Cons. Stato, Sez. VII, 16 dicembre 2024, n. 10088

L’art. 53, comma 7, D.lgs. n. 165/2001 si applica all’ipotesi di esercizio di attività libero-professionale radicalmente incompatibile con il rapporto esclusivo di pubblico impiego

Data Documento: 2024-12-16
Autorità Emanante: Consiglio di Stato
Area: Giurisprudenza
Massima

L’art. 53, comma 7, D.lgs. n. 165/2001 si applica all’ipotesi di esercizio di attività libero-professionale radicalmente incompatibile con il rapporto esclusivo di pubblico impiego.

Contenuto sentenza

10088/2024REG.PROV.COLL.

02154/2024 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2154 del 2024, proposto da OMISSIS, rappresentato e difeso dall’Avvocato OMISSIS e dall’Avvocato OMISSIS, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Università degli Studi di Milano, in persona del Rettore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12.

per la riforma

della sentenza n. 2715 del 20 novembre 2023 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, sez. II, resa tra le parti, che ha in parte dichiarato improcedibile e in parte respinto il ricorso proposto dall’odierno appellante, tra l’altro, per l’accertamento negativo dell’obbligo del ricorrente di riversare, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001, i compensi percepiti nel corso del medesimo arco temporale nell’esercizio della libera professione.

visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Milano;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell’udienza pubblica del giorno 26 novembre 2024 il Consigliere OMISSIS e udito per l’odierno appellante l’Avvocato OMISSIS

viste le conclusioni delle parti come da verbale;

ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. L’odierno appellante, il prof. OMISSIS, è professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze Biomediche, Chirurgiche ed Odontoiatriche dell’Università degli Studi di Milano.

1.1. A partire dal 2002 egli ha svolto attività assistenziale presso l’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, in forza di specifiche convenzioni concluse fra l’Istituto e l’Università, e ha inoltre svolto l’attività di libera professione presso lo studio odontoiatrico associato “Weinstein – OMISSIS”.

1.2. In relazione a tale ultima attività, a seguito di accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza (GdF) e trasmessi poi a cura dell’Università alla Corte dei Conti della Lombardia, quest’ultima ha citato in giudizio l’appellante per la sua condanna al pagamento di un importo complessivo di oltre sette milioni di euro dovuti a vario titolo, fra cui erano comprese le somme corrispondenti ai proventi lordi dell’attività professionale svolta, da riversarsi a favore dell’Università ai sensi dell’art. 53 comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001.

1.3. Ciò premesso, il prof. OMISSIS ha proposto ricorso avanti al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), con il quale ha proposto due distinte domande di accertamento:

a) la prima per l’accertamento del suo diritto a percepire, nell’arco temporale 2009- 2017, lo stipendio tabellare previsto per i docenti universitari a tempo pieno, l’indennità di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979 ed i compensi corrispostigli in ragione delle funzioni assistenziali svolte presso l’Istituto Ortopedico Galeazzi in virtù degli accordi convenzionali stipulati con l’Università degli Studi di Milano;

b) la seconda per l’accertamento negativo dell’obbligo dell’appellante di riversare, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001, i compensi percepiti nel corso del medesimo arco temporale nell’esercizio della libera professione.

1.4. Il ricorso è stato assegnato alla Sezione I del Tribunale che, con la sentenza n. 2208 del 2021, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione.

1.5. La sentenza declinatoria della giurisdizione era appellata e questo Consiglio di Stato, con sentenza n. 2850 del 2022 di questa Sezione, ha accolto l’impugnazione, dichiarando la giurisdizione del giudice amministrativo.

1.6. La causa è stata quindi ritualmente riassunta davanti al Tribunale ai sensi dell’art. 105 del c.p.a. ed è assegnata alla Sezione II del medesimo.

1.7. Alla successiva pubblica udienza del 7 novembre 2023 la controversia è stata spedita in decisione.

2. Con la sentenza n. 2715 del 20 novembre 2023 il Tribunale ha in parte dichiarato improcedibile il ricorso e in parte l’ha respinto.

2.1. Più in particolare, il primo giudice ha reputato in parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione, ai sensi dell’art. 35 comma 1, lett. c) c.p.a.

2.2. Infatti, nella memoria difensiva del 17 ottobre 2023 depositata in primo grado, l’odierno appellante ha dichiarato di non avere più interesse al ricorso per la parte volta all’accertamento del suo diritto a percepire, negli anni 2009-2017, lo stipendio tabellare previsto per i docenti universitari a tempo pieno, l’indennità di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979 ed i compensi corrisposti in virtù degli accordi convenzionali stipulati dall’Istituto Ortopedico Galeazzi con l’Università degli Studi di Milano.

2.3. Permane invece l’interesse alla decisione della domanda di accertamento negativo proposta con il ricorso ed esposta alla lettera “C” del medesimo.

2.4. Nel gravame l’interessato rileva dapprima come l’art. 53 comma 7 del d. lgs. n. 165 del 2001 farebbe riferimento ai soli “incarichi” non autorizzati dall’amministrazione di appartenenza e che la nozione di “incarico” di cui al citato comma 7 dovrebbe essere tenuta distinta da quella di esercizio della libera professione, quest’ultima caratterizzata dagli elementi dell’abitualità, della sistematicità e della continuità.

2.5. Sempre a detta del ricorrente in prime cure, l’esercizio non consentito della libera professione da parte del docente universitario darebbe luogo ad un’ipotesi di incompatibilità, soggetta non al regime sanzionatorio dell’art. 53 suindicato ma ad altra disciplina e segnatamente a quella dell’art. 63 del d.P.R. n. 3 del 1957.

2.6. In altri termini, l’appellante non avrebbe svolto incarichi non autorizzati ex art. 53 citato, ma avrebbe tutt’al più esercitato un’attività incompatibile regolata da altra e diversa disciplina, per cui non avrebbe alcun obbligo di riversamento dei compensi indebitamente percepiti ai sensi dell’art. 53, comma 7, sopra menzionato («In caso di inosservanza del divieto […] il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato […] nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti»).

2.7. La tesi suindicata, per quanto apparentemente suggestiva, non ha tuttavia convinto il Collegio di prime cure.

3. Sul punto il primo giudice ha richiamato le condivisibili argomentazioni della sentenza n. 122 del 2023 della Corte dei Conti, II sezione giurisdizionale d’appello, che ha confermato la responsabilità dell’odierno appellante per il danno derivante dal mancato riversamento dei proventi ottenuti nell’esercizio di prestazioni di libera professione in violazione dell’art. 53, commi 7 e 7-bisdel d. lgs. n. 165 del 2001 (cfr. per il testo integrale della sentenza il doc. 15 della resistente).

3.1. Nella propria pronuncia, il giudice contabile d’appello, dopo avere preventivamente e motivatamente ritenuto la propria giurisdizione (punto I della narrativa in diritto), ha evidenziato che:

a) nella nozione di “incarichi retribuiti” di cui al comma 7 dell’art. 53 suindicato, sono compresi sia quelli in astratto autorizzabili ma in concreto non autorizzati sia quelli mai autorizzabili anche in astratto (punto IV della narrativa in diritto);

b) nonostante la complessità del quadro normativo in cui l’esponente svolgeva la propria attività di docente universitario, tuttavia la condotta illecita di quest’ultimo appare intenzionale e volta a realizzare il proprio esclusivo interesse economico in contrasto con il suo status (punto V della narrativa in diritto).

3.2. Le conclusioni cui è giunto il giudice contabile sono state totalmente condivise dal Tribunale, che reputa pertanto la pretesa dell’esponente all’accertamento negativo dell’obbligo ai sensi dell’art. 53, comma 7, citato priva di pregio.

3.3. Alla luce di quanto sopra esposto, deve anche escludersi ogni questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, che appare invece manifestamente infondata.

3.4. La ratio della norma, ben evidenziata dalla citata sentenza della Corte dei Conti, è quello di garantire sia il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97, comma secondo, Cost.) sia i doveri di fedeltà del pubblico dipendente contro i rischi derivanti dalla commistione di incarichi esterni (art. 98, comma primo, Cost.), evitando lo svolgimento da parte del dipendente stesso di incarichi esterni retribuiti e non autorizzati, indipendentemente dalla circostanza che si tratti di attività vietate direttamente dalla legge e mai autorizzabili oppure di attività in astratto autorizzabili ma in concreto svolte senza autorizzazione.

4. Avverso tale sentenza ha proposto appello l’interessato, lamentandone l’erroneità per le ragioni che di seguito saranno esaminate, e ne ha chiesto la riforma, con il conseguente annullamento degli atti gravati nella misura del persistente interesse.

4.1. Si è costituita l’appellata Università per resistere al gravame.

4.2. Infine, nella pubblica udienza del 26 novembre 2024, il Collegio, sentito il difensore del solo appellante comparso e sulle conclusioni come rassegnate in atti dalle parti, ha trattenuto la causa in decisione.

5. L’appello è infondato, potendosi qui prescindere, non fosse altro che per la sussistenza della giurisdizione di questo giudice amministrativo affermata da questo Consiglio di Stato e ormai incontestabile, da ogni questione relativa alla possibile interferenza del presente giudizio con quello contabile, parallelamente pendente (v., comunque, sul punto una panoramica dei vari orientamenti in Cons. St., sez. VII, 13 gennaio 2023, n. 451).

5.1. Sostiene in sintesi l’interessato anche in questa sede di appello che l’art. 53 comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001, siccome volto a sanzionare l’assunzione di un incarico senza il previo rilascio di un’autorizzazione, ha un ambito di applicazione oggettiva cui è estranea la materia dell’esercizio della libera professione, che o può essere esercitata o non può essere autorizzata.

5.2. La norma inoltre, avendo natura sanzionatoria, sarebbe di stretta interpretazione e non ammetterebbe applicazioni analogiche o estensive di sorta.

5.3. Venendo al caso specifico, deduce ancora l’appellante, non potrebbe perciò che ribadirsi come la sanzione del riversamento sia prevista solo ed esclusivamente nell’ipotesi di espletamento di incarichi non autorizzati e, poiché il concetto di libera professione (come pure giurisprudenzialmente elaborato) non coincide con quello di incarico, la norma non è applicabile alla vicenda.

5.5. Poiché, inoltre, l’esercizio della libera professione incompatibile col regime del rapporto di impiego è vietato per legge e non è perciò autorizzabile, sarebbe evidente come la fattispecie prevista e disciplinata dall’art. 53, comma 7 più volte citato sia del tutto estranea a quella qui in esame.

5.6. Se così è (e non può essere diversamente), l’odierno appellante non avrebbe alcun obbligo di riversamento dei compensi percepiti nell’esercizio della libera professione nell’arco temporale di interesse.

5.7. Una siffatta interpretazione violerebbe, a dire dell’appellante, il principio di legalità custodito nell’art. 25 Cost., posto che:

a) il carattere sanzionatorio dell’obbligo di riversamento emerge inequivoco dal testo della disposizione di cui si discute «in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare»;

b) il divieto sanzionato dalla norma è quello di «svolgere incarichi retribuiti che non siano stati[…] previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza»;

c) l’esercizio della libera professione è attività che, per abitualità, sistematicità e continuità, si distingue dall’espletamento di un incarico;

d) la condotta sanzionata dalla norma è quella di aver svolto un’attività senza la preventiva autorizzazione: essa suppone cioè che detta attività non sia vietata in assoluto, ma solo se non autorizzata, laddove l’esercizio della libera professione nel caso specifico (docente universitario titolare di rapporto di lavoro a tempo pieno) è per legge incompatibile col rapporto di impiego e perciò insuscettibile d’esser autorizzata.

5.8. L’appellante censura poi, in particolare, il fatto che il Tribunale abbia seguito il giudice contabile nella asseritamente non consentita interpretazione analogica dell’art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001.

5.9. La giurisprudenza contabile citata dal Tribunale nella sentenza impugnata, deduce ancor l’appellante, seguirebbe un’interpretazione analogica della norma facendo leva sulla identità di ratio tra le due fattispecie (tanto l’incarico retribuito quanto l’esercizio della libera professione andrebbero “autorizzate”) e, dall’altro, pretenderebbe di estendere l’ambito di applicazione della norma in ragione della “asimmetria” che verrebbe a crearsi qualora la situazione ritenuta “meno rischiosa” e, cioè, l’espletamento di un incarico astrattamente autorizzabile, fosse sanzionata e senza sanzione restasse, invece, quella ritenuta “più rischiosa”, dell’esercizio di un’attività incompatibile.

6. L’erroneità della sentenza risalterebbe anche laddove, richiamati appunto i principi di buon andamento, imparzialità e fedeltà, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata nel corso del giudizio di primo grado per l’ipotesi in cui l’art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001 fosse applicato in via analogica o estensiva anche a chi abbia svolto attività libero professionale.

6.1. A detta del Tribunale infatti, poiché la ratio della norma sarebbe quella di garantire quei valori, la stessa si applicherebbe indipendentemente dal fatto che l’attività svolta sia vietata direttamente dalla legge o consentita, ma esercitata senza autorizzazione.

6.2. L’assunto, che tralascia di considerare il fatto che ai medici sia consentito di esercitare attività libero professionale, neppure motiva come una siffatta interpretazione possa trovar spazio a fronte del principio di legalità e dell’assoluto divieto, posto a tutela di interessi costituzionali almeno pari, se non addirittura superiori, a quelli di buon andamento e di imparzialità, di applicazione estensiva delle norme sanzionatorie.

6.3. Per quanto non invocata dal Tribunale, neppure sul punto la sentenza n. 241/2023 della Corte di Conti appare persuasiva.

6.4. Il giudice contabile (p. 36 della sentenza) asserisce infatti che l’art. 53, comma 7, nonostante l’inequivoco esordio («In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni […]»), non abbia natura sanzionatoria, ma risarcitoria, nel senso che predetermina il danno arrecato all’amministrazione d’appartenenza dal dipendente che abbia esercitato attività libero professionale incompatibile, «con lo scopo – questo sì dichiarato – di rafforzare la tutela dell’erario a fronte della diffusa prassi di attività extraistituzionale non autorizzata».

6.5. Si tratterebbe, però, di un’interpretazione vistosamente forzata, che urta con l’elementare considerazione per cui l’esercizio di attività libero professionale, anche in ipotesi incompatibile, non è di per sé causa di alcun danno.

7. Le censure dell’appellante sin qui riportate e riassunte, tuttavia, sono destituite di fondamento.

7.1. Il comma 7 dell’art. 53, nella versione, applicabile alla fattispecie all’esame, risultante dalla modifica introdotta dall’art. 1, comma 42, lett. c), della l. 6 novembre 2012, n. 190 (cd legge anticorruzione), prevede che «i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza» e che «ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi» e che «con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto» nonché, ancora, che «in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti».

7.2. Il richiamato comma 7 costituisce, invero, espressione dei precetti costituzionale di (tendenziale esclusività) della funzione pubblica (ex art. 98 Cost.) e di buon andamento degli uffici della pubblica amministrazione (art.97 Cost.), pienamente salvaguardati solo nella misura in cui si garantisca all’amministrazione d’appartenenza una verifica puntuale, di volta in volta, in ordine alla insussistenza di situazioni di conflitto d’interessi nell’attività espletata all’esterno e dell’impegno, in termini di energie intellettuali e lavorative, richiesto al proprio dipendente dalla medesima attività.

8. Bene ha osservato infatti il primo giudice, sulla scorta di quanto già rilevato il giudice contabile, che l’art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001 si applica e non può non applicarsi anche all’ipotesi, che qui ricorre, di esercizio di attività libero-professionale radicalmente incompatibile con il rapporto esclusivo di pubblico impiego, non potendo ipotizzarsi che tale violazione, ben più grave del mero espletamento di un singolo isolato incarico o singoli incarichi non previamente autorizzati, non legittimi l’amministrazione a richiedere i compensi percepiti.

8.1. Non solo la dizione letterale dell’art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001, nel riferirsi anzitutto ad «incarichi che non siano stati conferiti», nozione generica che a maiori comprende ogni tipo di attività retribuita non conferita dall’amministrazione di appartenenza, anche privata, non esclude infatti tale evenienza più grave, dovendo ricordarsi del resto come anche l’autorizzazione postuma, in caso di incarichi preventivamente autorizzabili, non sani l’attività illegittimamente avvenuta (v., sul punto, Cass., sez. II, 19 gennaio 2022, n. 1623, ord. nonché questo Cons. St., sez. VI, 2 novembre 2016, n. 4590) e, dunque, a nulla rileva a tali fini che l’attività illegittimamente eseguita sia a priori autorizzabile o meno, ma è la stessa interpretazione logica ad imporre una conclusione opposta rispetto a quella sostenuta dell’appellante, che comporterebbe conseguenze evidentemente irrazionali ed aberranti, consentendo al pubblico dipendente infedele, al di là delle misure disciplinari e, non ultima, della sanzione della decadenza dall’impiego, di svolgere contemporaneamente due attività lavorative, quella di pubblico impiego a tempo pieno e quella privata, parallela alla prima, anche per molti anni, come nella vicenda presente, ricevendo e trattenendo sia lo stipendio che i proventi della seconda attività vietata in costanza di rapporto di impiego pubblico.

8.2. Bene evidente è però l’assurdità di una simile conclusione, essa, sì, contraria ai principi costituzionali di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e tendenziale esclusività della funzione pubblica (art. 98 Cost.) e persino, si vorrebbe aggiungere, al principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), dato che per paradosso finisce per incentivare i pubblici dipendenti a svolgere una doppia professione, senza temere alcuna conseguenza economica di tale gravissima infedeltà (al di là di eventuali provvedimenti disciplinari e finanche della decadenza dall’impiego), potendo per absurdum essi trattenerne i compensi relativi impunemente.

8.3. Come è stato esattamente osservato, l’obbligo di informare il datore di lavoro in ordine agli incarichi ricevuti vale anche per le attività assolutamente incompatibili, per il cui svolgimento, ove non liberalizzate, doveva pur sempre formularsi una domanda, anche se suscettibile di diniego da parte dell’Ateneo, sicché la mancata richiesta di autorizzazione – o, per meglio dire, l’omessa informativa – sia pure per le attività incompatibili, destinata a un epilogo di rigetto da parte della pubblica amministrazione, integra una condotta tesa all’occultamento del danno, mentre elemento costitutivo del fatto dannoso deve ritenersi il mero svolgimento dell’attività, vietata a monte dal legislatore, in contrasto con lo status di professore a tempo pieno.

8.4. Siffatto onere, espressione anche dei generali obblighi di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 e 1375 c.c., costituiva infatti un preciso dovere di servizio, anche in considerazione degli obblighi previsti dal più volte citato art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001 (v. ex plurimis, sul punto, Corte dei Conti Campania, sez. giurisd., 9 gennaio 2023, n. 3 nonché Corte dei Conti Toscana, sez. giurisd., 10 giugno 2020, n. 152).

8.5. Né giova infine all’appellante sostenere che la norma, avendo natura sanzionatoria, sarebbe di strettissima interpretazione, posto che, al contrario, per pacifica giurisprudenza la disposizione in parola – e, cioè, il già richiamato art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165 del 2001 – non ha natura sanzionatoria, ma reale e compensativa, volta a prevedere una misura reale di destinazione dei compensi in difetto di previa autorizzazione (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VII, 13 gennaio 2023, n. 451), tanto che ad essa si applica la prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c.

8.6. Con il che viene a cadere l’assunto sul quale si basa, a torto, anche la proposta questione di costituzionalità, correttamente disattesa dal primo giudice, in quanto manifestamente infondata, proprio per la negazione della sua erroneamente affermata natura sanzionatoria, invece posta a base della sollevata questione.

9. Ne segue che, per tutte le ragioni esposte, l’appello qui proposto, destituito di fondamento, debba essere respinto, con la conseguente conferma della sentenza impugnata.

10. Le spese del presente grado del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la manifesta soccombenza dell’appellante nei confronti dell’Università appellata.

10.1. A carico di questi rimane definitivamente anche il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, proposto da OMISSIS, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Condanna OMISSIS a rifondere in favore dell’Università degli Studi di Milano le spese del presente grado del giudizio, che liquida nell’importo di € 5.000,00, oltre gli accessori come per legge.

Pone definitivamente a carico di OMISSIS il contributo unificato richiesto per la proposizione dell’appello.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 26 novembre 2024, con l’intervento dei magistrati:

OMISSIS, Presidente

OMISSIS, Consigliere, Estensore

OMISSIS, Consigliere

OMISSIS, Consigliere

OMISSIS, Consigliere

Pubblicato il 16 dicembre 2024