Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1090/2025, ha confermato la sentenza di primo grado con cui si rigettava la richiesta di annullamento del Decreto Rettorale che applicava la sanzione disciplinare della destituzione nei confronti di un docente universitario.
La vicenda, piuttosto complessa, prendeva avvio nel settembre del 2014 quando, a seguito dell’ordinanza interdittiva del giudice delle indagini preliminari, veniva avviata l’azione disciplinare nei confronti del docente. Tale procedimento, però, veniva sospeso per nove anni fino al passaggio in giudicato della sentenza della Corte di Cassazione (marzo 2023), e si concludeva definitivamente solo nel 2024.
I motivi di appello si sono concentrati principalmente su due questioni: innanzitutto, si è contestato l’esercizio dell’azione disciplinare solo nel 2014 quando, per la risonanza mediatica degli accadimenti e per effetto di un esposto presentato da venticinque specializzandi, i fatti erano già ben noti; in secondo luogo, si è sostenuta la illogicità, la contraddittorietà e la intempestività del provvedimento disciplinare, avendo questo contestato addebiti a distanza di diverso tempo (2024), e cioè nove anni dopo il primo accertamento dei fatti (2014).
Secondo il Consiglio di Stato, tuttavia, tali doglianze sono infondate per diverse ragioni.
Quanto al primo profilo, si è sottolineato che i termini di legge che scandiscono i tempi e le fasi del procedimento disciplinare nei confronti dei docenti universitari – sia quelli relativi all’avvio della procedura, che quelli riferibili al tempo in cui deve intervenire il parere del Collegio di disciplina, rispettivamente dettati dal comma 2 e dal comma 3 dell’art.10 della L. n. 240 del 2010 – hanno natura ordinatoria.
A dire dei giudici, infatti, i commi 2 e 3 dell’art. 10 della L. n. 240/2010 avrebbero una diversa struttura testuale rispetto al comma 5 del medesimo articolo, che prevede il termine di centottanta giorni per l’emanazione della decisione disciplinare di competenza del Consiglio di amministrazione. Quest’ultima disposizione, infatti, diversamente dalle prime due, tipizzerebbe i casi in cui è possibile sospendere il ridetto termine, lasciando così intendere, in via deduttiva, che la relativa previsione abbia natura tassativa. Viceversa, nessuna delle altre due norme contiene previsioni analoghe, pertanto, in applicazione del criterio interpretativo dell’ “ubi lex voluit, dixit”, si deduce la natura ordinatoria delle indicazioni contenute, sia nel comma 2 che nel comma 3, del ridetto articolo 10.
Secondo i giudici, tale interpretazione si giustificherebbe anche in base a un’interpretazione logica di tali disposizioni. Infatti, sia al momento della decisione dell’organo apicale in ordine al se avviare l’azione disciplinare (art. 10, comma 2), che in quello consimile che riguarda la determinazione del Collegio di disciplina (art. 10, comma 3), potrebbero verosimilmente ricorrere (come spesso accade) ragioni, legate alla necessità di più attente valutazioni, suscettibili di indurre gli organi procedenti a ulteriori approfondimenti. In questo senso, quindi, ritenere che i termini per l’esercizio delle relative facoltà e poteri siano perentori nuocerebbe senz’altro alla completezza degli accertamenti. A parere del Collegio, quest’ultima considerazione troverebbe un’indiretta conferma proprio nella vicenda qui controversa dove il rettore, che pure aveva già ricevuto notizia dei fatti illeciti riguardanti la parte appellante nel 2013, ha preferito attendere gli esiti delle indagini penali, da lui stesso propiziate con la trasmissione degli atti alla competente A.G., prima di elevare formale contestazione nei confronti del medesimo (2014).
La tesi della natura ordinatoria dei termini de quibus si fonderebbe anche sull’interesse pubblico all’accertamento dei fatti, a tutela del prestigio dell’amministrazione di appartenenza dell’incolpato rispetto alla quale, a determinate condizioni, l’interesse del dipendente ad ottenere una rapida definizione del processo può anche essere ritenuto recessivo.
Quanto, infine, al secondo profilo – l’esercizio dell’azione disciplinare a distanza di diversi anni dai fatti – il Consiglio di Stato si è limitato a considerare come la decisione di attendere gli esiti degli ulteriori accertamenti giudiziari, che si avvalgono di più incisivi metodi di verificazione rispetto a quelli condotti in sede amministrativa, prima di decidere l’apertura del procedimento disciplinare, sia ispirata da ragioni di prudenza, che non possono ritenersi illegittime, né tanto meno inopportune.