TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 2 febbraio 2018, n. 186

Procedura concorsuale professore Ordinario-Incompatibilità-Candidato membro del collegio accademico-Insussistenza

Data Documento: 2018-02-02
Area: Giurisprudenza
Massima

Nell’ipotesi di valutazione comparativa per la copertura di posto a professore ordinario,non incorre nel divieto di partecipazione di cui all’art. 18 co. 1,lett. b, della legge 30 dicembre 2010, n. 240,  il candidato che si stato componente del collegio accademico. 
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha esteso il divieto di partecipazione di cui all’art. 18 co. 1 lett. b) della legge n. 240/2010 al caso del rapporto di coniugio, non espressamente previsto dalla disposizione, la quale menziona i soli “rapporti di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso”: si è infatti osservato che l’elemento giustificativo dell’incompatibilità sancita dalla legge, ovvero la familiarità derivante dal rapporto di parentela o affinità tra uno dei candidati e i componenti degli organi dell’ateneo, tale da affievolire il principio di uguaglianza e la par condicio dei candidati stessi, raggiunge la massima intensità proprio nel caso del coniuge; di modo che sarebbe irragionevole, anche in relazione al principio di imparzialità dell’azione amministrativa, non reputare che la norma includa il caso del coniugio come situazione genetica della medesima incompatibilità, a maggior ragione se si considera che quest’ultima può derivare dall’affinità, vale a dire dal rapporto con i parenti del coniuge (cfr. Cons. Stato,Sez. VI, 4 marzo 2013, n. 1270).
Tuttavia, tale principio non può estendersi anche alle ipotesi in cui,  come nella specie, alla procedura di chiamata intenda concorrere non il parente, l’affine o il coniuge di un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo, ma, in prima persona, un docente già membro degli organi deliberativi interessati.

Contenuto sentenza

N. 00186/2018 REG.PROV.COLL.
N. 00225/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 225 del 2017, proposto da: 
[#OMISSIS#] Capano, rappresentato e difeso dall’avvocato [#OMISSIS#] Montini, con domicilio eletto presso il suo studio in Firenze, via dei Rondinelli 2; 
contro
Scuola Normale Superiore di Pisa, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, presso la cui sede è domiciliata in Firenze, via degli Arazzieri 4; 
per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia,
del decreto del Segretario Generale n. 220/2016 (prot. n. 0024015) del 23.12.2016, comunicato a mezzo nota prot. n. 242020 del 23.12.2016, mediante il quale il prof. Capano è escluso dalla partecipazione alla selezione per la copertura di un posto di professore universitario di prima fascia ai sensi dell’art. 18, comma 1, della legge 30 dicembre 2010 n. 240 presso l’istituto di Scienze Umane e Sociali, per il settore concorsuale 14/A2 Scienza Politica, settore scientifico disciplinare SPS/04 Scienza Politica, in quanto risulta versare in una situazione insanabile di incompatibilità con la partecipazione a tale procedura, essendo stato componente del Collegio Accademico della Scuola al momento della delibera di copertura del posto fino alla data del 31 ottobre 2016;
di tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenziali e, in particolare:
del regolamento per la disciplina del reclutamento dei professori di I e II fascia ai sensi della legge 30 dicembre 2010 n. 240 e per l chiamate dirette di chiara fama ai sensi dell’art. 1, comma 9, della legge 4 novembre 2005, n. 23, emanato con decreto del Direttore n. 732/2016 del 29.12.2016 (prot. n. 24233), unitamente a tale decreto, nella parte in cui modifica la disciplina dell’art. 6, comma 2, (rubricato “candidati ammessi alle selezioni”) e prevede, all’art. 21, comma 2, (rubricato “entrata in vigore”) l’applicazione delle nuove ipotesi di incompatibilità, di cui agli artt. 6, comma 2, 11, comma 3 e 18, comma 6, anche alle procedure di selezione in corso al momento della sua emanazione;
del processo verbale della seduta del Collegio Accademico del 22 dicembre 2016 unitamente a quello della seduta del Consiglio Direttivo, tenutosi nella medesima data, nella parte in cui entrambi tali organi hanno deliberato, ciascuno per quanto di rispettiva competenza, la suindicata modifica alle disposizioni del regolamento di Ateneo per la disciplina del reclutamento dei professori di I e II fascia ai sensi della legge 30 dicembre 2010 n. 240 e per l chiamate dirette di chiara fama ai sensi dell’art. 1, comma 9, della legge 4 novembre 2005 n. 230;
della nota, comunicata a mezzo pec in data 25.01.2017, del 25.01.2017 di reiezione dell’istanza di riesame (doc. n. 7) del prof. Capano, secondo la quale “Allo stato degli atti e dei fatti, il provvedimento di esclusione (DSG n. 220/2016) è atto a contenuto vincolato, direttamente applicativo del precetto normativo contenuto nell’art. 18 della Legge n. 240/2010, come interpretato dalla giurisprudenza pertinente (sentenza n. 874/2016 del TAR Puglia – Bari confermata dalla connessa ordinanza cautelare n. 5113/2016 del Consiglio di Stato). La disposizione dell’art. 6 del Regolamento della Scuola non contiene (né prima né dopo la modifica) un precetto normativo proprio ma è meramente riproduttiva degli obblighi legislativi che, in materia, restano fonte del diritto unica e inderogabile. Dunque, la questione dell’entrata in vigore e dell’applicazione ai procedimenti in corso, oltremodo enfatizzata nell’istanza, non altera contenuti ed effetti del provvedimento finale oggetto di doglianza”.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Scuola Normale Superiore di Pisa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 novembre 2017 il dott. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il professor [#OMISSIS#] Capano – in servizio di ruolo come ordinario presso l’Università degli Studi di Bologna, nel settore scientifico-disciplinare SPS/04 “Scienza politica” – è stato escluso dalla procedura per la copertura di un posto di professore universitario di prima fascia presso l’Istituto di Scienze Umane, nel predetto SSD, indetta dalla Scuola Normale Superiore di Pisa con bando pubblicato il 7 ottobre 2016.
L’esclusione, adottata mediante decreto del 23 dicembre 2016, trae origine dalla situazione di ritenuta incompatibilità nella quale il professor Capano verserebbe, per essere stato componente del collegio accademico della Scuola al momento della delibera di copertura del posto e fino alla data del 31 ottobre 2016. Essa è impugnata dall’interessato, il quale, dopo averne inutilmente sollecitato il riesame in via amministrativa, ne chiede ora l’annullamento a questo T.A.R., sulla scorta di cinque motivi in diritto.
Il gravame è altresì esteso al decreto del 29 dicembre 2016, con cui la Scuola ha modificato il proprio regolamento per il reclutamento dei professori di prima e di seconda fascia, nel senso di sancire, con disposizione applicabile anche alle procedure selettive in corso, l’incandidabilità del direttore e del segretario generale, nonché dei membri del collegio accademico e del consiglio direttivo al momento della delibera di copertura del posto e/o della delibera di chiamata, fino a quello della nomina.
1.1. Si è costituita in giudizio la Scuola Normale Superiore, la quale resiste all’impugnativa.
1.2. Nella camera di consiglio dell’8 marzo 2017, il collegio ha accolto la domanda cautelare formulata con l’atto introduttivo del giudizio, disponendo l’ammissione con riserva del ricorrente alla procedura selettiva in questione.
1.3. La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione nella pubblica udienza dell’8 novembre 2017.
2. L’amministrazione resistente eccepisce, pregiudizialmente, l’inammissibilità del ricorso per mancata notifica ad almeno uno dei controinteressati, identificati con i quattro candidati ammessi alla procedura selettiva.
In contrario, sia sufficiente osservare che – per giurisprudenza da tempo consolidata, dalla quale non vi è ragione di discostarsi – a fronte dell’impugnazione giurisdizionale del provvedimento di esclusione da una procedura concorsuale, proposta anteriormente alla formazione della graduatoria, non sono configurabili posizioni di controinteresse in senso tecnico-giuridico, non potendosi riconoscere una situazione soggettiva qualificata e differenziata in capo agli altri concorrenti ammessi alla procedura, ma non ancora utilmente selezionati (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. III, 10 marzo 2015, n. 1232; id., sez. VI, 11 luglio 2013, n. 3747).
3. Nel merito, con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 18 co. 1 lett. b) della legge 30 dicembre 2010, n. 240, in forza del quale ai procedimenti per la chiamata dei professori universitari di prima e di seconda fascia “non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo”. L’impugnato provvedimento di esclusione avrebbe errato nel ritenere applicabile il divieto di partecipazione a un soggetto – il componente del Collegio accademico della Scuola – diverso da quelli espressamente contemplati dalla disposizione in esame, insuscettibile di estensione analogica.
Con il secondo motivo, il ricorrente evidenzia come, al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla procedura, il regolamento di ateneo non prevedesse alcun divieto di partecipazione a carico dei componenti degli organi della Scuola, limitandosi a sostanzialmente mutuare in parte qua la disciplina di legge.
Soltanto con il decreto del 29 dicembre 2016, l’art. 6 co. 2 del regolamento sarebbe stato modificato per estendere l’incandidabilità al direttore, al segretario generale, ai professori appartenenti al collegio accademico e ai componenti del consiglio direttivo. La modifica regolamentare non avrebbe, peraltro, potuto avere effetto retroattivo, alla stregua del canone generale di cui all’art. 11 delle preleggi, di modo che sarebbe illegittima la scelta della Scuola di renderla applicabile ai procedimenti in corso, all’uopo intervenendo sull’art. 21 del medesimo regolamento di ateneo.
Il terzo motivo investe la lesione dell’affidamento riposto dal ricorrente circa l’inesistenza di un divieto di partecipazione a carico dei componenti del collegio accademico: oltretutto, se avesse avuto consapevolezza di versare in una situazione di incompatibilità, egli avrebbe potuto rimuoverla tempestivamente rassegnando le proprie dimissioni dall’organo collegiale. Gli atti impugnati sarebbero, pertanto, manifestamente viziati non soltanto per aver travisato il contenuto della norma di legge alla quale dichiarano di essere ispirati, ma anche per non aver salvaguardato la domanda di partecipazione presentata dal professor Capano attraverso una disciplina transitoria rispettosa dei principi della certezza del diritto e dell’affidamento incolpevole.
L’operato della Scuola sarebbe inoltre viziato da illogicità e irragionevolezza, non avendo essa tenuto conto della circostanza che il professor Capano non aveva partecipato alla seduta del collegio accademico nella quale era stata deliberata la copertura del posto di professore per il settore scientifico-disciplinare SPS 04, il che escluderebbe ogni possibile rischio di opacità della procedura, unitamente al fatto che lo stesso ricorrente è già in possesso della qualifica di ordinario presso altro ateneo (l’Università di Bologna).
Con il quarto motivo, è invocato un precedente di questa Sezione (la sentenza n. 1429 del 26 ottobre 2015) per nuovamente censurare come illegittima la pretesa dell’amministrazione resistente di fare applicazione retroattiva del divieto di partecipazione innovativamente posto a carico dei membri del collegio accademico.
Infine, con il quinto motivo, il ricorrente critica l’orientamento giurisprudenziale – condiviso dal provvedimento di esclusione – che reputa applicabili le incompatibilità sancite dall’art. 18 co. 1 lett. b) della legge n. 240/2010 anche al di fuori dei casi ivi espressamente contemplati, e, segnatamente, agli appartenenti agli organi monocratici e collegiali dell’ateneo.
3.1. La difesa erariale non nega che l’art. 18 cit. rappresenti una norma di stretta interpretazione, nella parte in cui fa divieto di partecipare alle procedure di chiamata dei professori universitari a coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità con un professore appartenente al dipartimento, o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo. Essa sostiene, tuttavia, che una sua lettura costituzionalmente orientata (e, quindi, doverosa) imporrebbe di ritenere che il divieto valga anche nel caso-limite in cui il candidato incompatibile non sia il parente, il coniuge o l’affine al componente dell’organo accademico, ma – come accade nella specie – lo stesso componente dell’organo.
Nei medesimi termini dovrebbe interpretarsi la disposizione regolamentare vigente al momento dell’indizione della procedura alla quale ha partecipato il ricorrente, riproduttiva della previsione di legge. Con la conseguente irrilevanza delle modifiche apportate al regolamento di ateneo successivamente all’esclusione del professor Capano dalla procedura, aventi contenuto non innovativo, ma meramente chiarificatore di una previsione già immanente nel regolamento e, a monte, nell’art. 18 cit..
Al ricorrente non gioverebbe, poi, la circostanza di non aver partecipato alla seduta del collegio accademico, atteso che il legislatore del 2010 avrebbe inteso circondare la procedura di chiamata di cautele maggiori, a garanzia di imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa, rispetto a quelle assicurate dal generale obbligo di astensione. Così come non sarebbe stato sufficiente al professor Capano rassegnare le dimissioni dall’organo collegiale in vista della sua partecipazione alla procedura, giacché neppure questa condotta avrebbe evitato il sospetto di influenza indebita che la legge vorrebbe prevenire.
3.2. Sintetizzate in tal modo le contrapposte prospettazioni, può venirsi all’esame dei motivi di gravame, che, per manifeste ragioni di connessione, saranno trattati congiuntamente.
3.2.1. Si è visto come le difese delle parti convergano nel riconoscere natura di stretta interpretazione al divieto di partecipazione alle procedura di chiamata stabilito dall’ultimo periodo dell’art. 18 co. 1 lett. b) della legge n. 241/2010.
Di tale avviso è anche il collegio, trattandosi di una disciplina limitativa dell’accesso a un pubblico impiego, che, come tale, va interpretata restrittivamente, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale nella materia (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 4940; id., sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6494; id., sez. V, 20 settembre 2001, n. 4961).
Ne deriva, in prima battuta, la difficoltà, quando non l’impossibilità, di fare ricorso all’interpretazione estensiva sollecitata dall’Avvocatura erariale (sul divieto di interpretazione estensiva o analogica norme di stretta interpretazione, per tutte cfr. Cass. civ., sez. VI, 12 novembre 2015, n. 23175; Cons. Stato, sez. V, 23 marzo 2015, n. 1565; id., sez. III, 2 dicembre 2014, n. 5960), a meno di non voler ritenere che si tratti dell’unica strada utilmente percorribile per attribuire alla norma un significato conforme a Costituzione.
In questa ottica, non pare inutile ricordare che il giudice comune è tenuto a esplorare la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della legge, senza tuttavia poter varcare il limite dell’univoco tenore letterale della norma di volta in volta considerata. L’interpretazione conforme a Costituzione “cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca…”, appartenendo “pur semprealla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo” (così Corte Cost. 19 febbraio 2016, n. 36).
L’insegnamento del Giudice delle leggi ha guidato la giurisprudenza amministrativa nell’estendere il divieto di partecipazione di cui all’art. 18 co. 1 lett. b) della legge n. 240/2010 al caso del rapporto di coniugio, non espressamente previsto dalla disposizione, la quale menziona i soli “rapporti di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso”. Si è infatti osservato che l’elemento giustificativo dell’incompatibilità sancita dalla legge, ovvero la familiarità derivante dal rapporto di parentela o affinità tra uno dei candidati e i componenti degli organi dell’ateneo, tale da affievolire il principio di uguaglianza e la par condicio dei candidati stessi, raggiunge la massima intensità proprio nel caso del coniuge; di modo che sarebbe irragionevole, anche in relazione al principio di imparzialità dell’azione amministrativa, non reputare che la norma includa il caso del coniugio come situazione genetica della medesima incompatibilità, a maggior ragione se si considera che quest’ultima può derivare dall’affinità, vale a dire dal rapporto con i parenti del coniuge (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 marzo 2013, n. 1270, che ha confermato T.A.R. Abruzzo, 25 ottobre 2012, n. 703).
A ben vedere, la consequenziale conclusione secondo cui, omettendo di menzionare il rapporto di coniugio, la legge minus dixit quam voluit non pare eccedere i limiti della portata semantica della norma, ed è comunque coerente con lo scopo perseguito dal legislatore, quale emerge con chiarezza dal tenore letterale della disposizione. Essa costituisce il frutto dell’applicazione combinata dei canoni ermeneutici dell’interpretazione letterale e teleologica, più – e prima ancora – che di una vera e propria interpretazione estensiva.
Ora, l’amministrazione resistente afferma che le medesime ragioni, in virtù delle quali la giurisprudenza ritiene doversi fare applicazione dell’art. 18 co. 1 lett. b) della legge n. 240/2010 anche al rapporto di coniugio, imporrebbero di estendere il divieto di partecipazione all’ipotesi in cui, come nella specie, alla procedura di chiamata intenda concorrere non il parente, l’affine o il coniuge di un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo, ma, in prima persona, un docente già membro degli organi deliberativi interessati.
L’argomento della Scuola resistente, dichiaratamente utilizzato in senso atecnico, secondo cui “ognuno è il primo parente di se stesso, il parente di grado 0”, è suggestivo, ma non convince.
Non è negabile che il componente dell’organo dell’ateneo versi – rispetto alla procedura di chiamata deliberata dallo stesso organo di appartenenza, ed alla quale intenda partecipare – in una situazione di potenziale conflitto di interessi. Tanto premesso, la ratio del divieto di partecipazione di cui al più volte citato art. 18 co. 1 lett. b) l. n. 240/2010 risiede nella volontà del legislatore di contrastare uno specifico fenomeno, quello del c.d. familismo universitario (Cons. Stato, n. 1270/2013, cit.); e si riflette nella formulazione testuale della disposizione, la quale identifica i destinatari del divieto in ragione dell’esistenza di un rapporto di parentela o affinità, che, per quanto detto, è altresì riferibile in via interpretativa al coniugio.
Sul piano lessicale, il divieto non può essere esteso al candidato, il quale sia egli stesso componente dell’organo che ha deliberato la chiamata. Anche volendo estendere al massimo della loro portata semantica le espressioni adoperate dal legislatore, altro è l’esistenza di un rapporto di parentela, o affinità, o coniugio, dal quale deriva l’incompatibilità, altro è la titolarità in proprio di interessi potenzialmente confliggenti con quelli dell’organo/ente cui si appartiene.
E, del resto, l’estensione non è possibile neppure sul piano teleologico.
Il “familismo” è una delle possibili forme che può assumere il conflitto di interessi, in presenza del quale sorge l’obbligo di astensione del pubblico dipendente oggi enunciato in termini generali dall’art. 6-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, ma da epoca ben più risalente conosciuto e disciplinato dall’ordinamento (si pensi all’art. 290 del R.D. 4 febbraio 1915, n. 290), al punto da integrare una delle tradizionali figure sintomatiche dell’eccesso di potere. Conferma se ne ha dall’art. 7 del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, in forza del quale “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza”.
Come affermato anche dalla difesa dell’amministrazione, il legislatore del 2010 ha inteso rafforzare in termini formali assoluti e preclusivi la tutela avverso il sospetto che le decisioni degli organi deliberativi degli atenei italiani possano essere influenzate dalla volontà di favorire direttamente soggetti legati da vincoli familiari con i componenti degli organi, e indirettamente questi ultimi, non ritenendo sufficiente il mero obbligo di astensione dalle decisioni. Nel far questo, del tutto coerentemente il legislatore non ha dettato una disposizione dedicata, in ambito universitario, al contrasto del conflitto di interessi tout court, ma ha individuato un’ipotesi qualificata di conflitto di interessi, quella legata, appunto, all’esistenza del rapporto di parentela o affinità, giudicata meritevole di particolare attenzione e di cautele aggiuntive (è appena il caso di rammentare l’elevato livello di attenzione che l’opinione pubblica notoriamente ha riservato e riserva agli episodi di vero o presunto favoritismo familiare in ambiente universitario).
Questa è l’intenzione che traspare e si coglie dal testo di legge, e che rende palese la ragione per la quale la norma non si occupa affatto della differente ipotesi del conflitto coinvolgente interessi propri del componente dell’organo deliberativo dell’ateneo. In relazione a quest’ultima, perciò, l’interpretazione estensiva propugnata dall’amministrazione non si giustifica, non essendo verosimile che il legislatore, pur volendo includere nel divieto di partecipazione anche i soggetti portatori di un conflitto di interessi in proprio (non derivante da legami familiari), abbia però omesso di menzionarli.
Specularmente, se fosse vero che il divieto di partecipazione alle procedure di chiamata non richiede il rapporto familiare cui la norma fa espressamente riferimento, allora esso dovrebbe reputarsi esteso alla generalità delle fattispecie di conflitto di interessi, in evidente distonia con la formulazione dell’art. 18 co. 1 lett. b), ancorché interpretato estensivamente.
Né il risultato al quale perviene l’impugnato provvedimento di esclusione è sostenibile sul piano dell’analogia, la quale è impedita dalla mancanza dell’eadem ratio tra la posizione del ricorrente e la fattispecie dalla quale la legge fa discendere il divieto di partecipazione: l’una e l’altra sottintendono una situazione di conflitto di interessi, ma quello che il legislatore ha voluto munire di una sanzione aggiuntiva è il solo conflitto qualificato dal rapporto familiare (la ratio della norma risiede, lo si ripete, nel contrasto specifico al familismo, non al conflitto di interessi “generico”).
Per altro verso, e a maggior ragione, il ricorso all’analogia è precluso dalla circostanza che non vi sono lacune da colmare nell’ordinamento. Il conflitto di interessi è assoggettato a una disciplina di carattere generale che trova applicazione anche nel caso in esame, di modo che non vi è alcuna necessità di individuare una diversa norma che regoli la fattispecie, e la cui mancanza determinerebbe un intollerabile vuoto di tutela.
L’estensione invocata dall’amministrazione, in altri termini, non è affatto necessitata, né può dirsi che sia manifestamente irragionevole il trattamento differenziato riservato dal legislatore ad ipotesi obiettivamente non omogenee, per la peculiare caratterizzazione che il conflitto di interessi assume quando è “colorato” dal rapporto di familiarità. Non appare, cioè, manifestamente irragionevole che il legislatore abbia assunto alcune cause di incompatibilità – quelle nascenti da rapporti familiari – a vere e proprie cause di esclusione dalla procedura di chiamata, lasciando ferma per il resto (non l’assenza di regole, ma) l’ordinaria disciplina del conflitto di interessi e del connaturato obbligo di astensione.
3.2.2. Se così è, deve escludersi sia che il ricorrente, nella sua veste di componente del collegio accademico, incorresse nel divieto di partecipazione di cui all’art. 18 co. 1 lett. b) della legge n. 240/2010; sia che il divieto, nei suoi confronti, potesse ricavarsi dal regolamento della Scuola per la disciplina del reclutamento dei professori, nel testo anteriore alle modifiche introdotte con il decreto n. 732 del 29 dicembre 2016.
Tali modifiche, nella parte in cui prevedono espressamente l’incandidabilità di direttore, segretario generale e componenti del collegio accademico e del consiglio direttivo, sono state dichiarate applicabili anche alle procedure già in corso, risultandone con ciò violata la regola generale dell’irretroattività dell’azione amministrativa, espressione del principio di legalità e dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, che, in specie per gli atti a contenuto normativo, trova fondamento positivo nell’art. 11 delle preleggi. L’irretroattività assume un rilievo preminente quale garanzia rispetto all’adozione di provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato, impedendo all’amministrazione di incidere unilateralmente e con effetto ex ante sulle situazioni soggettive individuali (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 2016, n. 882; id., sez. V, 30 giugno 2011, n. 3920).
L’amministrazione non adduce alcuna plausibile ragione per giustificare la scelta della retroattività, salvo sostenere che la modifica regolamentare qui impugnata non avrebbe contenuto innovativo, ma ricognitivo di una regola già immanente nella disciplina vigente al momento di indizione della procedura: assunto smentito da tutte le considerazioni svolte in precedenza circa la corretta interpretazione dell’art. 18 co. 1 lett. b) della legge n. 240/2010, e, conseguentemente, del divieto di partecipazione stabilito dal regolamento di ateneo al momento dell’indizione della procedura.
Se, dunque, l’illegittimità del provvedimento di esclusione discende dalla eccessiva latitudine che la Scuola resistente ha attribuito al divieto di partecipazione alle procedure di chiamata, altrettanto illegittimo è il diniego della Scuola di rivedere in autotutela il proprio operato, frapposto al ricorrente in considerazione, fra l’altro, del contenuto meramente ricognitivo delle modifiche frattanto apportate all’art. 6 del menzionato regolamento di ateneo.
La partecipazione del professor Capano alla procedura va esente da vizi anche sotto il profilo della disciplina generale del conflitto di interessi e dell’obbligo di astensione, atteso che egli non ha partecipato alla seduta dal collegio accademico nella quale è stata deliberata l’indizione della procedura di chiamata.
4. In forza di tutto quanto precede, il provvedimento di esclusione del ricorrente dalla procedura e il successivo diniego di riesame in autotutela debbono essere annullati, unitamente alle modifiche al regolamento di ateneo approvate con decreto del 29 dicembre 2016, nella misura in cui se ne dispone l’applicabilità alla procedure in corso e, segnatamente, alla procedura di chiamata cui ha partecipato il professor Capano.
4.1. Le spese di lite possono essere compensate, stante la novità delle questioni e l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla gli atti e provvedimenti impugnati, nei sensi di cui in parte motiva.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 8 novembre 2017 con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Presidente
[#OMISSIS#] Bellucci, Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
Pubblicato il 02/02/2018