Con sentenza n. 10088 del 16 dicembre 2024, il Consiglio di Stato ha ribadito che, in assenza di autorizzazione allo svolgimento di attività di libera professione da parte dell’Università di appartenenza, grava sul professore un obbligo di riversamento dei compensi indebitamente percepiti ai sensi dell’art. 53, comma 7, D.lgs. n. 165/2001.
A nulla sono valse le osservazioni dell’appellante, secondo cui, da una parte, l’art. 53, comma 7, TU sul pubblico impiego farebbe riferimento ai soli “incarichi” non autorizzati dall’Amministrazione di appartenenza e, dall’altra, la nozione di “incarico” di cui al citato comma 7 dovrebbe essere tenuta distinta da quella di esercizio della libera professione, quest’ultima caratterizzata dagli elementi dell’abitualità, della sistematicità e della continuità.
La tesi, pur considerata suggestiva, è stata ritenuta priva di fondamento dai Giudici di Palazzo Spada, i quali hanno evidenziato che l’art. 53, comma 7, del D. lgs. n. 165/2001 si applica e non può non applicarsi anche all’ipotesi di esercizio di attività libero-professionale radicalmente incompatibile con il rapporto esclusivo di pubblico impiego, che appare ben più grave del mero espletamento di un singolo isolato incarico o singoli incarichi non previamente autorizzati, non legittimi l’amministrazione a richiedere i compensi percepiti.
Una interpretazione diversa finirebbe per incentivare i pubblici dipendenti a svolgere una doppia professione, senza temere alcuna conseguenza economica di tale gravissima infedeltà (al di là di eventuali provvedimenti disciplinari e finanche della decadenza dall’impiego), potendo per absurdum essi trattenerne i compensi relativi impunemente.
Pertanto, la mancata richiesta di autorizzazione, o per meglio dire, l’omessa informativa integra una condotta tesa all’occultamento del danno, mentre elemento costitutivo del fatto dannoso deve ritenersi il mero svolgimento dell’attività, vietata a monte dal legislatore, in contrasto con lo status di professore a tempo pieno.