuti a riservare annualmente a compiti didattici e di servizio agli studenti, inclusi l’orientamento e il tutorato, nonché ad attività di verifica dell’apprendimento, non meno di 350 ore in regime di tempo pieno e non meno di 250 ore in regime di tempo definito»; nonché, quanto documentato da parte resistente, sub n. 9 e ss.).
Prendendo in esame uno degli anni in cui risultano annotate un maggior numero di ore, l’anno accademico 2008/2009, si evince che, a fronte di un monte ore complessivo di 179 annotato nel registro, l’esponente risulta avere svolto 33 ore di didattica (ripartite in 4 mesi: da settembre a dicembre 2008), destinando le restanti allo svolgimento degli esami (118 ore, distribuite in 6 sessioni) e nel ricevimento/assistenza studenti (28 ore).
Nell’anno accademico 2009/2010 le ore complessive sono state 152, di cui 32 per la didattica (limitata ai 4 mesi, da settembre a dicembre), 86 per gli esami (svolti in 6 sessioni), il resto all’assistenza studenti.
Nell’a.a. 2010/2011, a fronte di un monte ore di 173, l’esponente risulta avere svolto 28 ore di didattica (13 nel mese di ottobre, 8 nel mese di novembre e 7 nel mese di dicembre) destinando la restante parte delle ore allo svolgimento degli esami (95 ore in 7 sessioni) e nel ricevimento studenti (44 ore).
Quanto riportato nei registri e nella restante documentazione prodotta in giudizio dalle parti, quindi, lungi dal denotare la natura subordinata del rapporto di lavoro in esame, è senz’altro compatibile con la natura autonoma della prestazione oggetto del rapporto stesso. Al riguardo, non va neppure sottaciuto come la giurisprudenza sia incline a ritenere che, in sede di verifica dell’effettiva esistenza di un rapporto di pubblico impiego, è irrilevante la circostanza che, per lo svolgimento del servizio, il dipendente fosse tenuto al rispetto di un orario di lavoro fisso o anche all’obbligo di firma dei fogli-presenza, atteso che «tali adempimenti sono garanzie rivolte a provare l’effettiva ed adeguata prestazione dei servizi a lui affidati, all’interno del contenuto naturale delle modalità esecutive connesse al tipo di contratto tra le parti, compatibili, cioè, anche quanto ai connessi poteri di verifica dell’adempimento, con l’esecuzione di un appalto o prestazione d’opera» (così, Consiglio di Stato, sez. V, 9 dicembre 2013, n. 5878; sulla stessa linea Cons. Stato, Sez. V, Sent., 01-12-2014, n. 5916, per cui: «Il semplice inserimento nella struttura pubblica per il conseguimento dei fini propri dell’Ente come pure la predeterminazione di un orario complessivo di lavoro mensile, l’erogazione del compenso per un ammontare fisso da corrispondere con cadenza mensile, non sono infatti sufficienti alla dimostrazione della sussistenza di un rapporto di pubblico impiego, rappresentando elementi comuni anche al contratto d’opera ex art. 2222 ss. c.c. e in assenza, come nel caso di specie, dell’inserimento del lavoratore nella struttura dell’Ente con rapporto di subordinazione gerarchica»).
10.4) Né si può accedere alle richieste istruttorie, come sopra formulate da parte ricorrente, atteso che, rispetto alla domanda di accertamento e condanna, oggetto di causa, il principio dispositivo opera con pienezza (in virtù del criterio della «vicinanza della prova») e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (cfr. C.G.A.R.S., Sent., 04-09-2015, n. 588). Il processo amministrativo, infatti, pur contemplando alcuni poteri di acquisizione officiosa delle prove da parte del Giudice, resta fondato sul principio dispositivo dell’onere della prova (di cui all’art. 64 c.p.a), di talché, spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti, ogni volta che non ricorra quella disuguaglianza di posizioni tra Amministrazione e privato che giustifica l’applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo. Anche l’applicazione di tale principio, peraltro, “non può, comunque, mai ridursi ad un’assoluta e generale inversione dell’onere della prova e comunque non consente al giudice amministrativo di sostituirsi alla parte onerata quando la ricorrente non si trovi nell’impossibilità di provare il fatto posto a base della sua azione” (così, da ultimo, Consiglio Stato, sez. III, 4 settembre 2020, n. 5356; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 18 dicembre 2019, n.2691).
Nella controversia in esame, l’esponente si è limitato a depositare in giudizio i contratti stipulati con l’Università, dei quali deduce l’invalidità essenzialmente per violazione dei limiti posti dalla surrichiamata normativa all’uso dei contratti a termine, senza provare documentalmente alcunché in ordine alla asserita subordinazione del rapporto di lavoro, per la quale invoca la sola prova testimoniale, su cui la resistente ha chiesto e articolato la controprova.
L’Università, invece, ha controdedotto ai fatti allegati e non provati dall’esponente, producendo in giudizio i registri-presenze (doc. 7 e ss.) e i documenti di pagamento (doc. 8) da cui, come sopra evidenziato, risulta confermato un impegno lavorativo dell’istante nient’affatto assimilabile a quello del professore di ruolo a tempo definito e, anzi, compatibile, come già detto, con l’attività di lavoro autonomo.
In siffatte evenienze, il Collegio deve respingere le richieste istruttorie avanzate da parte ricorrente, poiché non rilevanti ai fini della decisione, essendo la causa adeguatamente istruita, nei sensi sinora indicati, alla luce di quanto allegato e documentato in atti.
Dalla ridetta documentazione si ricava, in sostanza, come non sussistano nella specie taluni degli «indici» necessari ai fini della subordinazione, fra cui il compenso mensile predeterminato, la prestazione in orario e giorni predeterminati, le mansioni corrispondenti a quelle della qualifica rivendicata e l’esclusività della prestazione lavorativa.
La domanda di accertamento, come in epigrafe specificata, risulta, pertanto, infondata.
11) L’infondatezza della domanda di accertamento trae con sé anche quella della domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive, come sopra formulata.
11.1) Al riguardo, è utile osservare che, secondo la giurisprudenza (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, III, Sentenza 02/02/2005, n. 185; Cons. Stato, Sez. V, 16 ottobre 2002, n. 5598), anche in presenza dell’accertamento della nullità dei contratti stipulati in violazione di norme imperative, l’applicazione dell’art. 2126 c.c. non garantisce automaticamente al lavoratore un corrispettivo pari a quello stabilito per il dipendente di ruolo di uguale livello, allorquando una diversa retribuzione sia stata prevista nel titolo dichiarato nullo.
Ciò, in quanto l’art. 2126 c.c. estende, in via eccezionale, al lavoro prestato di fatto la disciplina prevista per il lavoro effettuato in presenza di un contratto valido, ma l’adattamento del regime ordinario ad una fattispecie in principio caratterizzata dalla violazione di prescrizioni inderogabili non può che avvenire entro i limiti strettamente necessari ad apprestare una “tutela minima” degli interessi considerati dal Legislatore [cfr. Cons. Stato, VI, 30.12.2005, n. 7621, per cui: «l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2126 c.c., attesa la nullità del rapporto, comporta comunque solo il diritto del ricorrente al corrispettivo dedotto nel titolo dichiarato nullo.
Infatti, il rapporto non è assimilabile a quello del professore di ruolo, perché il ricorrente non aveva le qualità per espletare le funzioni di professore di ruolo (non aveva superato un pubblico concorso, né ha esibito, neppure in sede processuale, titoli equipollenti a quelli di un professore di ruolo, quali pubblicazioni etc.)»].
11.2) Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi nella fattispecie in esame, dove l’esponente non ha in alcun modo allegato e provato la spettanza di un trattamento retributivo maggiore di quello percepito, nonché delle altre prestazioni dovute in caso di lavoro subordinato (sui vantaggi professionali e di formazione scientifica, del tutto obliterati nel ricorso in epigrafe e, tuttavia, riconnessi all’attività di insegnamento universitario, cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sezione VI, 30/10/2020, n. 6685, per cui «…costituisce dato di comune esperienza – ai sensi e per gli effetti dell’art. 115 c.p.c., applicabile anche al processo amministrativo – la possibilità di incarichi gratuiti, in particolare, presso le Università, in considerazione dei vantaggi, professionali e di formazione scientifica, connessi all’attività di insegnamento universitario, senza che possano sollevarsi al riguardo questioni di costituzionalità, con riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione»).
12) Conclusivamente, quindi, il ricorso in epigrafe specificato va respinto in ogni sua domanda.
13) Nondimeno, in ragione della peculiarità della vicenda contenziosa e delle questioni di diritto emerse, sussistono i presupposti di cui all’art. 92 c.p.c., per come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a., per compensare integralmente tra le parti le spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente e le altre persone fisiche indicate nelle richieste istruttorie delle parti.
Così deciso in Milano nelle camere di consiglio dei giorni 17 novembre 2020 e 30 dicembre 2020, con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] Di Benedetto, Presidente
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Referendario