N. 00425/2015 REG.PROV.COLL.
N. 00277/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 277 del 2014, proposto da:
– [#OMISSIS#] Montanaro e [#OMISSIS#] Linsalata, rappresentati e difesi dagli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Potenza, al viale [#OMISSIS#] n. 180;
contro
– Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro in carica, Università degli Studi della Basilicata, in persona del Rettore in carica, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Potenza, presso i cui uffici domiciliano, in Potenza, al corso XVIII Agosto 1860;
nei confronti di
– [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], non costituito in giudizio;
per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia,
– del provvedimento n. 73 del 28 febbraio 2014 del Direttore generale dell’Università degli Studi della Basilicata;
– di ogni altro atto connesso, presupposto o consequenziale;
– nonché, per il risarcimento del danno.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi della Basilicata e del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 marzo 2015 il referendario Benedetto [#OMISSIS#] e uditi per le parti i difensori avv. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], anche per dichiarata delega dell’avv. [#OMISSIS#], e avvocato dello Stato [#OMISSIS#] Speranza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Col presente ricorso, spedito per la notificazione in data 3 maggio 2014 e depositato il successivo 13 di maggio, i ricorrenti sono insorti avverso il provvedimento in epigrafe, con il quale è stato disposto: “l’annullamento degli inquadramenti professionali rivenienti dalle procedure di progressione economica verticale perfezionatesi con pp.dd.aa. n. 145 del 4.3.2005, n. 195 del 31 marzo 2005 e n. 304 dell’11 maggio 2005”.
1.1. Hanno esposto, in punto di fatto, i ricorrente che:
– sono dipendenti dell’Università degli studi della Basilicata;
– hanno partecipato alla procedura selettiva interna, per titoli ed esami, riservate ai dipendenti di ruolo a tempo indeterminato ed in servizio presso tale Ateneo, per la c.d. “progressione economica verticale”, dalla categoria C alla D, posizione economica D1, nell’area tecnica, tecnico-scientifica ed elaborazione dati, per n. 1 posto, indetta con provvedimento del direttore amministrativo n. 458 del 12 Settembre 2003;
– in esito a tale procedura, si sono collocati tra gli idonei della graduatoria definitiva e, a seguito di scorrimento della graduatoria, con provvedimento del Direttore amministrativo n. 304/2005 sono stati inquadrati nella categoria D, posizione economica D1, con effetti giuridici dal 1° luglio 2003, ed economici dal 6 maggio 2005;
– con l’impugnato provvedimento n. 73 del 28 febbraio 2014, a circa dieci anni di distanza, è stato disposto l’annullamento di detti inquadramenti professionali;
1.2. In diritto, i ricorrenti hanno dedotto la violazione e falsa applicazione di legge (art. 3 Cost; art. 3, 21-quinquies e 21-nonies legge n. 241/1990; art. 1, n. 136, legge n. 311/2004; principio del legittimo affidamento) e l’eccesso di potere (carenza di istruttoria; difetto dei presupposti; difetto di motivazione; illogicità e irragionevolezza).
2. Si è ritualmente costituito il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo l’estromissione dal giudizio. Si è, altresì, costituita l’Università degli studi intimata, concludendo per il rigetto del ricorso per sua infondatezza.
3. Alla camera di consiglio del 19 giugno 2014, il Collegio ha disposto l’abbinamento al merito dell’istanza cautelare.
4. Alla pubblica udienza svoltasi in data 11 marzo 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. In [#OMISSIS#], va rilevata l’estraneità al presente giudizio, ed il conseguente difetto di legittimazione passiva, del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, in adesione alla conforme eccezione formulata dalla difesa erariale, in quanto lo stesso non ha svolto alcun ruolo nella vicenda in esame.
2. Il Collegio rileva ancora che, dalla disamina degli atti versati in giudizio dall’Avvocatura erariale, emerge l’intimata Università, in data del 28 febbraio 2014, oltre alla impugnata determinazione n. 73/2014, ha emanato anche l’ulteriore provvedimento del Direttore generale n. 74/2014, col quale ha nuovamente disposto: “l’annullamento degli inquadramenti professionali rivenienti dalle procedure di progressione economica verticale perfezionatesi con pp.dd.aa. n. 145 del 4 marzo 2005, n. 195 del 31 marzo 2005 e n. 304 dell’11 maggio 2005”. Tale secondo provvedimento, non impugnato dai ricorrenti, rende improcedibile per sopravvenuto difetto d’interesse il presente ricorso, in quanto l’Amministrazione resistente ha nuovamente definito l’assetto degli interessi in questione in chiave preclusiva delle aspirazioni degli istanti, sicché nessun effetto deriverebbe in capo a questi ultimi dall’annullamento della determinazione n. 73/2015. Ciò nondimeno, il Collegio ritiene di poter prescindere dal rilievo d’ufficio di tale improcedibilità, risultando il ricorso infondato nel merito, alla stregua della motivazione che segue.
3. Col primo motivo, i ricorrenti deducono che il provvedimento impugnato risulterebbe carente di motivazione in ordine alla ragioni dell’illegittimità del provvedimento di inquadramento, risultando anche contraddittorio. In particolare: a) nessun effetto diretto ed automatico potrebbe derivare dalla sentenza della Corte dei Conti, sez. I giurisdizionale centrale n. 52/2012, in esso richiamata; b) non sarebbero stati indicati i vizi invalidanti la procedura; c) la stessa Università resistente avrebbe dato atto di aver correttamente proceduto alla previa ricognizione del proprio fabbisogno di personale, come dimostrerebbe anche la decisione di questo Tribunale n. 95/2009; d) sarebbe stata del tutto omessa la motivazione in relazione alla pretesa inosservanza delle disposizioni normative relative alle percentuali da destinare al reclutamento di personale dall’esterno.
3.1. Le censure risultano sprovviste di giuridico pregio. In senso contrario a quanto prospettato dai ricorrenti, va rilevato che il provvedimento del Direttore generale n. 73 del 28 febbraio 2014, sul versante motivazionale, si incentra, tramite richiamo ob relationem, oltre che sulla predetta sentenza della Corte dei Conti, anche sui pareri resi in merito rispettivamente dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Potenza e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. In particolare, il provvedimento concerne i seguenti due aspetti: a) l’inadempimento dell’obbligo di previa programmazione del fabbisogno di personale; b) la violazione del principio, di rilevo costituzionale, dell’accesso tramite concorso agli impieghi presso le amministrazioni pubbliche, da assicurare in misura almeno paritetica, tanto sul versante numerico quanto su quello qualitativo, rispetto ai posti da ricoprire tramite procedure di riqualificazione professionale riservate al personale già in servizio. Al riguardo, a giudizio del Collegio, assume speciale rilevanza la palese violazione dell’obbligo di garantire un adeguato accesso dall’esterno, in misura non inferiore al 50% dei posti da coprire. Sul punto, l’art. 35, n. 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, è chiaro nel disporre che l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene tramite procedure selettive che: “garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno”. In senso coerente, lo stesso art. 57 del c.c.n.l. per il personale del comparto dell’Università del 9 agosto 2000, rubricato “progressione verticale nel sistema di classificazione”, prevede (al n. 2) che nell’espletamento di procedure selettive per l’accesso a ciascuna categoria, riservate al personale in servizio della categoria immediatamente inferiore, “va salvaguardato comunque un adeguato accesso dall’esterno”, individuando (al successivo n. 6) la percentuale dei posti di organico da destinare ai passaggi alla categoria immediatamente superiore nella misura del 50% dei posti da coprire calcolati su base annua. Del resto, il principio “dell’adeguato accesso dall’esterno” costituisce declinazione dell’art. 97 Cost. laddove, nel disporre che ai pubblici uffici si accede “mediante concorso salvi i casi stabiliti dalla legge”, impone che il concorso costituisca la regola generale per l’accesso ad ogni tipo di pubblico impiego, ivi compreso quello inerente ad una categoria professionale superiore, essendo lo stesso: “il mezzo maggiormente idoneo ed imparziale per garantire la scelta dei soggetti più capaci ed idonei ad assicurare il buon andamento della Pubblica amministrazione” (cfr. Corte cost., sentenze 1/1999, 487/91, 453/90, 161/90). Ne discende che la copertura dei posti nei ruoli della pubblica amministrazione avviene in via generale mediante concorso pubblico, mentre le c.d. “progressioni verticali” non possono precludere l’accesso al lavoro pubblico dall’esterno. Il giudice delle leggi ha infatti avuto modo di affermare che la progressione nei pubblici uffici deve avvenire, in linea di principio, per concorso (cfr., ex multis, Corte cost. sentenza n. 30 del 2012), e lo stesso legislatore del 2009 ha, di fatto, posto termine al sistema di avanzamento per “progressioni verticali” prevedendo, all’art. 52, n. 1-bis, d.lgs. n. 165/2001 che le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. Ebbene, è lampante che nella fattispecie di cui è causa l’Università degli studi della Basilicata ha del tutto disatteso, nell’inquadramento del personale interno, il predetto limite massimo del 50 per cento dei totale dei posti da coprire. Invero, con riferimento alla sola categoria D, rilevante ai fini del presente ricorso, emerge dagli atti di causa che, a fronte dell’indizione di un concorso pubblico per n. 4 posti di tale categoria (provvedimento del Direttore amministrativo n. 626 del 30 novembre 2005), risultano disposti ben 22 inquadramenti derivanti da progressioni verticali, tra cui quelli degli odierni ricorrenti.
3.2. Va pure respinta la doglianza concernente la “totale omissione”, nell’impugnato provvedimento della motivazione relativa “all’omessa osservanza delle disposizioni normative relative alle percentuali da destinare al reclutamento di personale ab externo”. Infatti, tale profilo risulta ampiamente sviluppato nella sentenza del giudice contabile e nei pareri richiamati per relationem nell’atto impugnato.
3.3. Il provvedimento impugnato risulta quindi adeguatamente ed autonomamente motivato con riguardo alla violazione del principio dell’adeguato accesso dall’esterno, e ciò dispensa il Collegio da ogni ulteriore valutazione in ordine agli ulteriori e diversi versanti motivazionali oggetto di contestazione.
4. I ricorrenti, col secondo, terzo e quarto motivo, che possono essere scrutinati congiuntamente in ragione della loro connessione logica, lamentano la violazione degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990, in quanto l’Università resistente non avrebbe dato conto alcuno della sussistenza di un interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo, concreto ed attuale, differente da quello alla mera reintegrazione dell’ordine giuridico violato, e ciò anche in ragione dell’ampio lasso di tempo ormai trascorso, pari a circa un decennio ed ampiamente superiore a quello “ragionevole” prescritto dalla normativa di riferimento. Inoltre, sarebbe stato trascurato l’interesse “a garantire la regolare gestione degli affari amministrativi”. Ancora, risulterebbe del tutto ignorata ogni considerazione del legittimo affidamento maturato in anni di attività lavorativa all’interno dell’Ateneo, con inquadramento nella categoria D.
4.1. La censure non sono meritevoli di condivisione. In senso contrario, va richiamato in primo luogo il consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui: “in caso di annullamento d’ufficio di un illegittimo provvedimento di inquadramento di pubblico dipendente, che abbia determinato ingiustificati oneri per l’Erario, non occorre una specifica motivazione sull’interesse pubblico all’intervento in autotutela, in quanto tale interesse è in re ipsa ed è quello a risparmiare e ad evitare spese non giustificate in base alla normativa, il che significa che, per procedere all’annullamento d’ufficio di un inquadramento illegittimo, è sufficiente l’esigenza di ripristinare la legalità violata” (cfr. C.d.S., sez. III, 15 aprile 2013, n. 2022; nello stesso senso, tra le tante, C.d.S., sez. VI, 20 settembre 2012, n. 4994; id. sez. VI, 16 marzo 2009, n. 1550; T.A.R. Basilicata, 23 dicembre 2013, n. 813; T.A.R. Campania, Salerno, 8 luglio 2014, sez. II, 8 luglio 2014, n. 1226). Si tratta di principi che “non sembrano neppure suscettibili di diversa valutazione in considerazione dell’affidamento dell’interessato alla permanenza nella propria sfera di interessi della status quo illegittimamente determinatosi” (cfr. T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 19 febbraio 2014, n. 154; T.A.R. Campania, sez. V, 17 aprile 2009, n. 2027). Né in tali casi rileva il tempo trascorso dalla sua emanazione, o possono essere configurati diritti quesiti ed intangibili in favore del soggetto a causa dello status professionale acquisito da un lungo lasso di tempo trascorso, in quanto un tale tipo di diritti non può certo sorgere in base ad atti illegittimi (cfr. C.d.S, sez. V, 4 ottobre 2007, n. 5159; id. 6 ottobre 2007 n.4605; id. 6 settembre 2007, n. 4665; id. 15 dicembre 2005, n. 7136; id. 29 novembre 2004, n. 7749; id., sez. V, 4 novembre 1996, n. 1301). Ciò, peraltro, assume ancora maggiore rilevanza ove si consideri che la complessiva vicenda oggetto di disamina da parte di questo Tribunale non si esaurisce in casi numericamente limitati, ma si incentra su un ampio riesame che ha coinvolto diecine di posizioni di dipendenti dell’Università procedente, con evidente incidenza delle rilevate illegittimità sul complessivo assetto organizzatorio dell’ente, e conseguente sussistenza del prevalente interesse pubblico alla riconduzione di tale assetto entro l’alveo della legittimità, nonché del pregiudizio subito da coloro che, pur se in possesso dei prescritti requisiti di legge, si sono visti privare, in violazione di disposizioni di rilievo costituzionale, della facoltà di partecipare a procedure concorsuali pubbliche per l’ammissione ai pubblici impieghi.
4.2. Quanto alla previsione di cui all’art. 1, n. 136, della legge n. 311/2004, pure invocata dai ricorrenti, va evidenziato che detta norma dispone che: “al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione dell’efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”. Come anche chiarito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funzione pubblica, con direttiva del 17 ottobre 2005, la predetta disposizione trova applicazione limitatamente ai casi in cui l’atto di annullamento rinvenga il suo fondamento nella finalità, individuata ex lege, del conseguimento di risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche (cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 3 marzo 2014, n. 685). Diversamente, il provvedimento impugnato col presente ricorso non è motivato, in tutta evidenza, da finalità di risparmio di pubbliche risorse, bensì con quella di “evitare il perpetuarsi del danno erariale”, derivante “dalla indebita corresponsione dei maggiori emolumenti rinvenienti dalle progressioni di carriera in oggetto”, nonché, tramite i riputi richiami ai pareri della Presidenza del Consiglio e dell’Avvocatura Distruttuale delle Stato, alla perdurante attualità della lesione dell’interesse pubblico, conseguente ai duraturi e continui effetti negativi sull’organizzazione amministrativa e sui costi di gestione del personale derivanti da tali inquadramenti illegittimi.
4.3. Peraltro, l’acclarata l’illegittimità dei provvedimenti oggetto di annullamento in autotutela, per violazione del principio costituzionale di adeguato accesso dall’esterno, importa l’applicazione dell’art. 36, n. 5, d.lgs. n. 165/2001, secondo cui: “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”, sicché l’annullamento d’ufficio degli inquadramenti illegittimi di cui è questione assume connotazione di doverosità in considerazione del fatto che i procedimenti concorsuali “interni”, destinati, cioè, a consentire l’inquadramento di dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate, e cioè ad una progressione verticale, comportano una novazione oggettiva del rapporto di lavoro (cfr. Cass. civ., SS.UU., 11 aprile 2012, n. 5699; C.d.S., sezione III, 11 marzo 2013, n. 1449; id. sez. V, 16 luglio 2007, n.4030).
5. I ricorrenti sostengono poi che il provvedimento impugnato determinerebbe una palese disparità di trattamento rispetto alla posizione di un singolo lavoratore, in quanto a quest’ultimo sarebbe stata garantita la conservazione del proprio inquadramento.
Anche tale doglianza va disattesa. Nella fattispecie non è riscontrabile alcun eccesso di potere per disparità di trattamento, in quanto a tal fine è necessaria l’assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato, situazioni la cui prova rigorosa deve essere fornita dall´interessato. Ora, il dipendente di cui trattasi (sig. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], odierno controinteressato) risulta tra coloro che sono stati inquadrati in categoria D, posizione economica D1, area amministrativa, con determinazione n. 195 del 31 marzo 2005. Ebbene, in disparte la diversità dell’area di inquadramento, l’impugnato provvedimento n. 73/2014 risulta aver disposto l’annullamento di tutti gli inquadramenti professionali derivanti, tra l’altro, proprio dal citato provvedimento n. 195/2005, senza eccezione alcuna. D’altro canto, la legittimità dell´operato della pubblica amministrazione non può comunque essere inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra situazione (cfr. C.d.S., sez. VI, 11 giugno 2012, n. 3401; id., sez. VI, 8 luglio 2011, n. 4100), per cui nella vicenda alcun rilievo assume il successivo provvedimento del Direttore generale n. 75/2015, peraltro neppure impugnato dai ricorrenti, che, a quanto traspare dalla memoria depositata dalla difesa erariale, ha in seguito nuovamente definito la specifica posizione del sig. [#OMISSIS#].
6. Va respinta, infine, la domanda di risarcimento del danno che deriverebbe dal fatto che: “sin dall’attribuzione del superiore inquadramento gli odierni ricorrenti hanno esercitato continuativamente e sino ad oggi mansioni che comportano una professionalità più elevata di quella in precedenza utilizzata dalla p.a. senza peraltro mai ottenere ulteriori progressioni stipendiali”, con conseguente indebito vantaggio economico della stessa amministrazione. Invero, per tutto il periodo di inquadramento nella qualifica superiore gli stessi, come risulta anche dal provvedimento impugnato, hanno percepito il trattamento economico corrispondente alla categoria professionale acquista per effetto dell’inquadramento poi caducato, ovverosia quello previsto dalla contrattazione nazionale di comparto in relazione alle mansioni riconducibili alla categoria D. Inoltre, il provvedimento impugnato non ha disposto il recupero delle somme a suo tempo corrisposte, per cui non è dato ravvisare la sussistenza di danno a tale titolo, emergendo anzi dall’inquadramento illegittimo un vantaggio ingiustificato per il dipendente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 7 luglio 2000, n. 3805; id. sez. V, 10 marzo 1999, nn. 243 e 244).
5. Dalle considerazioni che precedono discende il rigetto del ricorso.
6. Sussistono giusti motivi, in ragione delle peculiarità della questione, per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata definitivamente pronunciando sul ricorso, per come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Potenza, nella camera di consiglio del giorno 11 marzo 2015, con l’ntervento dei magistrati:
Italo Riggio, Presidente
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere
Benedetto [#OMISSIS#], Referendario, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/07/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)