Il termine finale di conclusione del procedimento disciplinare ex art. 10, co. 5, l. n. 240/2010 ha natura perentoria, mentre tutti gli altri termini intermedi infra-procedimentali hanno natura soltanto ordinatoria.
Cons. Stato, Sez. VII, 26 febbraio 2025, n. 1691
Il termine finale di conclusione del procedimento disciplinare ex art. 10, co. 5, l. n. 240/2010 ha natura perentoria
01691/2025REG.PROV.COLL.
06658/2024 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6658 del 2024, proposto dalla Prof.ssa -OMISSIS- -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’Avvocato Antonio Sasso, con domicilio digitale come da pec da Registri di Giustizia;
contro
Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli Napoli, Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per la Funzione Pubblica, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza n. -OMISSIS-, del 16 gennaio 2024, resa inter partes dalla Seconda Sezione del T.A.R. Campania, sede di Napoli, nel giudizio R.G. n. -OMISSIS-
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli Napoli e della Presidenza del Consiglio dei Ministri;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2025 il Cons. OMISSIS e uditi per le parti il difensore dell’appellante Avv. OMISSIS;
Viste le conclusioni dell’Università appellata, come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso ritualmente proposto dinanzi al TAR Campania-Napoli, l’odierna appellante – docente di seconda fascia di Microbiologia e Microbiologia Clinica in regime di impegno a tempo pieno presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli (Dipartimento di Medicina Sperimentale) – insorgeva avverso la delibera del Consiglio di Amministrazione di detta Università (assunta nell’adunanza del 20 settembre 2022) con cui è stata irrogata a suo carico la sanzione disciplinare della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per mesi tre a decorrere dal 1° novembre 2022, oltre la perdita degli emolumenti per tre mesi, l’esonero dall’insegnamento per il ridetto periodo, l’esonero dalle funzioni accademiche e da quelle ad esse connesse e la perdita ad ogni effetto dell’anzianità per tutto il tempo della sua durata, con preclusione per dieci anni delle funzioni di Rettore o Direttore di Istituzione Universitaria.
Gli addebiti sui quali sono fondate le suddette sanzioni erano i seguenti:
a) l’appellante avrebbe svolto nel 2019 un’attività professionale senza averlo comunicato all’Ateneo, non essendo stata dimostrata la natura di consulenza scientifica;
b) l’appellante sarebbe stata titolare dal 2018 al 2021 di quote in una SRL come socio di maggioranza in un laboratorio di patologia clinica.
Il ricorso era affidato a plurimi motivi di impugnazione per violazione di legge ed eccesso di potere.
L’Università e la Presidenza del Consiglio dei Ministri si sono costituite in resistenza, instando per la reiezione del gravame.
Con la sentenza ora appellata (n. -OMISSIS-) il TAR Campania-Napoli, sezione Seconda, ha respinto il ricorso.
Con l’odierno atto di appello ritualmente notificato e depositato presso la segreteria di questo Consiglio di Stato, la ricorrente impugna la sentenza che ha respinto il proprio ricorso. L’atto di appello è affidato a 6 distinti motivi di gravame che verranno più avanti diffusamente scrutinati.
L’Università e la Presidenza del Consiglio dei Ministri si sono ritualmente costituite in giudizio, instando per la reiezione dell’appello e per la conferma della sentenza gravata.
All’udienza pubblica del 11 febbraio 2025 il Collegio ha trattenuto la causa in decisione.
DIRITTO
Con il primo motivo di appello (intitolato “Error in iudicando. Erroneità della sentenza per non aver riconosciuto la tardività dell’azione disciplinare e la violazione dei termini del procedimento”) l’appellante censura la sentenza impugnata là dove ha negato che l’Università fosse decaduta dal potere di avviare il procedimento disciplinare, trascurando in tal modo un’asserita violazione del termine di 30 giorni per l’avvio del procedimento exart. 10, co. 2, legge n. 240 del 2010 (il quale dispone, per l’appunto, che il Rettore deve formalizzare l’avvio del procedimento disciplinare entro il termine di 30 giorni dalla conoscenza dei fatti).
In particolare, il nucleo censorio del motivo in esame è focalizzato sul capo di sentenza che ha identificato il dies a quo del suddetto termine di 30 giorni non già nella data del 22 marzo 2021 (ovverossia la data in cui il Nucleo di Polizia Economico finanziaria di Caserta aveva notificato all’Università il “decreto d’ispezione e accertamenti delegati – ex art. 61 D.Lgs 26.08.2016 n. 174 Codice della Giustizia contabile” relativo al fascicolo istruttorio della Procura contabile Regionale presso la Sezione Giurisdizionale della Campania) bensì nella diversa data del 18 febbraio 2022.
Ed infatti, la sentenza gravata aveva condiviso la tesi della difesa erariale secondo cui l’Università aveva avuto piena conoscenza degli illeciti dell’appellante soltanto in data 18 febbraio 2022 allorquando la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento della Funzione Pubblica) aveva trasmesso all’Ateneo la relazione istruttoria della Guardia di Finanza.
La difesa dell’appellante mira adesso a sovvertire l’assunto secondo cui l’Università avrebbe compiutamente conosciuto gli illeciti della ricorrente soltanto in data 18 febbraio 2022: si sostiene, infatti, che l’Università avrebbe conosciuto tali illeciti già in data 22 marzo 2021.
Il motivo è infondato.
In proposito, urge innanzitutto fare un breve richiamo ai consolidati principi che la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha foggiato in relazione al disposto dell’art. 10, comma 2, legge n. 240 del 2010, secondo il quale “L’avvio del procedimento disciplinare spetta al rettore che, per ogni fatto che possa dar luogo all’irrogazione di una sanzione più grave della censura tra quelle previste dall’articolo 87 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore di cui al regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592, entro trenta giorni dal momento della conoscenza dei fatti, trasmette gli atti al collegio di disciplina, formulando motivata proposta”.
Orbene, come ripetutamente chiarito da questa stessa Sezione (cfr. ex multis Cons. St., sez. VII, 7 giugno 2024, n. 5138) “Solo dal momento della chiara e precisa conoscenza dei fatti posti alla base dell’addebito è infatti possibile far decorrere il previsto termine di 30 giorni, per l’avvio del procedimento disciplinare perché, altrimenti, sarebbe impossibile apprezzare compiutamente i fatti stessi e quindi l’opportunità di dar avvio o meno al procedimento disciplinare stesso. Anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (ex art. 55-bis, comma 4, del D.lgs. n. 165 del 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una ‘notizia di infrazione’ di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione (v. anche, Cass. 13 luglio 2020, n. 14886). Un fatto è rilevante sul piano disciplinare soltanto se corredato da elementi narrativi e conoscitivi sufficientemente articolati, dettagliati e circostanziati in quanto “è a tutela dello stesso lavoratore evitare che vengano promosse iniziative disciplinari ancora prive di sufficienti dati conoscitivi; né risponde ad un’esigenza di economia ed efficienza dell’agire amministrativo l’apertura di procedimenti disciplinari in assenza di significativi elementi di riscontro della responsabilità”(Cass. n. 33236/2022). Dunque, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la contestazione dell’addebito dal D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4, assume rilievo esclusivamente il momento in cui l’ufficio competente abbia acquisito una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento mediante la contestazione, la quale può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere, sicché il suddetto termine non può decorrere a fronte di una notizia che non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito (Cass., n. 16706 del 2018). La Corte di Cassazione, inoltre, ha ripetutamente affermato che, ai fini della decorrenza del termine per la contestazione dell’addebito, la contestazione essere ritenuta tardiva solo qualora l’Amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte, e non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo valido avvio, mentre il termine non può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione, ma richieda accertamenti di carattere preliminare, volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito (Cass. n. 22075/2018; Cass. n. 12662/2019; Cass. n. 11949/2019; Cass. n. 22379/2022; Cass. n. 33236/2022). È stato infatti ribadito il principio secondo cui ai fini di una contestazione disciplinare è necessaria una notizia “circostanziata” dell’illecito ovvero una conoscenza certa, da parte dei titolari dell’azione disciplinare, di tutti gli elementi costitutivi dello stesso (Cass. n. 9313/2021)”.
Fermi restando tali consolidati principi, il Collegio rileva che nel caso di specie l’Università – come condivisibilmente affermato dal giudice di prime cure – non poteva certamente avere un’adeguata conoscenza degli illeciti della ricorrente soltanto sulla base del “decreto d’ispezione e accertamenti delegati – ex art. 61 D. Lgs 26.08.2016 n. 174 Codice della Giustizia contabile” (relativo al fascicolo istruttorio della Procura contabile Regionale presso la Sezione Giurisdizionale della Campania) notificato in data 22 marzo 2021.
Il suddetto decreto, infatti, dopo aver premesso che veniva in rilievo “un’ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile per danno derivante da presunte illegittime attività extra-istituzionali, esercitate da un docente dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, prof.ssa -OMISSIS- -OMISSIS- (nata ad -OMISSIS-)”, e dopo aver precisato che risultava “necessario un approfondimento istruttorio per avere una migliore conoscenza dalla vicenda e anche per la quantificazione del danno erariale”, si limitava a disporre “l’accesso, da parte della G.d.F. delegata, anche senza preavviso, alle sedi o uffici presso le quali i soggetti, avvinti da relazione di servizio, abbiano prestato la loro opera e/o siano eventualmente potuti entrare in contatto nell’esperimento delle illecite condotte”.
La piana lettura del suddetto decreto notificato all’Università in data 22 marzo 2021 conferma, pertanto, che esso non conteneva alcuna specifica e circostanziata notizia di infrazione, con la conseguenza che il termine di 30 giorni per l’avvio del procedimento disciplinare non poteva certamente decorrere – come invece sostenuto dall’appellante – dal 22 marzo 2021.
Va da sè che la sentenza appellata va confermata, posto che soltanto in data 18 febbraio 2022 l’Università – avendo ricevuto la notifica della relazione istruttoria della Guardia di Finanza – ha finalmente acquisito una notizia di infrazione corredata da un sufficiente numero di elementi conoscitivi e narrativi.
Per tutto quanto sopra esposto, pertanto, il primo motivo di appello va respinto in quanto infondato.
Con il secondo motivo di appello (intitolato “Error in iudicando ed omessa pronuncia. Erroneità della sentenza per non aver riconosciuto il difetto insanabile di composizione della commissione disciplinare”) l’appellante censura la sentenza gravata nella parte in cui ha escluso il vizio di costituzione del Consiglio di Amministrazione che in data 20 settembre 2022 ha irrogato la sanzione disciplinare.
A tal proposito, la sentenza appellata aveva rilevato quanto segue: “Sempre con il primo motivo, parte ricorrente deduce l’illegittimità della composizione del Consiglio di Amministrazione ed il vizio di costituzione dell’organo che ha assunto la sanzione disciplinare impugnata, in quanto, come emergerebbe dal verbale dell’adunanza del Consiglio di Amministrazione del 20 settembre 2020, all’esito della quale è stata comminata la misura disciplinare nei confronti della prof.ssa -OMISSIS- erano totalmente assenti i membri esterni. Anche tale profilo di doglianza è infondato. Come ha rilevato l’Università, la regolarità della costituzione di un organo collegiale deve essere valutata esclusivamente alla stregua del quorum costitutivo richiesto (che non richiede per la validità della specifica deliberazione la partecipazione della totalità dei componenti). Nel caso di specie, l’adozione del provvedimento è stata deliberata con la presenza della maggioranza dei votanti, e dunque con il rispetto del quorum necessario, pari, a sensi dell’art.48 dello Statuto di Ateneo, alla maggioranza degli aventi diritto al voto. Pertanto, non è rilevante la circostanza che quel giorno i membri esterni fossero assenti”.
Ribatte l’appellante che il Giudice di prime cure avrebbe confuso il vizio costitutivo dell’organo collegiale con il vizio deliberativo. Il vizio denunziato dall’appellante non affliggerebbe, in tesi, la fase deliberativa del Consiglio di Amministrazione, bensì la prodromica fase di formazione dell’organo, il quale si sarebbe riunito in assenza dei tre membri esterni (la cui presenza era prescritta dall’art. 13 dello Statuto dell’Università).
Soggiunge l’appellante, inoltre, che in occasione dell’adunanza collegiale del 20 settembre 2022 (durante la quale il Consiglio di Amministrazione ha irrogato la sanzione della sospensione) era presente con funzioni consultive anche il Pro Rettore Vicario (ex art. 13 dello Statuto dell’Università) il quale nel 2019 aveva conferito l’autorizzazione allo svolgimento dell’incarico consulenziale (di cui è stata poi contestata la natura libero-professionale nell’ambito del procedimento disciplinare de quo): ritiene in proposito l’appellante che “la compartecipazione ai fatti avrebbe imposto una sua astensione dalla seduta”.
Anche questo secondo motivo di appello è infondato.
Non è vero, infatti, che la sentenza di prime cure si sia erroneamente soffermata sul quorum deliberativo dell’organo collegiale in questione (id est il Consiglio di Amministrazione dell’Università intimata), anziché sul quorum costitutivo.
La sentenza di primo grado ha correttamente richiamato, infatti, l’art. 48 dello Statuto di Ateneo.
Tale disposizione prevede, ai primi due commi, rispettivamente il quorum costitutivo e il quorum deliberativo degli organi collegiali dell’Università (incluso il Consiglio di Amministrazione).
In particolare, il primo comma prevede che “Le adunanze degli organi collegiali dell’Ateneo sono valide con la presenza della maggioranza degli aventi diritto al voto. Per il senato accademico ed il consiglio di amministrazione gli assenti, giustificati o meno, non contribuiscono al raggiungimento del quorum strutturale. Per gli altri organi collegiali gli assenti giustificati contribuiscono al raggiungimento del quorum strutturale, ad eccezione dei collegi perfetti”.
Il secondo comma del prefato art. 48 dello Statuto prevede, poi, che “Le deliberazioni degli organi collegiali sono adottate a maggioranza assoluta dei votanti, salvo i casi di maggioranze qualificate previsti dalla legge o dal presente statuto”.
In sintesi, quindi, il primo comma dell’art. 48 dello Statuto di Ateneo prevede un quorum costitutivo (o strutturale) dell’organo collegiale, che è costituito dalla maggioranza degli aventi diritto al voto.
Il secondo comma dell’art. 48 prevede, invece, un quorum deliberativo che è costituito dalla maggioranza assoluta dei votanti.
Orbene, la sentenza appellata ha correttamente preso atto che il Consiglio di Amministrazione del 20 settembre 2022, come emerge per tabulas, si è tenuto nel rispetto del quorum costitutivo della maggioranza degli aventi diritto al voto, il che rende assolutamente irrilevante – proprio ai fini della formazione dell’organo collegiale – la mancanza dei 3 membri esterni indicati dall’art. 13 dello Statuto.
Quanto alla presenza in collegio del pro rettore vicario (che nel 2019 aveva conferito l’autorizzazione all’attività consulenziale in contestazione) basti rilevare che ai sensi dell’art. 13 co. 2 dello Statuto di Ateneo tale soggetto non ha diritto di voto, sicchè la sua presenza è assolutamente irrilevante sia ai fini del quorum costitutivo, sia ai fini del quorum deliberativo.
Per tutto quanto sopra esposto, pertanto, anche il secondo motivo di appello va respinto in quanto infondato.
Con il terzo motivo di appello (intitolato “Error in iudicando ed omessa pronuncia in ordine alla violazione dei termini del procedimento disciplinare”) l’appellante censura la sentenza gravata per avere erroneamente negato l’intervenuta violazione dei termini procedimentali di cui all’art. 10, commi 3 e 5, della legge n. 240 del 2010 (in proposito, il comma 3 prevede che il Collegio di Disciplina invia al Consiglio di Amministrazione un proprio parere entro il termine di 30 giorni dalla data in cui il Rettore ha trasmesso gli atti al suddetto Collegio, mentre il comma 5 dispone che la sanzione va irrogata entro il termine di 180 giorni dalla data di avvio del procedimento disciplinare).
A tal riguardo, la sentenza appellata aveva statuito quanto segue: “La ricorrente denuncia inoltre la violazione del termine per la emanazione del parere del Collegio di disciplina e del termine di chiusura del procedimento di cui all’art. 10 L. n. 240/2010. Il profilo di doglianza non può essere accolto, in quanto il termine per l’emanazione del parere del Collegio di disciplina ha natura ordinatoria. È infatti ormai diffuso in giurisprudenza l’orientamento che riconosce in materia disciplinare la natura ordinatoria di tutti i termini infra-procedimentali (cfr. per tutte TAR Umbria, Sez. I, n. 483/2020 e T.A.R. Napoli, sez. II, 07/12/2021, n.7845). Per quanto attiene, infine, alla dedotta violazione del termine perentorio di centottanta giorni per la conclusione del procedimento, il profilo di censura va respinto poiché il termine risulta rispettato tenuto conto della sospensione di giorni dieci disposta per esigenze istruttorie dal Collegio di disciplina con verbale del 25/05/2022 ex art. 10, comma 5, L. L. 30/12/2010, n. 24”.
In argomento, l’appellante – rilevato nuovamente che il parere è stato espresso in data 16 settembre 2022 a fronte della comunicazione rettoriale del 16 marzo 2022 – insiste per la perentorietà del suddetto termine di 30 giorni previsto dall’art. 10 co. 3 della legge n. 240 del 2010, atteso che il parere in questione “esaurisce e conclude la fase in contraddittorio tra le parti dinanzi al Collegio di disciplina”, il che smentirebbe la tesi secondo cui si tratterebbe di un termine meramente infraprocedimentale.
Con specifico riferimento, poi, al diverso termine di 180 giorni ex art. 10 co. 5 della legge n. 240 del 2010 (il quale è previsto per l’irrogazione della sanzione finale), l’appellante obietta che il termine in questione risulterebbe comunque violato anche se lo si facesse decorrere dall’atto di avvio del procedimento disciplinare del 16 marzo 2022 (atto in tesi tardivo per le ragioni articolate con il 1° motivo di appello).
Ad avviso dell’appellante, infatti, pur volendo far decorrere i 180 giorni dal 16 marzo 2022, essi sarebbero scaduti in data 12 settembre 2022 (mentre la sanzione disciplinare è stata adottata in data 20 settembre 2022).
Anche questo motivo è infondato.
Per quel che concerne, infatti, il termine di cui all’art. 10, co. 3, della legge n. 240 del 2010 (il quale dispone che “Il collegio di disciplina, uditi il rettore ovvero un suo delegato, nonché il professore o il ricercatore sottoposto ad azione disciplinare, eventualmente assistito da un difensore di fiducia, entro trenta giorni esprime parere sulla proposta avanzata dal rettore sia in relazione alla rilevanza dei fatti sul piano disciplinare sia in relazione al tipo di sanzione da irrogare e trasmette gli atti al consiglio di amministrazione per l’assunzione delle conseguenti deliberazioni. Il procedimento davanti al collegio resta disciplinato dalla normativa vigente”), il capo di sentenza sul punto è conforme all’indirizzo esegetico già espresso da questa Sezione.
In proposito, infatti, la Sezione ha chiarito quanto segue: “L’art. 10 della legge “Gelmini” ha indubbiamente innovato il previgente modello procedimentale, decentrando la fase istruttoria del procedimento disciplinare, prima centralizzata, presso Collegi di Disciplina da istituirsi e regolamentarsi presso ogni Ateneo, nel contempo abrogando la competenza del CUN e assegnando la potestà di applicare la sanzione non più al Rettore ma al Consiglio di Amministrazione. L’esigenza di previsione di termini certi e perentori per l’avvio e l’estinzione del procedimento disciplinare è riconosciuta oltre che da pacifica giurisprudenza amministrativa (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 9 marzo 2010, n. 1374) dalla stessa Consulta (sent. n. 1128 del 1998) laddove è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2, L. 18 marzo 1958 n. 311, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui non richiama, ai fini della sua applicazione ai professori universitari di ruolo, l’art. 120 D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 che stabilisce l’estinzione del procedimento disciplinare quando siano decorsi novanta giorni dall’ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto. Il Consiglio di Stato, in sede di parere sullo schema di decreto legislativo recante “Modifiche ed integrazioni al Testo unico del pubblico impiego, di cui al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lett. a), e 2, lett. b),c), d) ed e) e 17, comma 1, lett. a), c), e), f), g) h), l) m), n), o), q), s), e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, ha rilevato che la natura perentoria del termine per la contestazione dell’addebito (termine iniziale) nonché del termine per la conclusione del procedimento disciplinare (termine finale) garantisce la certezza delle posizioni giuridiche coinvolte dal procedimento e la necessità del tempestivo esperimento del medesimo ed ha la funzione di mantenere il nesso causale tra azione e reazione disciplinare, che costituisce fondamento dell’applicazione della misura sanzionatoria, in termini di percezione educativa del disvalore della condotta tenuta dal lavoratore. Ai sensi del citato art. 10 c. 5 legge 204/2010 “il procedimento si estingue ove la decisione di cui al comma 4 non intervenga nel termine di centottanta giorni dalla data di avvio del procedimento stesso” sì che l’unico termine perentorio appare proprio quello di conclusione del procedimento, restando irrilevanti gli altri” (Cons. St., sez. VII, 9 marzo 2023, n. 2519).
In sintesi, quindi, se da un lato è stata riconosciuta la natura perentoria del termine finale di conclusione del procedimento disciplinare ex art. 10, co. 5, l. n. 240/2010, dall’altro lato è stata ampiamente riconosciuta, invece, la natura soltanto ordinatoria di tutti gli altri termini intermedi infra-procedimentali.
Termini tra i quali rientra innegabilmente anche quello di cui all’art. 10, co. 3, l. n. 240/2010, così come condivisibilmente affermato dalla sentenza appellata, che pertanto merita di essere confermata sul punto.
Per quel che concerne, poi, l’asserita violazione del termine finale di 180 giorni previsto dall’art. 10, co. 5, l. n. 240/2010, la doglianza è infondata in fatto sulla base delle seguenti circostanze risultanti per tabulas:
a) l’atto di avvio del procedimento disciplinare (dal quale deve decorrere il termine di 180 giorni) risale al 16 marzo 2022;
b) in data 25 maggio 2022, allorquando il suddetto termine non era ancora spirato, lo stesso è stato legittimamente sospeso in virtù di quanto consentito dall’art. 10 co. 5 della legge n. 240/2010, ciò determinando un differimento della scadenza dal 12 settembre 2022 al 22 settembre 2022;
c) l’atto di irrogazione della sanzione finale risale al 20 settembre 2022.
Va da sé che la sanzione – come correttamente rilevato dalla sentenza gravata – è stata tempestivamente irrogata in una data (20 settembre 2022) antecedente rispetto a quella di scadenza del termine di 180 giorni (22 settembre 2022).
Il terzo motivo di appello va quindi respinto in quanto infondato.
Con il quarto motivo di appello (intitolato “Error in iudicando ed omessa pronuncia circa le reformatio in peius della sanzione comminata rispetto al parere reso dal Collegio di Disciplina”) l’appellante censura la sentenza impugnata per avere omesso di esaminare una doglianza che era stata sollevata nel giudizio di 1° grado, e cioè il fatto che il Collegio di Disciplina aveva proposto unicamente la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un trimestre, mentre l’atto sanzionatorio finale sarebbe intervenuto in via additiva e avrebbe introdotto, quindi, ulteriori conseguenze punitive mai indicate dal Collegio di Disciplina (ovverossia l’interdizione per un decennio dalle cariche rettoriali e direttoriali, nonchè la perdita dell’anzianità di servizio e l’esonero da ogni funzione accademica).
Tutto ciò in applicazione del R.D. 1592/1933 (art. 89) che in tesi sarebbe stato abrogato e superato dall’autonomia disciplinare di cui godono gli istituti accademici.
12.1. Anche questo motivo è infondato.
12.2. L’esame della censura impone di prendere abbrivio dalla lettura degli artt. 87 e 89 del R.D. 1592/1933 (nella versione modificata dall’art. 5 L. 16 gennaio 2006, n. 18), entrambi tutt’ora pienamente vigenti. Orbene:
a) l’art. 87 dispone che “Ai professori di ruolo possono essere inflitte, secondo la gravità delle mancanze, le seguenti punizioni disciplinari: 1) la censura; 2) la sospensione dall’ufficio e dallo stipendio ad un anno; 3) la revocazione; 4) la destituzione senza perdita del diritto a pensione o ad assegni; 5) la destituzione con perdita del diritto a pensione o ad assegni”;
b) i primi due commi dell’art. 89 dispongono che “Le punizioni, di cui ai nn. 2, 3, 4 e 5 dell’art. 87, si applicano secondo i casi e le circostanze, per le seguenti mancanze: a) grave insubordinazione; b) abituale mancanza ai doveri di ufficio; c) abituale irregolarità di condotta; d) atti in genere, che comunque ledano la dignità o l’onore del professore. La punizione di cui al n. 2 importa, oltre la perdita degli emolumenti, l’esonero dall’insegnamento, dalle funzioni accademiche e da quelle ad esse connesse, e la perdita ad ogni effetto, dell’anzianità per tutto il tempo della sua durata. Il professore che sia incorso nella punizione medesima non può per 10 anni solari essere nominato rettore di Università o direttore di Istituzione universitaria”.
In sintesi, quindi, dal combinato disposto degli artt. 87 e 89 del R.D. 1592/1933 si evince che la sanzione della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio (fino ad un massimo di un anno) comporta ex se l’applicazione di alcune conseguenze sanzionatorie accessorie stabilite direttamente dalla legge: in tal senso il Consiglio di Stato ha osservato che “la sanzione accessoria in essa prevista, per sua natura ancillare e intimamente collegata al riconoscimento della responsabilità nei confronti dell’incolpato della trasgressione a lui contestata ed alla individuazione delle conseguente sanzione in quella stabilita dall’art. 87, comma primo, punto 2) R.D. 1592/1933 e quindi della “sospensione dall’ufficio e dallo stipendio fino ad un anno”, determina in via automatica e senza ulteriori valutazioni in merito alla gravità o alla qualità del comportamento tenuto nella specie dal sanzionato, l’applicazione della sanzione accessoria di cui sopra. Ne consegue che sull’Amministrazione non gravavano ulteriori obblighi né istruttori né di valutazione di congruità ai fini dell’applicazione della misura accessoria, una volta appurata la sussistenza dei presupposti e deciso di infliggere la sanzione della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per il periodo ritenuto congruo e proporzionato rispetto alle trasgressioni accertate e commesse” (Cons. Stato Sez. VI, 12 aprile 2019, n. 2378).
Soggiunge in proposito la succitata giurisprudenza del Consiglio di Stato che “Tale conclusione rende de plano infondata anche la censura dedotta con il secondo motivo di appello, per il quale il TAR avrebbe dovuto evidenziare la illegittimità dell’intero procedimento disciplinare per non avere l’Amministrazione posto l’incolpato nella condizione di potersi adeguatamente difendere dalle contestazioni, essendogli stata ‘celata’ la intera platea delle possibili conseguenze dell’avvio del procedimento disciplinare nei suoi confronti e comunque non avendo l’ente mai fatto cenno, neppure nell’atto di contestazione degli addebiti, alla misura accessoria poi inflitta. Per quanto si è sopra riferito, posto che la inflizione della sanzione interdittiva sfugge alla volontà degli organi sui quali è ripartita la competenza a svolgere il procedimento disciplinare, ai sensi dell’art. 10 l. 30 dicembre 2010, n. 240, stante la sua irrogazione automatica, non emergono in nessuna disposizione normativa elementi idonei al fine di evidenziare un obbligo in capo all’amministrazione di inserire nella contestazione degli addebiti anche tale elemento procedurale, essendo eventuale ed incerto quanto la sicura colpevolezza del(l’incolpato) trasgressore, nonché l’entità della sanzione che (eventualmente ed effettivamente) verrà inflitta. D’altronde l’art. 10, comma 3, l. 240/2010 richiama l’attenzione sulla necessità che gli atti principali del procedimento disciplinare contengano elementi chiarificatori e divulgativi, ai fini di poter compiutamente esercitare il diritto di difesa da parte dell’incolpato, “in relazione alla rilevanza dei fatti sul piano disciplinare sia in relazione al tipo di sanzione da irrogare”, ma nulla disponendo in merito alle sanzioni accessorie che, ex lege, potrebbero discendere dalla irrogazione di una determinata sanzione disciplinare” (Cons. Stato Sez. VI, 12 aprile 2019, n. 2378).
Tanto premesso, nel caso di specie appare irrilevante il fatto che il parere del Collegio di Disciplina abbia omesso di indicare le sanzioni accessorie (e cioè le sanzioni che si aggiungono automaticamente ex lege alla sanzione principale della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio).
Si tratta, infatti, in armonia con il chiaro indirizzo giurisprudenziale testè richiamato, di un effetto sanzionatorio accessorio ed automatico, la cui operatività è sancita direttamente dalla legge.
Il che esclude in radice che il Consiglio di Amministrazione abbia indebitamente aggravato (in fase di adozione della sanzione finale) la proposta sanzionatoria formulata dal Collegio di Disciplina.
Per tutto quanto sopra esposto, pertanto, il quarto motivo di appello va respinto in quanto infondato.
Con il quinto motivo di appello (intitolato “Error in iudicando ed omessa pronuncia. Erroneità della sentenza per aver escluso il carattere consulenziale dell’attività extraistituzionale svolto. Omessa valutazione di fatti rilevanti”) l’appellante censura la sentenza impugnata per non avere considerato che nel caso di specie difetterebbe la prova dell’esistenza del primo dei due illeciti contestati (e cioè dello svolgimento non consentito di un’attività libero-professionale); soggiunge l’appellante che sarebbe presente in atti – al contrario – la prova del carattere meramente consulenziale di detta attività.
In particolare, l’appellante evidenzia i seguenti aspetti:
a) l’attività in questione è un’attività di consulenza scientifica che è stata oggetto di preventiva autorizzazione da parte dell’amministrazione universitaria (il che escluderebbe – in tesi – qualsiasi forma di colpa dell’appellante); soggiunge in proposito l’appellante che “La docente, invero, ha trasmesso all’Università Vanvitelli in data 25 marzo 2019 una formale comunicazione relativa alla attività di consulenza scientifica che si apprestava a svolgere, con documentazione a supporto per la verifica della compatibilità. Tale comunicazione e documentazione è stata favorevolmente vagliata dall’Università Vanvitelli, con rilascio del relativo nulla osta con espressa declaratoria di assenso del seguente risolutivo tenore: “verificata, per quanto di competenza, l’assenza di conflitto d’interessi” (cfr. pag. 30 dell’atto di appello);
b) il fatto che l’attività de quafosse liberamente consentita sarebbe confermato dallo stesso parere reso “in risposta a quesiti del 27 maggio 2019” dal Capo del Dipartimento per la formazione superiore e la Ricerca del M.U.R. (prof. -OMISSIS-) indirizzato all’Unione sindacale Professori e Ricercatori Universitari;
c) il primo dei tre requisiti valorizzati dall’Amministrazione per sostenere la natura libero-professionale (anziché consulenziale) dell’attività in questione – id estil requisito della frequenza dell’attività – non troverebbe riscontro nella realtà, atteso che “l’attività consulenziale svolta dalla prof.ssa -OMISSIS- è unica e sola, non permanente, semplicemente suddivisa su di un arco temporale idoneo allo sviluppo scientifico della consulenza (si consideri che la docente ha prestato la propria opera scientifica per il Laboratorio de quo per un numero di ore pari a cento, spiegate su di un arco temporale di ben nove mesi, con l’effetto di aver impiegato soltanto 11 ore al mese, dunque in media poco più di due ore settimanali)” (cfr. pagg. 31 e 32 dell’atto di appello);
d) per quel che concerne, poi, il secondo dei tre requisiti valorizzati dall’Amministrazione al fine di riqualificare l’attività consulenziale come attività libero-professionale – e cioè il requisito dell’inquadramento del rapporto nella fattispecie delle collaborazioni coordinate e continuative (c.d. co.co.co.) – “si ribadisce quanto esposto in primo grado, ma totalmente ignorato in sentenza, che non vi è alcun “inquadramento” come del tutto erroneamente affermato nella pronuncia, ma tale voce co.co.co all’interno dello statino paga elaborato per la prof.ssa -OMISSIS- dal Laboratorio di afferenza è esclusivamente la mera individuazione fiscale da parte della Società di una voce retributiva. La ricorrente ha avuto cura di evidenziare in primo grado che nella scelta di tale nomenclatura non corrisponde rilievo di natura contrattualistica, ed infatti non esiste alcun tipo di contratto stipulato a tale titolo, ma si tratta esclusivamente del diverso rapporto del contribuente con il Fisco, posto che l’attività consulenziale non è stata fatturata in regime di iva, ma nella categoria residuale dei redditi diversi a fini fiscali (molto semplicemente, nella compilazione dello statino paga non erano selezionabili altre utili voci). La prestazione di consulenza, invero, poteva rivestire solo quella forma fiscale/contributiva in quanto tutte le altre previste dalla legge (fatturazione con partita iva o rapporto di lavoro dipendente) non erano compatibili con la fattispecie del rapporto in oggetto” (cfr. pag. 32 dell’atto di appello);
e) per quel che concerne, poi, il terzo requisito valorizzato dall’Amministrazione – e cioè quello del valore economico dell’attività tutt’altro che esiguo (quasi 100.000 euro) – tale aspetto sarebbe completamente irrilevante ai fini dell’apprezzamento dell’intrinseco contenuto consulenziale (oppure invece libero professionale) dell’attività in questione;
f) le pubblicazioni scientifiche dell’appellante depositate in atti dimostrerebbero che i temi trattati nell’ambito della consulenza svolta nel laboratorio non sono le attività routinarie di un qualsiasi laboratorio di analisi.
Anche questo motivo è però infondato.
La quaestio iuris che permea il motivo in esame è la delicata distinzione tra attività consulenziale (consentita) e attività libero-professionale (incompatibile). In proposito, il comma 9 dell’art. 6 della legge n. 240/2010 stabilisce due principi generali in tema di incompatibilità e cioè, in primo luogo, che la posizione di professore e ricercatore (indifferentemente a tempo pieno e a tempo definito) è incompatibile con l’esercizio del commercio e dell’industria e, in secondo luogo, che la posizione di professore a tempo pieno è incompatibile con l’attività libero professionale.
Il successivo comma 10, del medesimo art. 6, individua poi le attività che possono essere svolte liberamente (e, cioè, la valutazione e il referaggio, le lezioni e seminari di carattere occasionale, l’attività di collaborazione scientifica e di consulenza, attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale, attività pubblicistiche ed editoriali) e le attività che richiedono la preventiva autorizzazione del rettore (e, cioè, le funzioni didattiche e di ricerca, compiti istituzionali e gestionali senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro).
Sono note le diverse interpretazioni che hanno portato a distinguere o ad assimilare i concetti di “libera professione” e “consulenza”, anche proprio in ragione del diverso regime di incompatibilità/liberalizzazione che le caratterizza.
13.3. Nell’ambito di tale complessità interpretativa, un ruolo essenziale è stato recentemente svolto dalla norma di interpretazione autentica di cui al comma 2-ter, introdotta nel d.l. 22 aprile 2023 n. 44 dalla legge di conversione 21 giugno 2023, n. 74.
Come già rilevato dalla Sezione (cfr. sul tema Cons. St., sez. VII, 3 novembre 2023, n. 9515), la suddetta norma di interpretazione autentica ha definitivamente chiarito che il primo periodo del comma 10 dell’art. 6 della l. n. 240 del 2010, con specifico riferimento all’attività di consulenza, si deve interpretare «nel senso che ai professori e ai ricercatori a tempo pieno è consentito lo svolgimento di attività extra-istituzionali realizzate in favore di privati o enti pubblici ovvero per motivi di giustizia, purché prestate senza vincolo di subordinazione e in mancanza di un’organizzazione di mezzi e di persone preordinata al loro svolgimento».
Quest’ultimo elemento discretivo – ovverossia il fatto che non vi sia un’organizzazione di mezzi e di persone preordinata allo svolgimento dell’attività extra-istituzionale del docente – è assente nel caso di specie.
Come si evince, infatti, dalla relazione della Guardia di Finanza (cfr. allegato n. 4 depositato dall’Università nel giudizio di 1° grado con la memoria del 19 ottobre 2022), il rapporto extra-istituzionale tra l’appellante e il laboratorio di analisi era qualificato contrattualmente come rapporto di collaborazione coordinata e continuativa (c.d. co.co.co.).
In particolare, la suddetta relazione attesta che:
a) “Dall’esame della Certificazione di Lavoro dipendente fornita in copia dalla docente, si rileva il rapporto di lavoro con il Laboratorio di Patologia Clinica -OMISSIS- -OMISSIS- S.r.l. dal 01.04.2019 al 31.12.2019, con inquadramento nella forma di CO.CO.CO.”;
b) “tale aspetto trova conferma anche dall’esame della busta paga acquisita presso il predetto Laboratorio di Patologia Clinica riportante un corrispettivo lordo di euro 96.359,56, inserito nel quadro dichiarativo alla voce Redditi da lavoro dipendente e assimilati con contratto a tempo determinato”;
c) “nella lettera di incarico, il termine previsto di anni 3 (tre) risulta in contrasto con l’aspetto di sporadicità e occasionalità dell’incarico stesso conferito, così come previsto dalla norma”.
Risulta ex actis, pertanto, che il rapporto extra-istituzionale tra l’appellante e il laboratorio di analisi assumeva la veste giuridica di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.).
Sebbene l’appellante abbia ribattuto che tale inquadramento avesse una valenza meramente fiscale (così negando, quindi, che l’attività in questione fosse una reale co.co.co.) tuttavia la stessa appellante non ha fornito in giudizio alcuna prova a sostegno di tale affermazione contraria: in breve, l’odierna appellante si è limitata a una generica negazione dell’esistenza di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ma non ha fornito anche la relativa dimostrazione.
In particolare, l’appellante non ha dimostrato che il rapporto extra-istituzionale in questione non fosse un rapporto di collaborazione coordinata: manca, più in particolare, la prova che l’attività extraistituzionale concretamente espletata dall’appellante per il laboratorio d’analisi fosse completamente svincolata dall’organizzazione imprenditoriale di detto laboratorio (e cioè che non vi fosse uno stabile coordinamento con tale organizzazione).
Né tale prova può essere desunta dal parere del prof. -OMISSIS- (parere che l’appellante ha trasmesso a sostegno delle proprie difese nel corso del procedimento disciplinare). Ed infatti, tale parere:
a) si concentra soltanto sul contenuto scientifico dell’attività svolta dall’appellante, ma non si pronunzia affatto sulle concrete modalità di svolgimentodi tale attività, e cioè sulla natura “coordinata” o meno della collaborazione; più in particolare, il parere in questione non chiarisce se l’appellante si avvalesse (o meno) dell’organizzazione di mezzi e persone del laboratorio di analisi (ciò che costituisce il discrimentra una collaborazione “coordinata” e una collaborazione “non coordinata”);
b) risulta basato sui soli dati rinvenienti dalla documentazione contrattuale e non anche (come sarebbe stato necessario) sulle concrete modalità di svolgimento della collaborazione.
In assenza di prova dell’esistenza di un rapporto diverso rispetto a quello di co.co.co., l’attività extraistituzionale dell’appellante – stante la documentazione esaminata dalla Guardia di Finanza comprovante la formale esistenza di un contratto di co.co.co. – non può che sussumersi in un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, dovendosi necessariamente presumere la piena corrispondenza del nomen juris al contenuto sostanziale del rapporto.
Orbene, il lavoro coordinato e continuativo trova il suo referente normativo nell’art. 409 n. 3 Cod. Proc. Civ. (così come modificato dal d.lgs. n. 81 del 2017), il quale assoggetta al rito processuale del lavoro – in uno ai rapporti di lavoro subordinato – anche i rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale nonché, per quanto di rilievo in questa sede, gli “altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
Ciò che distingue il lavoro coordinato e continuativo (c.d. co.co.co.) rispetto al lavoro autonomo “puro” ex art. 2222 c.c., è senza dubbio l’esistenza di un coordinamento organizzativo della prestazione d’opera, e cioè di un più significativo grado di integrazione funzionale tra l’attività individuale del collaboratore e l’organizzazione imprenditoriale del committente: in breve, la prestazione del co.co.co. (c.d. lavoratore “parasubordinato”) non è isolata e slegata dall’organizzazione del committente, ma al contrario è necessariamente integrata e coordinata con quest’ultima, tanto da essere resa anche per mezzo di detta organizzazione.
In tal senso, la giurisprudenza della Sezione Lavoro di Cassazione ha ripetutamente chiarito che l’elemento della coordinazione o coordinamento del lavoratore “parasubordinato” implica che la sua attività lavorativa sia strutturalmente e funzionalmente correlata all’attività svolta dal committente, così da collegarsi stabilmente con la sua organizzazione produttiva (Cass. n. 3698 del 2002, Cass. n. 3485 del 2001). Ciò proprio in ragione dell’intima connessione esistente tra la prestazione del collaboratore coordinato e continuativo (co.co.co.) e l’attività economica del committente (Cass. n. 9783 del 2020).
Il che conduce ad escludere che l’attività extra-istituzionale espletata dall’appellante per il laboratorio d’analisi in questione possa essere sussunta nella fattispecie (liberalizzata) dell’attività esclusivamente consulenziale: ciò in quanto nel caso di specie sussiste un elemento che – ai sensi della norma di interpretazione autentica del comma 2-ter, introdotta nel d.l. 22 aprile 2023 n. 44 dalla legge di conversione 21 giugno 2023, n. 74 – dovrebbe invece difettare per un’attività esclusivamente consulenziale.
Detto elemento consiste nella stretta correlazione tra l’attività in questione e l’organizzazione di mezzi e persone di cui si avvale il committente: nel caso di specie questa stretta correlazione è proprio l’elemento distintivo del modello contrattuale che – come risulta per tabulas – regola il rapporto negoziale extraistituzionale tra l’appellante e il laboratorio d’analisi.
In tale contesto, pertanto, appare irrilevante la circostanza che l’Università avesse inizialmente autorizzato l’attività extraistituzionale dichiarata dall’appellante.
L’autorizzazione era stata infatti rilasciata sull’assunto – dichiarato dall’appellante in sede di istanza – che si trattasse di un’attività di collaborazione/consulenza scientifica pienamente conforme al modello delle attività compatibili con il ruolo di docente a tempo pieno ex art. 6 della legge n. 240 del 2010.
La non veridicità di tale assunto di partenza priva di ogni rilievo, pertanto, l’autorizzazione inizialmente data.
Ugualmente irrilevanti sono le considerazioni in merito ai requisiti della frequenza e del valore economico complessivo dell’attività, atteso che il già visto requisito del coordinamento con l’organizzazione imprenditoriale del laboratorio d’analisi (così come risultante dall’utilizzo del modello contrattuale delle co.co.co.) è assolutamente dirimente in base alla succitata norma di interpretazione autentica.
Per tutto quanto sopra esposto, pertanto, anche il quinto motivo di appello deve essere respinto in quanto infondato.
Con il sesto motivo (intitolato “Error in iudicando ed omessa pronuncia in ordine alla natura fiduciaria della quota societaria posseduta dalla ricorrente ed omessa pronuncia o insufficiente motivazione in ordine al rispetto, in ogni caso, dell’art. 2 lett. F del regolamento di Ateneo per gli incarichi istituzionali”), l’appellante censura la sentenza impugnata per non avere considerato che nel caso di specie mancherebbe comunque la prova dell’esistenza del secondo dei due illeciti contestati, e cioè della violazione dell’art. 2, lett. f), del Regolamento di Ateneo (secondo il quale la partecipazione a società di capitali aventi fini di lucro è compatibile con il ruolo di docente universitario a tempo pieno, purché la stessa non comporti l’assunzione di cariche gestionali e purché la partecipazione azionaria non si ponga in posizione di controllo).
A tal riguardo, il giudice di prime cure aveva motivato nel seguente modo: “Sempre nel secondo motivo, con riferimento alla quota societaria detenuta dalla ricorrente presso il Laboratorio di patologia clinica -OMISSIS- -OMISSIS- s.r.l., la ricorrente ha affermato di essere titolare di una quota societaria pari al 33% compatibile con la sua funzione professionale. In precedenza, il valore della quota, come rappresentato in sede di audizione del 3 maggio u.s., era pari al 19% (cfr. visura storica societaria). Inoltre, non ha mai assunto cariche gestionali e/o esecutive (che avrebbe potuto comportare una eventuale incompatibilità, art. 2 lett f del Regolamento di Ateneo), mentre la sola titolarità di quote del patrimonio sociale, con conseguente acquisizione dello status di socio, è sempre ammessa e dunque compatibile, purché nell’ambito di strutture societarie a responsabilità limitata, come nel caso di specie. La ricorrente sarebbe stata, dunque, sempre e solo titolare di quota di minoranza. Come emergerebbe dalla documentazione, fornita dalla ricorrente in sede istruttoria, la quota del 62% sarebbe da imputarsi esclusivamente a titolo fiduciario per il 43%, appartenendo alla titolarità della prof.ssa -OMISSIS- solo il 19%. Anche questa censura non può trovare accoglimento. Il carattere fiduciario della intestazione delle quote societarie, dimostrata invero con la produzione di una controdichiarazione firmata nel corso del procedimento istruttorio, non esclude la titolarità delle stesse dal punto di vista giuridico e quindi la violazione dell’art. 2 lett. f del Regolamento di Ateneo per gli incarichi istituzionali, secondo il quale la partecipazione quale socio a società di capitali aventi fini di lucro è compatibile purché la stessa non comporti l’assunzione di cariche gestionali e purché la partecipazione azionaria non si ponga in posizione di controllo”.
Le critiche che l’appellante muove a tale capo di sentenza sono le seguenti:
a) la mera detenzione fiduciaria ed indisponibile di un’ulteriore quota (che ha fatto sì che la quota complessiva della ricorrente salisse al 62% nel periodo 2018/2021) sarebbe improduttiva di effetti ai fini disciplinari;
b) ai fini della violazione de l’art. 2, lett. f), del Regolamento di Ateneo, non sarebbe sufficiente la mera detenzione di una quota di maggioranza della società, ma occorrerebbe anche la titolarità di cariche gestionali e/o esecutive, ciò che difetterebbe in toto nel caso di specie;
c) non è vero che il carattere fiduciario dell’intestazione delle quote societarie risulterebbe da una controdichiarazione firmata “nel corso del procedimento istruttorio”, atteso che tale controdichiarazione, come emerge dagli atti, risale al 2018.
Anche questo motivo è però infondato.
L’art. 2, lett. f), del Regolamento di Ateneo prevede espressamente che è compatibile con il ruolo di docente “la partecipazione quale socio a società di capitali, aventi fini di lucro, purché la stessa non comporti l’assunzione di cariche gestionali e purchè la partecipazione azionaria non si ponga in posizione di controllo”.
In sintesi, quindi, la qualità di socio di una srl è compatibile con la posizione di docente soltanto se (e nella misura in cui) ricorrano entrambe le seguenti condizioni:
(a) tale qualità non comporta l’assunzione di cariche gestionali;
(b) la partecipazione azionaria non determina una posizione di controllo.
Nel caso di specie, ferma restando la circostanza della partecipazione dell’odierna appellante al capitale sociale di una società a responsabilità limitata, è irrilevante il fatto che l’appellante non rivesta alcuna carica gestionale in questa società, posto che la partecipazione azionaria de qua determina comunque, da sola, una posizione di controllo (62%).
Ugualmente irrilevante – come correttamente rilevato dal primo giudice – è il fatto che una parte di questa partecipazione azionaria (pari al 43%) sarebbe stata intestata a titolo fiduciario all’odierna appellante.
Ciò in ossequio al consolidato insegnamento della Cassazione civile secondo il quale “l’intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie dà luogo ad un’ipotesi di interposizione reale di persona, in virtù della quale l’interposto acquista la titolarità delle azioni o delle quote, ma è tenuto ad osservare un determinato comportamento convenuto in precedenza con il fiduciante (le società fiduciarie); tale obbligo, pur potendo incidere sulle concrete modalità di esercizio dei diritti sociali e di adempimento dei correlati doveri, non comporta alcun effetto nei rapporti con la società o gli altri soci, nei confronti dei quali viene in considerazione esclusivamente la titolarità formale della partecipazione” (Cass., 13 settembre 2019, n. 22903)” (Cass., 21 marzo 2023, n. 8107).
Per tutto quanto sopra esposto, pertanto, anche il sesto motivo di appello va respinto in quanto infondato.
Conclusivamente, pertanto, l’appello va respinto e, per l’effetto, la sentenza appellata va confermata sulla base della motivazione sopra esposta, con conseguente conferma degli atti amministrativi gravati.
Le spese processuali possono essere integralmente compensate ai sensi degli artt. 26 del codice del processo amministrativo e 92 del codice di procedura civile, come risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale, 19 aprile 2018, n. 77 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quest’ultima disposizione nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, da individuarsi nel caso di specie nella sopravvenienza di una norma di interpretazione autentica.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità dell’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 febbraio 2025 con l’intervento dei magistrati:
OMISSIS, Presidente
OMISSIS, Consigliere
OMISSIS, Consigliere
OMISSIS, Consigliere
OMISSIS, Consigliere, Estensore
Pubblicato il 26 febbraio 2025