TAR Lazio, Roma, Sez. III, 21 novembre 2022, n. 15396

Stabilizzazione a tempo indeterminato dei ricercatori a tempo determinato - art. 20 del d.lgs. n. 75/2017

Data Documento: 2022-11-23
Autorità Emanante: Tar Lazio
Area: Giurisprudenza
Massima

La normativa di cui all’art. 20 del D.Lgs n° 75 del 2017 non trova applicazione ai ricercatori universitari. Il dettato normativo è sufficientemente eloquente laddove prevede che “il rapporto d’impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all’art. 33 della Costituzione ed agli articoli 6 e seguenti della Legge 9 maggio 1989, n° 168, e successive modificazioni ed integrazione, tenuto conto dei principi di cui all’art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n° 421.” La norma valorizza l’assoluta specialità della disciplina che regola l’ambito dei rapporti e collaborazioni in ambito universitario.
Tale peculiarità è stata considerata, poi, dalla stessa legge (d.lgs 75/2017) che, proprio nel riferirsi al rapporto d’impiego dei professori e dei ricercatori universitari, all’art. 22, comma 16, si è premurato di richiamare in maniera espressa, con riguardo a tale ultima categoria, sia i ricercatori assunti a tempo determinato che quelli in ruolo.
E’ evidente, pertanto, come con l’intervento del 2017 il legislatore abbia ritenuto necessario mantenere fermo un regime afferente a un rapporto lavorativo affatto peculiare per il settore universitario per il quale non potevano trovare applicazione le straordinarie misure di stabilizzazione volte alla riduzione del precariato che erano destinate ad altri contesti contrattuali. Infatti, non è suscettibile di una diversa interpretazione una norma che, all’art. 20, stabilisca tali misure avente carattere “extra ordinem” e, nell’art. 22, facendo implicitamente proprio il dettato normativo del comma 2 dell’art. 3 del T.U. 165/2001, si premuri di ribadirne e precisarne il contenuto e l’operatività nel senso di valorizzare l’esistenza di un corpus normativo autonomo (quello del personale docente dell’università) che “resta fermo” e che viene disciplinato in maniera a sé stante.
Del resto, interpretata all’insegna della sua ratio, la norma fa emergere la sua intrinseca coerenza.
Invero, la disciplina dettata dall’art. 20, d.lgs. n. 75/2017, dichiaratamente volta al superamento del precariato del ceto impiegatizio nelle pubbliche amministrazioni, mal si attaglia ad un settore governato da specifiche regole di reclutamento e afferenti alla disciplina del rapporto, le quali sono specificamente ritagliate in virtù dell’elevato livello di qualificazione richiesto per la copertura dei ruoli e appaiono funzionali a scandire il progredire della carriera in ragione della sussistenza di tutta una serie di presupposti, requisiti e positive verifiche (inerenti l’attività didattica, la ricerca e –in generale- il corredo curriculare) che non si conciliano, apparendo consonanti, con una misura di tipo sostanzialmente emergenziale indirizzata alla stabilizzazione di personale precario.
In altri termini, e conclusivamente, ciò che emerge dalla disciplina in questione è la volontà del legislatore di mantenere ferma –al fine di valorizzarne il ruolo- la predetta caratteristica progettuale che connota la natura consustanziale al tempo determinato dell’attività di ricerca, con ciò escludendo la possibilità di incardinare a tempo indeterminato -anche per il tramite dell’invocata disciplina di cui al d.lgs 75/2017- nuovi ricercatori.

Contenuto sentenza

N. 15396/2022 REG.PROV.COLL.
N. 07449/2018 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7449 del 2018, proposto da
[#OMISSIS#] Solfaroli Camillocci, rappresentata e difeso dagli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Universita’ degli Studi Roma La Sapienza, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l’annullamento, previa sospensione,

della nota n. 28335 del 30 marzo 2018, recante in oggetto «istanza di attivazione di una procedura di chiamata volta all’assunzione a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 20, comma1, del decreto legislativo 25 [#OMISSIS#] 2017, n. 75»; per quanto possa occorrere, della circolare n. 3/2017 adottata dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione;

e per l’accertamento

del diritto della ricorrente ad essere [#OMISSIS#] a tempo indeterminato come ricercatrice.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Università degli Studi Roma La Sapienza e di Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’Udienza pubblica del giorno 20 aprile 2022 il Consigliere [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

1. La ricorrente espone di aver prestato servizio presso il Dipartimento di Fisica dell’Università resistente, in qualità di ricercatrice [#OMISSIS#] con il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato di cui all’art. 24, comma 3, lett. a), della l. n. 240 del 2010 (detta anche “Legge [#OMISSIS#]”) nel settore concorsuale 02/A1 dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2017. Prima di questo contratto aveva prestato servizio presso lo stesso Ateneo in qualità di assegnista di ricerca, in virtù di sue assegni biennali (cfr. curriculum allegato n. 3 del ricorso).

1.1 In data 22 marzo 2018, la medesima presentava all’Università una istanza, [#OMISSIS#] al protocollo dell’ateneo in data 23 marzo 2018, di attivazione di una procedura di chiamata volta all’assunzione a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75 del 2017, assumendo di essere in possesso dei requisiti stabiliti dalla disposizione citata (essere in servizio successivamente alla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 con contratto a tempo determinato presso l’amministrazione che procede all’assunzione in esito a procedura concorsuale e aver maturato al 31.12.2017, alle dipendenze dell’amministrazione che procede all’assunzione, almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni) e di rientrare pertanto [#OMISSIS#] fattispecie contemplata dall’art. 20, co.1, d.lgs. n. 75/2017 per l’assunzione a tempo indeterminato, nel triennio 2018-2020, di personale non dirigenziale in possesso dei requisiti da tale [#OMISSIS#] richiesti, e che la Dott.ssa Solfaroli Camillocci, come precisato, nell’istanza del 22 marzo 2018 dichiarava di possedere.

2. Alla predetta istanza dava riscontro l’Ateneo resistente che, con l’impugnata nota del 30 marzo 2018, prot. n. 28335 (All. 1 del ricorso) affermava che “(…) non si ritiene sussistano i presupposti per un accoglimento della stessa. Al riguardo, si evidenzia che la [#OMISSIS#] di cui all’art. 20, comma 1 del d.lgs 25.5.2017, n° 75 non può essere applicata per il reclutamento del personale docente delle università, dal momento che, in base all’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 165/2001 ‘il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato e determinato, [#OMISSIS#] disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa di specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi dell’autonomia universitaria di cui all’articolo 33 della Costituzione ed [#OMISSIS#] articoli 6 e seguenti della legge 9 [#OMISSIS#] 1989, n. 168, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 4212”.

3. Avverso tale decisione insorgeva l’interessata con il ricorso in trattazione affidato a quattro motivi con secondo e il terzo dei quali la ricorrente sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, della l. n. 240 del 2010.

4. L’Università degli Studi Roma Sapienza, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca si costituivano in giudizio instando per la reiezione dello ricorso.

5. Alla [#OMISSIS#] di consiglio del 18 luglio 2018 la Sezione con Ordinanza cautelare 20 luglio 2018, n. 4455, ai sensi dell’art.55, comma 10 c.p.a. fissava per la trattazione del giudizio nel merito l’Udienza pubblica del 3 aprile 2019.

6. L’Università “La Sapienza” di Roma produceva memoria il 18 febbraio 2019.

La ricorrente depositava replica l’1 marzo 2019.

7. All’Udienza pubblica del 3 aprile 2019 il ricorso veniva trattenuto in decisione.

8. La Sezione con Ordinanza collegiale n° 4695 del 10 aprile del 2019, rilevava che con Ordinanza n. 43362018 pubblicata il 3 aprile 2019 e resa nel giudizio n. 122422018 n.r.g. la medesima Sezione aveva sollevato innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali di interpretazione:

“1) se, pur non sussistendo un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, “Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato”, intitolata “Misure di prevenzione degli abusi”, anche alla luce del principio di equivalenza, osti a che una normativa nazionale, quale quella di cui [#OMISSIS#] articoli 29 comma II lettera d) e comma IV del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 e 36 comma II e comma V del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, precluda per i ricercatori universitari assunti con contratto a tempo determinato di durata triennale, prorogabile per due anni, ai sensi dell’art. 24 comma III lettera a) della legge n. 240 del 2010, la successiva instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato;

2) se, pur non sussistendo un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, “Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato”, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi”, anche alla luce del principio di equivalenza, osti a che una normativa nazionale, quale quella di cui [#OMISSIS#] articoli 29 comma II lettera d) e comma IV del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 e 36 comma II e comma V del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, sia applicata dai [#OMISSIS#] nazionali dello Stato membro interessato in modo che il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro è accordato alle persone assunte dall’amministrazione pubblica mediante un contratto di lavoro flessibile soggetto a normativa del lavoro di natura privatistica, ma non è riconosciuto, in generale, al personale assunto a tempo determinato da tale amministrazione in regime di diritto pubblico, non sussistendo (per effetto delle su citate disposizioni nazionali) un’altra misura efficace nell’ordinamento giuridico nazionale per sanzionare tali abusi nei confronti dei lavoratori;

3) se, pur non sussistendo un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, “Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato”, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi”, anche alla luce del principio di equivalenza, osti a che una normativa nazionale, quale quella di cui all’articolo 24, commi primo e terzo, della legge 30 dicembre 2010 n. 240, che prevede la stipulazione e la proroga, per complessivi cinque anni (tre anni con eventuale proroga per due anni), di contratti a tempo determinato fra ricercatori ed Università, subordinando la stipulazione a che essa avvenga “Nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, al fine di svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio [#OMISSIS#] studenti”, ed altresì subordinando la proroga alla “positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte”, senza stabilire criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se la stipulazione e il rinnovo di siffatti contratti rispondano effettivamente ad un’esigenza [#OMISSIS#], se essi siano idonei a conseguire l’obiettivo perseguito e siano necessari a tal fine, e comporta quindi un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti, non risultando così compatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’accordo quadro”.

9. Sulla base di tali premesse, considerando che il rinvio operato ineriva a norme e questioni rilevanti [#OMISSIS#] presente controversia, con la stessa Ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 4695/2019 la Sezione disponeva la sospensione del giudizio.

10. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con Sentenza della Settima Sezione del 3 giugno 2021, si pronunciava in merito alla questione sottopostale.

12. A seguito di apposita istanza di fissazione d’udienza, ai sensi dell’art. 80 c.p.a, la causa veniva trattenuta in decisione all’Udienza del 20 aprile 2022.

DIRITTO

1. Con il primo motivo la ricorrente eccepisce la violazione di legge per contrasto dell’impugnato provvedimento di rigetto di cui alla nota prot. 28335/2018 adottato dall’Ateneo con l’art. 20 del D.Lgs n° 75 del 2017.

Evidenzia la ricorrente che i ricercatori sarebbero anch’essi destinatari della misura introdotta dall’art. da tale [#OMISSIS#] di fonte primaria Ciò in quanto tra le eccezioni enucleate dallo stesso articolo, rispetto all’ambito di applicazione della normativa, non sarebbero ricompresi i ricercatori universitari.

Tale circostanza, in ossequio al noto criterio interpretativo dello ubi voluit legislator dixit, ubi noluit tacuit, deporrebbe inequivocabilmente, secondo la stessa, nel senso che il legislatore abbia inteso ricomprendere il personale, anche docente, delle Università nel campo di applicazione della disposizione in questione.

Ciò risulterebbe corroborato dalla considerazione che, allorquando il legislatore ha voluto escludere tale categoria dall’ambito applicativo di una legge, lo ha fatto espressamente come ad esempio avvenuto con l’art. 29, comma 2, lett. d), del d.lgs. n. 81 del 2015, che, nel disciplinare in generale i rapporti di lavoro a tempo determinato, ha escluso dal suo ambito di applicazione “i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della legge 30 dicembre 2010, n. 240”.

La disposizione di cui all’art. 3 del T.U. pubblico impiego richiamata dall’Ateneo sarebbe quindi inconferente in quanto il predetto art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 varrebbe sì ad escludere i professori e i ricercatori universitari dall’applicazione del testo unico del pubblico impiego contrattualizzato, ma l’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 non si inserirebbe all’interno di tale corpus normativo.

D’altronde, il riferimento di cui all’art. 20, comma 1, che non utilizza l’espressione “le amministrazioni possono assumere con contratti a tempo indeterminato”, bensì –significativamente– l’espressione “Le amministrazioni (…) possono (…) assumere a tempo indeterminato” significherebbe, nell’argomentare di parte ricorrente, che il legislatore avrebbe inteso sottoporre a questa disciplina anche i rapporti di lavoro in regime di diritto pubblico privi di contratto, tra i quali vi sono i ricercatori a tempo indeterminato, categoria –a giudizio della parte- non abolita ma ridisciplinata in modo organico dalla legge 240 del 2010.

Quindi, l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75 non si riferirebbe alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, ma, più ampiamente, alle “amministrazioni”. Ciò sarebbe coerente con la legge di delega n. 124 del 2015, i cui artt. 16, comma 1, e 17, comma 1, operano un riferimento generale, al “lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, senza richiamare l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, se non in relazione a specifici principi e criteri direttivi che non riguardano il superamento del precariato.

1.1. La ricorrente censura anche la Circolare del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 3 del 2017, laddove detta indirizzi operativi per l’applicazione dell’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017, precisando che “la presente circolare è rivolta alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”, e “ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 165/2001, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: (…) il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato” in quanto tali previsioni non troverebbero riscontro, nemmeno implicito, [#OMISSIS#] lettera della disposizione legislativa in relazione alla quale la circolare vorrebbe dettare indirizzi operativi.

Infatti, secondo la sopra richiamata circolare, la circostanza per cui alcune categorie di pubblici dipendenti, di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, sono sottoposti ad una disciplina speciale implicherebbe erroneamente la conseguenza che tali categorie di personale verrebbero anche sottratte all’applicazione dell’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017. Ma ciò comporterebbe un “salto logico” nel ragionamento e non terrebbe conto del fatto che mentre per la maggior parte delle categorie di dipendenti non privatizzati non sarebbe configurabile un rapporto di lavoro a tempo determinato, tale tipologia di lavoro, invece, è ben possibile per i ricercatori universitari.

1.1.2. Parte ricorrente espone, inoltre, che la mancata applicazione dell’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 ai ricercatori universitari a tempo determinato sarebbe in contrasto con l’art. 3, comma 1, Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza e della ragionevolezza –in ragione dell’immotivata non applicazione di una misura di favore prevista per le altre categorie ed in particolare per quella assimilabile dei ricercatori degli enti di ricerca- e con la disciplina dell’Unione Europea e [#OMISSIS#] specifico con l’accordo quadro recepito dalla direttiva CEE n. 1999/70/CE –applicabile anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione- che sottopone a rigorose condizioni la possibilità per i datori di lavoro di avvalersi di contratti a tempo determinato, richiedendo per essi ragioni oggettive idonee a prevenire gli abusi.

Per tale ragione, se l’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 fosse interpretato come non applicabile anche ai ricercatori universitari a tempo determinato, si porrebbe, con riferimento alla [#OMISSIS#] in questione, un problema di legittimità costituzionale ed europea. Il che deve necessariamente indurre a privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata e compatibile con il c.d. “effetto utile” del diritto europeo.

2. A parere della Sezione il riassunto motivo non si presta a favorevole considerazione e va pertanto disatteso.

2.1. La normativa di cui all’art. 20 del D.Lgs n° 75 del 2017 non trova applicazione ai ricercatori universitari.

Il dettato normativo è sufficientemente eloquente laddove prevede che “il rapporto d’impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato [#OMISSIS#] disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all’art. 33 della Costituzione ed [#OMISSIS#] articoli 6 e seguenti della Legge 9 [#OMISSIS#] 1989, n° 168, e successive modificazioni ed integrazione, tenuto conto dei principi di cui all’art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n° 421.”

La [#OMISSIS#] valorizza l’assoluta specialità della disciplina che regola l’ambito dei rapporti e collaborazioni in ambito universitario.

Non a [#OMISSIS#], si richiama espressamente all’esigenza che tale ambito sia governato da una disciplina “specifica”, in coerenza con i principi afferenti all’autonomia universitaria.

Tale peculiarità è stata considerata, poi, dalla stessa legge la cui applicazione è invocata da parte ricorrente (d.lgs 70/2017) che, proprio nel riferirsi al rapporto d’impiego dei professori e dei ricercatori universitari, all’art. 22 comma 16, si è premurato di richiamare in maniera espressa, con riguardo a tale [#OMISSIS#] categoria, sia i ricercatori assunti a tempo determinato che quelli in ruolo.

E’ evidente, pertanto, come con l’intervento del 2017 il legislatore abbia ritenuto necessario mantenere [#OMISSIS#] un regime afferente a un rapporto lavorativo affatto peculiare per il settore universitario per il quale non potevano trovare applicazione le straordinarie misure di stabilizzazione volte alla riduzione del precariato che erano destinate ad altri contesti contrattuali.

Infatti, non è suscettibile di una diversa interpretazione una [#OMISSIS#] che, all’art. 20 stabilisca tali misure avente carattere “extra ordinem” e, nell’art. 22, facendo implicitamente proprio il dettato normativo del comma 2 dell’art. 3 del T.U. 165/2001, si premuri di ribadirne e precisarne il contenuto e l’operatività nel senso di valorizzare l’esistenza di un corpus normativo autonomo (quello del personale docente dell’università) che “[#OMISSIS#] [#OMISSIS#]” e che viene disciplinato in maniera a sé stante.

2.2. D’altronde, la stessa rubrica dell’articolato normativo in disamina, “modifiche e integrazioni al d.lgs 30.3.2001, ai sensi degli artt. 16, comma 1 lett. a) e 2, lett. b), c),d) ed e) e 17, comma 1, lettere a),c), e), g), h), l),m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7.8.2015, n° 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche,” milita nel senso di una piena afferenza e coordinamento tra la disciplina introdotta con il citato D.Lgs 75/2017 e l’ambito applicativo (e le correlate esclusioni) ritraibili dal D.Lgs 165/2001, rendendo, invero, inutile (e forse controproducente in termini di linearità e chiarezza) l’ulteriore esplicitazione delle categorie escluse dalla stabilizzazione.

In tale contesto, pertanto, il dettato della gravata Circolare del Ministro per la semplificazione e la Pubblica Amministrazione n. 3/2017 si rivela in linea con il dettato normativo laddove, all’art. 2, annovera tra le categorie escluse dall’applicazione della misura dell’art. 20 in questione proprio i professori e i ricercatori universitari.

2.3. Del resto, evidenzia il Collegio che interpretata all’insegna della sua ratio, la [#OMISSIS#] fa emergere la sua intrinseca coerenza.

Invero, la disciplina dettata dall’art. 20, d.lgs. n. 75/2017, dichiaratamente volta al superamento del precariato del ceto impiegatizio nelle pubbliche amministrazioni, mal si attaglia ad un settore governato da specifiche regole di reclutamento e afferenti alla disciplina del rapporto, le quali sono specificamente ritagliate in virtù dell’elevato livello di qualificazione richiesto per la copertura dei ruoli e appaiono funzionali a scandire il progredire della carriera in ragione della sussistenza di tutta una serie di presupposti, requisiti e positive verifiche (inerenti l’attività didattica, la ricerca e –in generale- il corredo curriculare) che non si conciliano, apparendo consonanti, con una misura di tipo sostanzialmente emergenziale indirizzata alla stabilizzazione di personale precario.

2.3.1. A favore della illustrata esegesi militano, infine, le determinazioni assunte con riguardo al ruolo del ricercatore universitario a tempo indeterminato.

Tale profilo di studioso, infatti, per effetto delle disposizioni contenute [#OMISSIS#] riforma di cui alla legge 240/2010 che definisce un peculiare percorso di sviluppo di carriera – preordinato per i più meritevoli– all’inquadramento nel ruolo dei professori universitari, si è indirizzato verso il progressivo esaurimento della figura di tali ricercatori in ruolo.

Ciò al fine –da un lato- di valorizzare la connotazione progettuale dell’attività di ricerca e –dall’altro- di scongiurare il possibile svilimento dei connotati afferenti all’alta [#OMISSIS#] scientifica di tali posizioni. Evenienza che si sarebbe prodotta ove si fosse virato verso una tendenziale confusione di tale elevata figura con quella tipica del rapporto di lavoro del ceto impiegatizio.

Anche la Corte Costituzionale ha precisato che “La riforma del sistema universitario operata con la legge n. 240 del 2010 ha trasformato la figura del ricercatore universitario, introducendo la nuova posizione del ricercatore a contratto a tempo determinato, destinata a sostituire quella del vecchio ricercatore a tempo indeterminato, a suo tempo istituita con l’art. 1, comma 4, del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), adottato in attuazione della legge 21 febbraio 1980, n. 28 (Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica).

Sulla scia di quanto già anticipato con la legge 4 novembre 2005, n. 230 (Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari), che aveva limitato l’assunzione di ricercatori di questo tipo alla copertura dei posti banditi non oltre il 30 settembre 2013 (art. 1, commi 7 e 22), la riforma del 2010 ne ha definitivamente vietato il reclutamento, stabilendo espressamente che, dalla sua entrata in vigore, per la copertura dei posti di ricercatore le università possono avviare esclusivamente le procedure previste per il reclutamento dei ricercatori a tempo determinato (art. 29, comma 1)” (cfr. Corte Cost., 24 giugno 2020 n. 165).

2.3.2. In altri termini, e conclusivamente, ciò che emerge dalla disciplina in questione è la volontà del legislatore di mantenere [#OMISSIS#] –al fine di valorizzarne il ruolo- la predetta caratteristica progettuale che connota la natura consustanziale al tempo determinato dell’attività di ricerca, con ciò escludendo la possibilità di incardinare a tempo indeterminato -anche per il tramite dell’invocata disciplina di cui al d.lgs 75/2017- nuovi ricercatori.

3. Con il secondo motivo di ricorso, e in via subordinata, parte ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 20 del d.lgs n° 75 del 2017, per violazione degli artt. 2, 3, 4, 9, 33, comma 1° Cost. ove si ritenesse tale disposizione non applicabile anche ai ricercatori universitari a tempo determinato.

Evidenzia al riguardo che l’omessa applicazione dell’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 ai ricercatori a tempo determinato depotenzierebbe la misura introdotta per superare il precariato, in violazione del principio della ragionevolezza e uguaglianza traguardato sia alla luce della posizione rivestita dai ricercatori degli Enti pubblici di ricerca, i quali soli verrebbero a beneficiare della possibilità di essere stabilizzati mentre i primi ne verrebbero tagliati fuori senza alcuna comprensibile ragione, sia in raffronto all’art. 4 (che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e impone alla Repubblica di promuovere condizioni che rendano effettivo questo diritto), che all’art. 9 (relativo alla promozione e allo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica) che, infine, all’art. 33 Cost. (che riconosce la libertà della scienza).

3.1. Tale esclusione risulterebbe irragionevole ove si abbia riguardo alla circostanza che la disciplina recata dall’art. 24 della c.d. Legge [#OMISSIS#], nel “precarizzare” la figura del ricercatore universitario, consentirebbe che la durata dei contratti di quest’[#OMISSIS#], per effetto della proroga biennale prevista dalla legge, potrebbe raggiungere la durata di sessanta mesi, di gran lunga superiore al [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di trentasei mesi, fissato dal legislatore interno in recepimento della normativa comunitaria, operante sia con riferimento al settore privato che con riferimento al settore pubblico.

4.Anche il sintetizzato motivo non è fondato e va conseguentemente disatteso.

Si rivela, anzitutto, manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale [#OMISSIS#] parte in cui censura per asserita violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza la [#OMISSIS#] dell’art. 20 del Lgs. n. 75/2017 laddove esclude i ricercatori a tempo determinato dalle misure di stabilizzazione.

È [#OMISSIS#], invero, l’orientamento del [#OMISSIS#] delle Leggi secondo il quale la violazione del principio di uguaglianza sussiste qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex pluribus, sentenze n. 85 del 2020, n. 155 del 2014, n. 108 del 2006, n. 340 e n. 136 del 2004).

4.1. Appare sul punto dirimente considerare -con riferimento alle differenti determinazioni assunte dal legislatore con riguardo alla posizione del personale operante negli enti pubblici di ricerca- che, a differenza dei Ricercatori e Professori universitari, il cui status è definito per legge, quello dei Ricercatori degli Enti di Ricerca viene determinato dalla contrattazione sindacale. Pertanto, il percorso di graduale stabilizzazione contemplato dall’art. 1, comma 668 della Legge 205 del 2017 per il personale ricercatore operante negli enti pubblici di ricerca di cui al decreto legislativo 25 novembre 2016, n° 218, non appare connotato da alcuna irragionevole disparità di trattamento, anche il ragione del fatto che differenti sono le modalità di reclutamento, i [#OMISSIS#] di inquadramento e che, comunque, “tale categoria di personale non è ammessa all’accesso, se non eventualmente dall’esterno, ai ruoli dei professori di prima e seconda fascia degli Atenei” (cfr. Tar Puglia sez. I^ 18.2.2022, n° 267).

Ulteriormente, si è precisato che “lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in seguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La medesima eterogeneità dei termini posti a raffronto connota l’area del lavoro pubblico contrattualizzato e l’area del lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale. Tale eterogeneità preclude ogni plausibile valutazione comparativa sul versante dell’art. 3 primo comma Cost. e risalta ancor più netta in ragione dell’irriducibile specificità di taluni settori (forze armate, personale della magistratura), non governati dalla logica del contratto (…)” (cfr Corte Cost 23 luglio 2015, n° 178).

4.2. Ad avviso della Sezione si profilano manifestamente infondati anche i richiami alla presunta violazione da parte della normativa in esame dei precetti costituzionali contenuti [#OMISSIS#] artt. 4, 9 e 33; norme evocate più a corredo del vizio denunciato in via principale che a fondamento di autonome censure.

Ad ogni modo, come già evidenziato, la previsione di un percorso di carriera universitaria che contempli una prima fase basata su un rapporto a tempo determinato di durata prefissata non si rivela in grado di minare alcuno dei richiamati valori costituzionali.

Osserva al riguardo il Collegio che l’esercizio del diritto al lavoro ben può esplicarsi anche per il tramite della stipula di contratti a tempo determinato, laddove di essi non si abusi. La giurisprudenza Costituzionale ha avuto modo di precisare reiteratamente che “[#OMISSIS#] affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei modi e dei tempi di attuazione della garanzia del diritto al lavoro” (Corte Cost. n. 419/2000, Corte Cost. n. 303/2011).

Anche la [#OMISSIS#] esplicazione dell’attività scientifica non appare minata da tale modello contrattuale, specialmente ove si consideri la connaturata caratteristica progettuale che va riconosciuta all’attività di ricerca.

L’invocata esigenza di assicurare la valorizzazione della professionalità acquisita, d’altronde, transita -come detto- attraverso la scansione di fasi predeterminate di progressione di carriera, le quali tengono conto del dipanarsi del rapporto del ricercatore con il mondo universitario e delle abilità da lui dimostrate [#OMISSIS#] svolgersi di tale percorso.

5. Con il terzo motivo di ricorso, sempre in via subordinata, la ricorrente eccepisce la violazione del diritto eurounitario e dell’art. 117 Cost. per contrasto con gli obblighi derivanti dalla direttiva CEE n.1999/70/CE, che impone [#OMISSIS#] Stati membri di limitare l’uso dei contratti a tempo determinato, vietandone l’abuso.

Osserva la ricorrente che, in base all’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 (di attuazione della predetta direttiva UE), il rapporto di lavoro a tempo determinato non può avere durata superiore a trentasei mesi, superati i quali “il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento”.

La disposta esclusione dall’ambito di applicazione di tale disposizione dei “contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della legge 30 dicembre 2010, n. 240” (cfr. art. 29, comma 2, lett. d), si porrebbe, pertanto, in violazione del diritto europeo e per tale ragione la [#OMISSIS#] dovrebbe essere disapplicata.

Infatti, la reiterazione del rapporto di lavoro a tempo determinato per i ricercatori di tipo A potrebbe raggiungere la durata di otto anni: 3+2 del contratto di tipo A, ai quali si potrebbero aggiungere i 3 anni del contratto di tipo B, nell’ipotesi di passaggio al [#OMISSIS#] del quinquennio alla qualifica di ricercatore di tipo B, al [#OMISSIS#] dei quali il ricercatore potrebbe essere estromesso definitivamente dal circuito della docenza universitaria.

5.1. Pertanto, se l’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 non fosse suscettibile di trovare applicazione anche ai ricercatori a tempo determinato, le amministrazioni nazionali avrebbero l’obbligo di disapplicare la disposizione in questione [#OMISSIS#] parte in cui non prevede quali destinatari del suo ambito di applicazione i ricercatori stessi;

5.2. Parte ricorrente prospetta, infine, la necessità di disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE ove venissero rilevati dubbi di compatibilità con il diritto europeo della disciplina dei contratti a tempo determinato dei ricercatori universitari, anche in ordine alla previsione di cui all’art. 20 del d.lgs 75/2020 [#OMISSIS#] parte in cui venisse ritenuta non applicabile a tale tipologia di dipendenti pubblici.

6. Anche tale motivo si prospetta fondato e va conseguentemente disatteso.

6.1. Osserva al riguardo la Sezione che il riformato sistema di accesso e di sviluppo della carriera in ambito universitario, come delineato dalla L. 240 del 2010, oltre ad avere, come sopra precisato, disposto il collocamento in un ruolo ad esaurimento i ricercatori a tempo indeterminato, ha introdotto la nuova figura del ricercatore a tempo determinato disciplinata alle lettere a) e b) del comma 3 dell’art. 24.

Il sistema delineato prevede che il contratto per ricercatore a tempo determinato di tipo “A” ha durata triennale, prorogabile per due anni per una sola volta, previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte: tale posizione reca, quale sbocco fisiologico, l’accesso alla posizione di ricercatore di tipo B e, come ulteriore progressione, alla posizione di professore associato.

Il contratto di ricercatore a tempo determinato di tipo “B” (disciplinato dall’art. 24 comma 3 lett. b) della Legge 240/2010) ha parimenti durata triennale (originariamente riservato ai ricercatori di tipo A o a coloro che hanno usufruito per almeno tre anni di assegni di ricerca ex art. 51, comma 6 della legge 27.12.1997, n° 449 o di borse post-dottorato ex art. 4 della L. 30 novembre 1989, n° 398) è stato esteso a coloro che sono in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale di professore di prima o di seconda fascia, o del titolo di specializzazione medica o di assegni di ricerca di cui all’art. 22 della stessa legge.

Il ricercatore di tipo B) nel corso dell’[#OMISSIS#] anno del contratto di ricerca, ove abbia conseguito l’abilitazione scientifica di cui all’articolo 16, può essere sottoposto a valutazione dall’Università per il successivo inquadramento, alla scadenza del contratto, nel ruolo dei professori associati.

6.1.2. Il sistema così delineato è teso, dunque, a favorire un meccanismo di selezione “progressiva” e dall’interno dei professori associati che, partendo dall’incarico di ricercatore a tempo determinato di cui al comma 3 lett. a), giunge fino alla possibile chiamata nel ruolo di professore associato.

Il tutto, sulla base di un prefissato [#OMISSIS#] arco temporale e di un numero parimenti prestabilito di contratti a tempo determinato.

In siffatto contesto tale assetto normativo “è idoneo a contenere entro un limite [#OMISSIS#] il precariato accademico 5 anni (3 + altri 2 eventuali di proroga) [#OMISSIS#] fascia A + altri 3 non prorogabili (riducibili ad 1 anno a seguito della riforma del 2020) [#OMISSIS#] fascia B e [#OMISSIS#] comunque restando la possibilità di accedere, previo conseguimento del prerequisito obbligatorio dell’abilitazione scientifica nazionale, al ruolo di professore di prima e di seconda fascia mediante concorsi indetti dagli atenei con procedura aperta ex art. 18.” (cfr. T.A.R. Puglia, I, 18.2.2022, n° 267).

Sulla base dell’anzidetta cornice normativa va quindi escluso che, [#OMISSIS#] prassi, le Università possano “abusare” dei contratti a tempo determinato di tipo “A”, in violazione della disciplina eurounitaria (direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999) attuata dagli artt. 1 e 6 del D.Lgs 6 settembre 2001, n° 368, tenuto conto che in relazione a tale tipologia di contratto è prevista la possibilità di un’unica proroga biennale.

6.2. Ulteriormente, il Collegio rileva come non colga nel segno la linea difensiva di parte ricorrente che riconduce l’astratta possibilità del ricercatore universitario di permanere nell’ambito del circuito dei contratti a tempo determinato per una durata superiore ai 36 mesi fissati dall’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 alla violazione della citata direttiva CEE n.1999/70/CE, che impone [#OMISSIS#] Stati membri di limitare l’uso dei contratti a tempo determinato, vietando l’abuso degli stessi.

Va al riguardo opposto, infatti, che ciò che caratterizzava l’uso (e l’abuso) dei contratti a tempo determinato, era la prassi di reiterarne indefinitamente la stipula senza che ad essa si ricollegasse una correlata disciplina normativa volta alla stabilizzazione di tale rapporto lavorativo.

Ma in ambito universitario, come si è visto e com’è noto [#OMISSIS#] operatori del settore, è lo stesso sistema che tratteggia un percorso che, attraverso fasi scandite e di durata predeterminata, traccia la strada verso l’approdo all’immissione in ruolo quale professore universitario.

Ovviamente, in tale percorso, delineato in via generale e astratta dal legislatore, deve instradarsi il ricercatore che, su base meritocratica, potrà ambire ad un positivo sviluppo di carriera.

Ma, come detto, questa fisiologica fase di inserimento “in progress” nel mondo accademico è consustanziale alle caratteristiche dell’attività di ricerca e, a ben vedere, non rappresenta una distorsione del sistema di ingresso nel mondo della docenza universitaria.

6.3. I divisati [#OMISSIS#] sono stati valorizzati anche dalla recente sentenza della Corte di Giustizia del 4.6.2021, ove si è puntualizzato che “l’art. 24, comma 3, lettera a) della Legge 240/2010 stabilisce non solo un limite per quanto riguarda la durata massima del contratto a tempo determinato dei ricercatori universitari rientranti [#OMISSIS#] categoria cui apparteneva il ricorrente, ma anche per quanto riguarda il numero possibile di rinnovi di tale contratto. Più precisamente, relativamente al contratto di tipo A, tale legge fissa la durata massima del contratto a tre anni e autorizza una sola proroga limitata a una durata di due anni.

Pertanto, l’articolo 24, comma 3, della legge n. 240/2010 contiene due delle misure indicate alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, ossia limiti riguardanti la durata massima totale dei contratti a tempo determinato e il numero di possibili rinnovi (…)”

Sulla base di tali approdi, la CGE ha concluso nel senso che “la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale in forza della quale è prevista, per quanto riguarda l’assunzione dei ricercatori universitari, la stipulazione di un contratto a tempo determinato per un periodo di tre anni, con una sola possibilità di proroga per un periodo [#OMISSIS#] di due anni, subordinando, da un lato, la stipulazione di tali contratti alla condizione che siano disponibili risorse “per la programmazione, al fine di svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio [#OMISSIS#] studenti”, e, dall’altro, la proroga di tali contratti alla “positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte”, senza che sia necessario che tale normativa stabilisca i criteri oggettivi e trasparenti che consentano di verificare se la stipulazione e il rinnovo di tali contratti rispondano effettivamente a un’esigenza [#OMISSIS#], se essi siano idonei a conseguire l’obiettivo perseguito e siano necessari a tal fine.”

Si rivela inappropriato il richiamo alla durata massima dei 36 mesi, invocata dalla ricorrente quale parametro per evocare la violazione degli obblighi imposti a livello eurounitario.

Le più volte evidenziate peculiarità del progredire della carriera in ambito universitario giustificano -alla luce della legge di riforma in vigore- come l’immissione in ruolo [#OMISSIS#] veste di professore ben possa giungere a [#OMISSIS#] del tratteggiato prescritto percorso (la cui durata complessiva è normativamente fissata) “a fasi” scandite da rapporti di lavoro a tempo determinato.

7. Con il quarto motivo di ricorso, la ricorrente eccepisce l’incostituzionalità dell’art. 24 della l. 240 del 2010 per violazione, sotto altro profilo, dell’art. 9, comma 1 e dell’art. 33 comma 1 Cost. e chiede, pertanto, al Collegio di voler sollevare di fronte alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la [#OMISSIS#] che appone un [#OMISSIS#] di durata al contratto di ricercatore universitario, in quanto il ricercatore sarebbe legato da un contratto che, oltre ad essere “precario”, è qualificato dalla legge come di lavoro subordinato; e ciò porrebbe un evidente problema di compatibilità con il principio della “libertà” della scienza: il contratto di lavoro subordinato, per sua stessa natura, implica infatti l’integrale assoggettamento alla volontà del datore di lavoro e ciò precluderebbe, il pieno esercizio della propria libertà di ricerca scientifica in violazione dei predetti precetti costituzionali.

Ciò in quanto la stabilità del rapporto di lavoro è un valore che, nel [#OMISSIS#] dei ricercatori, assume una rilevanza –se possibile– ancora [#OMISSIS#] rispetto a quella che assume con riferimento ad altre categorie di lavoratori.

8. Anche tale motivo non è suscettibile di favorevole considerazione e fa pertanto respinto.

Il Collegio ritiene sufficiente richiamare le osservazioni sopra formulate scrutinando il secondo motivo di ricorso.

Non può condividersi l’assunto della ricorrente che si duole che la presenza di un contratto di ricerca strutturato in termini di lavoro subordinato, sarebbe idonea, di per sé, a minare l’operatività dei precetti costituzionali volti a promuovere la ricerca scientifica e a proclamarne la libertà.

La giurisprudenza, peraltro, ha già avuto modo di chiarire -per analoghe doglianze- l’insussistenza di aspetti ed elementi di incompatibilità tra la natura subordinata del rapporto di lavoro dei ricercatori e i principi costituzionali che garantiscono la cultura, la ricerca e la libertà di insegnamento.

Si è invero condivisibilmente sancito che “Da un lato, infatti, l’assoggettamento ad un potere direttivo non implica necessariamente una diretta ingerenza sul contenuto dell’insegnamento e sugli obiettivi di ricerca. Al contempo, la natura “a [#OMISSIS#]” dell’incarico di ricercatore si esplica pur sempre all’interno di un orizzonte temporale (tre anni, prorogabili ad altri due) senz’altro compatibile con l’attività di ricerca scientifica e le sue tempistiche.” (cfr. T.A.R. Friuli [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], 17 novembre 2021, n° 342.)

9. Con l’[#OMISSIS#] motivo di ricorso la ricorrente evidenzia come, anche a prescindere dal tema dell’applicabilità o meno alla ricorrente della disciplina dell’art. 20 del d.lgs 75 del 2017, sussisterebbero comunque i presupposti per disporre la trasformazione del proprio rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Sottolinea che le ragioni che fondano tale pretesa sono sempre quelle connesse alla violazione del diritto europeo, stante che sia la Corte di Giustizia UE, sia la Corte costituzionale, hanno già riconosciuto l’illegittimità delle disposizioni nazionali che, con riferimento al settore della docenza scolastica, prevedevano la reiterazione di rapporti di lavoro a tempo determinato senza che ragioni obiettive lo giustificassero.

Ribadisce inoltre che, a fronte di una durata massima di contratti a tempo determinato pari a trentasei mesi, nel [#OMISSIS#] di ogni ricercatore di tipo A che abbia ottenuto la proroga biennale, tale durata massima è di sessanta mesi.

Evidenzia, inoltre, che non sono state introdotte misure volte ad «ottenere la stabilizzazione grazie o a meri automatismi […] ovvero a selezioni blande (concorsi riservati)», come fatto per altri settori.

Né, sarebbe, percorribile la strada del risarcimento del danno di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001. stante che, nel [#OMISSIS#] di specie, non sussiste il presupposto della violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori.

Pertanto per salvaguardare l’effetto utile del diritto europeo deve imporsi una soluzione che, in ossequio ai principi di proporzionalità ed effettività, sia idonea a rimediare alla violazione perpetrata, quale quella della trasformazione del contratto a tempo determinato della ricorrente in un contratto a tempo indeterminato, non ostandovi il divieto di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001.

10. Le osservazioni più sopra diffusamente svolte, conducono alla reiezione anche di tale [#OMISSIS#] motivo di gravame.

Ritiene il Collegio sufficiente richiamarsi alle argomentazioni già espresse in ordine alla specificità del percorso che connota la carriera universitaria, in cui la contrattualizzazione a tempo determinato –con un numero di proroghe e una durata complessiva predeterminata- rappresenta un aspetto fisiologico del progresso professionale di chi persegue tale inserimento lavorativo.

Anche con riferimento alla dedotta asserita violazione del principio di equivalenza, secondo cui, in assenza di una diversa misura altrettanto afflittiva, il diritto europeo impone il rispetto del principio di equivalenza, secondo il quale il [#OMISSIS#] applicabile ad una determinata fattispecie non può essere diverso e meno favorevole rispetto a quello che si riferisce a situazioni analoghe di natura interna, denota il Collegio che la Corte di Giustizia (sentenza sez. VII, 3.6.2021 cit.) ha già avuto modo di sancire come “tale principio non è applicabile nel [#OMISSIS#] di specie, poiché tale necessità riguarda solo le disposizioni che hanno ad oggetto diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”.

10.1. In definitiva, la disciplina in questione non determina un utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato, in ragione della speciale ed organica disciplina di riferimento, delle caratteristiche dell’attività lavorativa svolta e del dato, più volte in questa sede posto in luce, che tale tipologia contrattuale ha un definito orizzonte temporale inteso a verificare l’idoneità dei soggetti contrattualizzati ai fini del successivo loro inserimento in ruolo in ambito accademico.

Per [#OMISSIS#], l’auspicata conversione del contratto di lavoro determinerebbe una eccezione al principio del concorso pubblico di cui all’art. 97 Cost., la cui inderogabilità è stata più volte ribadita Corte costituzionale (oltre che dalla giurisprudenza civile e amministrativa) al di fuori dei casi in cui tale possibilità è eccezionalmente consentita, ovvero nei soli casi in cui ciò sia maggiormente funzionale al buon andamento dell’amministrazione e corrispondente a straordinarie esigenze di interesse pubblico, individuate dal legislatore in base a una valutazione discrezionale, effettuata nei limiti della non manifesta irragionevolezza. (cfr. commissione Adunanza della Commissione speciale del Consiglio di Sato del 11 aprile 2017 n° 422)

In proposito, si è osservato che “non è neppure ipotizzabile un’interpretazione estensiva della [#OMISSIS#] in esame, oltre i confini suoi propri, atteso che la stabilizzazione del personale precario della pubblica amministrazione può essere operata soltanto se abilitata da leggi emanate ad hoc, come tali di stretta interpretazione, secondo quanto ha chiarito più volte la giurisprudenza sia del [#OMISSIS#] costituzionale sia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. In conclusione, può ritenersi ormai acquisito che l’Accordo Quadro trova applicazione per il settore pubblico nei rigorosi limiti sanciti dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 in tema di utilizzo di contratti di lavoro flessibile” (TAR Lazio, Roma, sez. I bis, 18 ottobre 2018, nn. 10087 e 10088).

11.In definitiva, alla luce delle considerazioni tutte finora svolte il ricorso si profila infondato e va conseguentemente respinto.

12. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la ricorrente a corrispondere all’amministrazione le sepse di lite, che liquida in € 2.500,00 (duemilacinquecento).

Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] di consiglio del giorno 20 aprile 2022 con l’intervento dei Magistrati:

[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#]

[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore

[#OMISSIS#] Montixi, Referendario

Pubblicato il 21/11/2022