Con sentenza del 8 settembre 2023, n. 13684, il TAR Lazio, Roma, Sez. III ter si è pronunciata sul ricorso di un professore ordinario, a cui era stata irrogata una sanzione disciplinare, da parte del proprio Ateneo, per aver predisposto un bando su misura del candidato poi risultato vincitore del concorso, attraverso una ”procedura sostanzialmente irregolare da lui promossa e attuata”.
Il giudice amministrativo ha rigettato il ricorso, articolato in diverse doglianze, chiarendo alcuni importanti principi in materia di procedimento disciplinare.
Ripercorrendo la sentenza, con il primo motivo di doglianza, il ricorrente deduceva la violazione della c.d. pregiudiziale penale, in ragione dell’asserita applicabilità ai professori universitari, nel silenzio dell’art. 10 legge n. 240/2010, dell’art. 117 D.P.R. n. 3/1957, rubricato “Sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale”. Il Collegio rileva, sul punto, che ”il procedimento disciplinare nei confronti dei docenti universitari è, come noto, disciplinato dalla legge n. 240/2010, la quale, all’art. 10 – nulla prevede – in merito al rapporto tra procedimento disciplinare e processo penale, la cui definizione è piuttosto rimessa alla facoltà discrezionale attribuita all’Amministrazione (in tali termini, Consiglio di Stato, Sezione Settima, sentenza n. 1426/2023). Ciò è, d’altronde, in linea con il principio generale dell’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale. Ne deriva, allora, che, non essendo più la pregiudiziale penale un principio generale […], essa può applicarsi solo laddove espressamente sancita, dovendo escludersi un’interpretazione estensiva delle norme che specificamente la prevedono. In tale ottica, non può, quindi, condividersi la tesi di parte […] dell’applicabilità dell’art. 117 DRP n. 3/57 anche ai professori universitari”.
Con il secondo motivo, parte ricorrente si duole della mancata osservanza del principio del contraddittorio e delle garanzie che presiedono i procedimenti sanzionatori. Sul punto, il Collegio ritiene che ”il procedimento in questione si sia invero svolto in piena osservanza delle garanzie formali e sostanziali che devono presiedere detti procedimenti, avendo il ricorrente avuto la possibilità, ed esercitato la facoltà, di essere più volte ascoltato, sia in sede di avvio dell’azione disciplinare innanzi al Delegato della Rettrice, che in sede di istruttoria davanti al Collegio di Disciplina, assistito dal proprio difensore di fiducia; di avere accesso agli atti e, nella specie, alle registrazioni audio disponibili; nonché di produrre difese scritte e documenti a sua difesa. In altri termini, il ricorrente ha avuto ampia possibilità di contraddire e difendersi, non potendo ulteriormente e legittimamente pretendere anche la formazione della prova in contraddittorio, la facoltà di contro-dedurre su ogni acquisizione probatoria, nella specie, sugli esiti testimoniali, o il “diritto all’ultima parola”. Si tratta infatti di garanzie previste per il procedimento penale non estensibili, ontologicamente, a quello disciplinare, anche in ragione delle tempistiche contingentate dettate dal legislatore per la conclusione dell’azione disciplinare, imposta, come noto, entro 180 giorni dalla data di avvio della stessa. In base a quanto previsto dallo stesso art. 10 legge n. 240 cit., il procedimento disciplinare deve invero svolgersi nel rispetto della garanzia del contraddittorio (comma 1), senza ulteriormente declinare le concrete modalità con cui esso deve essere assicurato, che vengono invece lasciate alla disciplina della fonte secondaria, rappresentata dal Regolamento di Ateneo”.
Con il terzo motivo, il ricorrente deduce una violazione del divieto di mutatio libelli, asserendo che la sanzione si baserebbe su contestazioni diverse da quelle mosse con l’avvio del procedimento disciplinare. Sul punto, il Collegio afferma, invece, ”che non vi è violazione del principio di immutabilità della contestazione “in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, ma solo nel caso in cui tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa. Il diritto di difesa, garantito dal divieto di mutatio libelli risulta, quindi, violato, solo quando, a fondamento della sanzione disciplinare, vengano poste circostanze sostanzialmente differenti da quelle addebitate, rispetto alle quali l’interessato non sia stato in grado di replicare”. Violazione del diritto di difesa, che, nel caso di specie, non si era dunque verificata.
Con il quarto motivo di ricorso, il ricorrente contesta l’uso delle registrazioni audio in quanto relative a conversazioni intercorse tra soggetti terzi. Per il Collegio, ”la censura non coglie nel segno, atteso che l’Amministrazione […] ha utilizzato quanto emerso dai colloqui telefonici in funzione delle successive e autonome valutazioni compiute in sede di istruttoria, non limitandosi all’acquisizione dei contenuti delle registrazioni, ma svolgendo un’accurata istruttoria dalla quale ha autonomamente tratto conferma della sussistenza dei fatti addebitati al ricorrente, su cui lo stesso ha avuto più volte modo di argomentare”.