Per i docenti universitari, l’opzione del regime a tempo pieno è “incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito e con l’esercizio del commercio e dell’industria;pur avendo optato già dal 16 luglio 2003 per il regime di i pegno a tempo pieno, “ha continuato ad esercitare, in modo abituale e professionale … l’attività di lavoro autonomo mediante prestazioni di servizi nella medicina del lavoro rese nei confronti di dipendenti relative ad imprese ubicate nella regione Emilia Romagna”. Lo svolgimento di attività di tale natura, peraltro non occasionali ma continuative, è incompatibile con il regime prescelto dal ricorrente e rende indebita la percezione dell’indennità pervista per quanti abbiano optato per il tempo pieno, a nulla rilevando la circostanza, enfatizzata in ricorso, che al ricorrente non sia contestato di essere venuto meno ai propri doveri (come anticipato, lezioni, esami e riunioni) poiché l’indennità percepita, come già evidenziato, non trova causa in una sorta di obbligazione di risultato ma nell’esclusività del rapporto: carattere che legittima la percezione della indennità e mancando il quale detta percezione è indebita.
TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 11 luglio 2018, n. 185
Incompatibilità – Docenti a tempo pieno
N. 00185/2018 REG.PROV.COLL.
N. 00283/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna
sezione staccata di Parma (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 283 del 2012, proposto da
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], rappresentato e difeso dall’Avvocato [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] presso il quale elegge domicilio, in Parma, borgo Antini n. 3;
contro
Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e Ministero della Pubblica Amministrazione e la Semplificazione, in persona dei Ministri pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato presso la quale sono ex legedomiciliati, in Bologna, via Guido Reni n. 4;
per l’annullamento
del provvedimento prot. n. 16762 del 15.5.2012 con cui il Rettore dell’Università degli Studi di Parma ingiunge al ricorrente di procedere al versamento di € 77.302,64, pari alla differenza tra il regime di impegno a tempo pieno e quello a tempo definito, relativo al periodo 2003-2009;
del Decreto Rettorale n. 305 del 22.3.2012, con il quale è stato disposto il recupero delle somme a debito del ricorrente;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Difesa erariale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 giugno 2018 il dott. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con nota del 17 settembre 2010, la Presidenza del Consiglio dei Ministri informava l’Università di Parma circa gli esiti degli accertamenti esperiti dalla Guardia di Finanza a carico del ricorrente, Professore associato in regime di impegno a tempo pieno che, in violazione dell’obbligo di esclusività, negli anni 2003-2009, aveva privatamente espletato attività di medico del lavoro presso aziende private.
Con comunicazione “ai sensi degli artt. 7 e segg. –Legge n° 241/1990” del 5 ottobre 2011, l’Università informava il ricorrente “ad ogni effetto di legge, compresi quelli ai fini prescrizionali e decadenziale” di aver avviato il procedimento “finalizzato al recupero degli emolumenti riferiti al periodo dal 2003 al 2009 percepiti e non dovuti” riportando in una apposita tabella gli importi soggetti a recupero relativi a ciascuna annualità.
All’esito del procedimento, l’Università con D.R. del 22 marzo 2012 (che seguiva il procedimento disciplinare precedentemente avviato per i medesimi fatti e archiviato il 1° novembre 2011), con nota del 15 maggio 2012, procedeva a carico del ricorrente al recupero di somme indebitamente percepite nella misura corrispondente alla differenza esistente fra il trattamento economico spettante in regime di tempo pieno e quello a tempo definito.
Il ricorrente impugnava il citato atto deducendo una pluralità di profili di illegittimità.
L’Amministrazione si costituiva in giudizio confutando le avverse doglianze e chiedendo la reiezione del ricorso.
Con memoria depositata il 18 maggio 2018 il ricorrente rassegnava le proprie conclusioni in vista della discussione di merito del ricorso.
All’esito della pubblica udienza del 20 giugno 2018, la causa veniva decisa.
Con il primo capo d’impugnazione il ricorrente, premesso che non risulterebbe “in maniera chiarissima quale sia il titolo azionato dall’amministrazione”, eccepisce la prescrizione dell’eventuale diritto dell’Amministrazione ad ottenere la restituzione delle somme percepite precedentemente l’anno 2007.
Il motivo è infondato.
Preliminarmente deve rilevarsi che non sussistono dubbi circa il titolo in base al quale l’Università procedeva al recupero oggetto del presente giudizio.
Con comunicazione di avvio del procedimento datata 5 novembre 2011, il Rettore specificava che il recupero era riferito a “emolumenti riferiti al periodo dal 2003 al 2009 percepiti e non dovuti, di cui alla relazione della Guardia di Finanza …”.
La richiesta riportava, altresì, una tabella riepilogativa riferita alle “somme da recuperare, pari alla differenza tra la retribuzione prevista per il regime di impegno a tempo pieno e quella a tempo definito”.
Era, pertanto, chiaro sin dall’avvio del procedimento che l’iniziativa dell’Università si rendeva necessaria per recuperare somme corrisposte al ricorrente a titolo di retribuzione in misura superiore a quella dovuta.
Per le medesime ragioni deve ritenersi l’infondatezza del quinto motivo di ricorso con il quale il ricorrente reitera la medesima censura deducendo che il provvedimento impugnato non specificherebbe il fondamento della pretesa.
Quanto all’eccezione di prescrizione sollevata da parte ricorrente, deve evidenziarsi che non è contestato nel presente giudizio:
– che il ricorrente, negli anni di interesse ai fini del presente giudizio, avesse optato per il regime a tempo pieno;
– che il ricorrente abbia, in violazione dei doveri connessi a tale regime, svolto nei medesimi anni attività lavorativa privatamente;
– che la retribuzione prevista per lo svolgimento di attività lavorativa a tempo pieno, sia superiore a quella prevista per le attività svolte in regime di tempo definito;
– che le differenze retributive fra i due regimi specificate nella citata tabella di cui alla comunicazione ex art. 7 della L. n. 241/1990 siano corrette.
Ciò premesso, deve rilevarsi che lo svolgimento da parte del ricorrente di attività privata, incompatibile con il regime di impegno a tempo pieno, veniva accertato dalla Guardia di Finanza a seguito di indagini i cui esiti venivano compendiati in una Relazione trasmessa alla Presidenza del Consiglio con nota del 17 giugno 2010; i medesimi esiti venivano dalla Presidenza del Consiglio trasmessi all’Università di Parma con nota del 17 ottobre 2010; il procedimento teso al recupero delle somme veniva avviato con comunicazione ex art. 7 della L. n. 241/1990 del 5 ottobre 2011 e, infine, il provvedimento in questa sede impugnato, veniva adottato il 15 maggio 2012.
Ciò premesso si rileva che, come la più recente giurisprudenza ha avuto modo di precisare, “l’azione di recupero di somme indebitamente corrisposte al pubblico dipendente da parte della Pubblica Amministrazione è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946, c.c., e non a quella quinquennale prevista dall’art. 2948, c.c., non potendosi far rientrare tale fattispecie fra le ipotesi espressamente contemplate in quest’ultima norma (cfr.: T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 10.10.2014, n. 5294; Cons. St., sez. VI, 26.6.2013, n. 3503)” (TAR Lazio, Roma, Sez. I bis, 19 maggio 2018, n. 5577).
Ne deriva la tempestività della richiesta di recupero in ordine alla quale non maturava, pertanto, l’eccepita prescrizione.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 53 del D. Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 1 della L. n. 689/1981, nonché, eccesso di potere sotto svariati profili.
Sostiene, in particolare, che ai sensi del citato art. 53, l’unica conseguenza prevista a fronte della “violazione delle disposizioni sulle incompatibilità” sarebbe “costituita dal versamento delle somme percepite dal dipendente pubblico all’amministrazione di appartenenza” e che tale versamento graverebbe sul soggetto privato che eroga i compensi e solo in subordine sul dipendente pubblico (pag. 6 del ricorso).
Nessun norma, si afferma, consentirebbe di recuperare le differenze retributive fra i due regimi di impegno.
Ne deriverebbe che l’Amministrazione avrebbe adottato una sanzione atipica in violazione di quanto stabilito dall’art. 1 della L. n. 689/1981 laddove stabilisce, al comma 1, che “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”.
Il motivo è infondato.
L’art. 53, comma 7, del D. Lgs. n. 165/2001, una volta disposto che “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza”, prescrive che “in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Le somme oggetto di recupero ai sensi della richiamata disposizione sono, pertanto, quelle corrispondenti ai compensi dovuti per “le prestazioni eventualmente svolte” in assenza di autorizzazione mentre, nel caso di specie, l’Università procedeva, come specificato nella citata comunicazione di avvio del procedimento, al recupero della “differenza della retribuzione prevista per il regime di impegno a tempo pieno e quella del tempo definito” liquidata in complessivi € 77.302,64: importo corrispondente alla somma degli importi annuali di cui alla già richiamata tabella riportata nella comunicazione di avvio del procedimento del 5 ottobre 2011.
L’affermata estraneità della richiesta di restituzione in questione alla fattispecie disciplinata dalla norma richiamata, determina, altresì, l’infondatezza del terzo motivo di ricorso con il quale il ricorrente deduce l’incompetenza dell’Università ad adottare il provvedimento impugnato poiché il meccanismo sanzionatorio delineato dall’art. 53 del D. Lgs. n. 165/2001 riconoscerebbe il potere di agire per il recupero delle somme in capo al Ministro.
Individuata la causale della richiesta di restituzione in questa sede contestata (relativa, come già evidenziato, ad emolumenti indebitamente percepiti sul presupposto dello svolgimento di una attività in regime di tempo pieno), non può che escludersi, infine, la dedotta natura sanzionatoria dell’azione intrapresa dall’Università con conseguente inconferenza della dedotta violazione del principio di tipicità delle sanzioni amministrative di cui all’art. 1 della L. n. 689/1991.
Con il quarto motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 28 Cost., 18 e 19 del d.P.R. n. 3/1957, 2033 e 2041 c.c. ed eccesso di potere sotto svariati profili poiché, reiterando doglianze già formulate con il primo capo di impugnazione, non sarebbe comprensibile il titolo in base al quale veniva “richiesta la restituzione della differenza retributiva fra quanto percepito come professore a tempo pieno e quanto sarebbe spettato come professore a tempo definito” (pagg. 7 e 8 del ricorso).
Sostiene il ricorrente che la richiesta in questione presupporrebbe l’esistenza di un danno arrecato all’Amministrazione che, nel caso di specie, non è allegato né comprovato atteso che non sarebbe mai venuto meno ai doveri imposti dal regime prescelto (lezioni, esami, riunioni, ecc.).
La conformità della prestazione lavorativa resa a quella dovuta in ragione del regime a tempo pieno, escluderebbe, altresì, che la restituzione possa essere avanzata a titolo di indebito.
Allega, infine, che, per le medesime ragioni, la pretesa dell’Amministrazione non potrebbe trovare causa nemmeno in un arricchimento senza causa poiché il rapporto di lavoro svolto alle dipendenze dell’Università sarebbe conforme al modello legale.
Il motivo è infondato.
L’art. 11, del d.P.R. n. 382/1980, prevede che “l’impegno dei professori ordinari” possa essere “a tempo pieno o a tempo definito” (comma 1) e che la scelta fra i due regimi spetti al docente interessato.
La medesima disposizione, chiarisce ulteriormente che, “il regime a tempo pieno” sia “incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito e con l’esercizio del commercio e dell’industria; sono fatte salve le perizie giudiziarie e la partecipazione ad organi di consulenza tecnico-scientifica dello Stato, degli enti pubblici territoriali e degli enti di ricerca, nonché le attività, comunque svolte, per conto di amministrazioni dello Stato, enti pubblici e organismi a prevalente partecipazione statale purché prestate in quanto esperti nel proprio campo disciplinare e compatibilmente con l’assolvimento dei propri compiti istituzionali” (comma 4, lett. a)
La scelta in favore del regime a tempo pieno, comporta, ai sensi dell’art. 36, comma 6, dello stesso d.P.R. che “la misura del trattamento economico previsto dai precedenti commi” sia “maggiorata del 40 per cento a favore dei professori universitari che abbiano optato per il regime di impegno a tempo pieno”.
Tale incremento retributivo trova causa nell’esclusività del rapporto che, nel caso di specie, è mancata.
Come, infatti, accertato dal Nucleo Speciale della Guardia di Finanza, il ricorrente, pur avendo optato già dal 16 luglio 2003 per il regime di i pegno a tempo pieno, “ha continuato ad esercitare, in modo abituale e professionale … l’attività di lavoro autonomo mediante prestazioni di servizi nella medicina del lavoro rese nei confronti di dipendenti relative ad imprese ubicate nella regione Emilia Romagna”.
Lo svolgimento di attività di tale natura, peraltro non occasionali ma continuative, è incompatibile con il regime prescelto dal ricorrente e rende indebita la percezione dell’indennità pervista per quanti abbiano optato per il tempo pieno, a nulla rilevando la circostanza, enfatizzata in ricorso, che al ricorrente non sia contestato di essere venuto meno ai propri doveri (come anticipato, lezioni, esami e riunioni) poiché l’indennità percepita, come già evidenziato, non trova causa in una sorta di obbligazione di risultato ma nell’esclusività del rapporto: carattere che legittima la percezione della indennità e mancando il quale detta percezione è indebita.
Tale profilo, rileva semmai ai diversi fini della configurabilità di un danno erariale a titolo di responsabilità amministrativa essendo pacifico in giurisprudenza che sia “da escludersi che l’effettiva lesione dell’Ente possa essere rinvenuta in re ipsa nello svolgimento di attività non compatibili con lo status di docente a tempo pieno, occorrendo invece la prova del nocumento che, in concreto, sarebbe derivato all’Ateneo di appartenenza dalla corresponsione dello stipendio a fronte della attività prestata dal docente che abbia correttamente svolto tutti i compiti spettantigli” (Corte dei Conti – Sez. giur. Emilia Romagna n. 14 del 2014. Cfr. , ex plurimis, Sez. giur. di Bolzano, ex n. 18/2012, confermata sul punto dalla Prima Sezione d’Appello n. 1052/2014)” (Corte Conti Reg. (Liguria), sez. Giurisd., 16 aprile 2015, n. 25)
Trattasi tuttavia di profilo estraneo all’odierna controversia, nonché, alla stessa giurisdizione amministrativa.
Con il sesto e ultimo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca.
Il motivo è infondato atteso che, come già esposto, la prescritta comunicazione di avvio è stata effettuata con nota rettorale del 5 novembre 2011 (doc. 2 di parte resistente) e da ultimo con analoga nota n. 16762 del 15 maggio 2012, mediante lettera raccomandata ricevuta il 18 maggio successivo (doc.4).
Per quanto precede il ricorso deve essere respinto con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna Sezione staccata di Parma, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in € 2.000,00.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità Amministrativa.
Così deciso in Parma nella camera di consiglio del giorno 20 giugno 2018 con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] Conti, Presidente
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
[#OMISSIS#] Lombardi, Primo Referendario
Pubblicato il 11/07/2018