Posto che le università (non statali) “telematiche” sono in rapporto di species rispetto al più ampio genus “università libere” o private o non statali, il rapporto di lavoro del corpo docente degli Atenei telematici è soggetto alla stessa disciplina vigente, in generale, per le università non statali ed è disciplinato dall’art. 62, comma 2, del testo unico del 1933 e dell’art. 4 L. n. 243/1991: secondo queste disposizioni, i docenti delle Università non statali hanno la medesima “condizione giuridica” dei docenti delle Università statali, i quali, a mente dell’art. 3, comma 2, D.lgs. n. 165/2001, sono in regime di diritto pubblico.
TAR Lombardia, Sez. V, 26 febbraio 2024, n. 513
Stesso trattamento giuridico, economico e di quiescenza per i professori/ricercatori universitari in servizio presso le università statali e quelli in servizio presso gli atenei non statali
00513/2024REG.PROV.COLL.
01548/2023 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1548 del 2023, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati OMISSIS e OMISSIS, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Università Telematica e-Campus, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati OMISSIS, OMISSIS e OMISSIS, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati OMISSIS, OMISSIS, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per l’annullamento, previa adozione di idonea misura cautelare ai sensi dell’art. 55, co. 10, c.p.a.,
– del D.R. n. 77/23 del 6 giugno 2023, notificato il 15 giugno 2023, con cui il Rettore dell’Università e-Campus decreta “Che a decorrere dal 1° giugno 2023, il dott. -OMISSIS-, nato a Roma (RM) il 28 giugno 1973, ha cessato di appartenere al ruolo dei Professori Associati di questa Università Telematica e-Campus”;
– di ogni ulteriore atto presupposto, conseguente o comunque connesso, ivi inclusa la nota del Direttore Generale dell’Università Telematica e-Campus dell’1 giugno 2023, notificata in pari data, avente ad oggetto “procedura di selezione finalizzata al reclutamento di un professore universitario di seconda fascia nel ssd IUS/01 – Diritto privato – nella Facoltà di Giurisprudenza”;
– nonché, per l’accertamento del diritto dell’odierno ricorrente a rimanere in servizio, ricoprendo il ruolo di Professore universitario di II fascia presso il Dipartimento di Diritto Privato dell’Università Telematica E-Campus, e, per quanto occorrer possa, per la disapplicazione del “Regolamento per la chiamata dei professori di prima e seconda fascia” dell’Università Telematica E-Campus, con riferimento all’art. 17.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Università Telematica E-Campus e di -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Visti gli articoli 13 e 15 cod. proc. amm.;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 gennaio 2024 il dott. OMISSIS e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio, notificato tra il 25.7.2023 e il 28.7.2023 e depositato in data 27.7.2023, il ricorrente ha chiesto l’annullamento dei provvedimenti indicati in epigrafe, nonché l’accertamento del suo diritto a rimanere in servizio, ricoprendo il ruolo di professore universitario di II fascia presso il Dipartimento di diritto privato dell’Università Telematica E-Campus, previa disapplicazione, ove occorra, dell’art. 17 del Regolamento per la chiamata dei professori di prima e seconda fascia della stessa Università.
Il ricorrente premette:
– di aver conseguito nel 2018 l’abilitazione scientifica nazionale quale professore universitario di seconda fascia per il macrosettore di diritto privato (12/A1);
– di aver partecipato alla procedura selettiva bandita dall’Università Telematica E-Campus ai sensi dell’art. 18, co. 1, Legge n. 240/2010, con D.R. n. 36/22 del 27 aprile 2022 per la chiamata di n. 7 posti di professore universitario di II fascia, tra cui n. 1 professore per la Facoltà di Giurisprudenza, Dipartimento di diritto privato, per il settore scientifico disciplinare IUS/01, risultando vincitore;
– di essere stato chiamato a ricoprire in data 27 febbraio 2023, con D.R. n. 26/23, il “posto da Professore di II^ fascia per il SSD IUS/01 – Diritto Privato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Telematica eCampus, con decorrenza 1° marzo 2023 ai fini giuridici e ai fini economici”;
– di essere stato informato, con nota del Direttore Generale dell’1 giugno 2023, notificata a mezzo pec in pari data, che “ai sensi dell’art. 17 del Regolamento per la chiamata dei professori di prima e seconda fascia, l’Università recede dal rapporto contrattuale in quanto il periodo di prova non è stato ritenuto soddisfacente.”;
– di aver ricevuto in data 15 giugno 2023 il Decreto Rettorale n. 77/23, con cui gli è stato comunicato “Che a decorrere dal 1° giugno 2023 … ha cessato di appartenere al ruolo dei Professori Associati di questa Università Telematica e-Campus”.
2. Il ricorrente ha dedotto i seguenti motivi di ricorso:
“I. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 21-octies della Legge n. 241/1990 in relazione all’art. 17 del Regolamento per la chiamata dei professori di prima e seconda fascia, nonché agli artt. 3 e 97 Cost. per contrasto ai principi di buon andamento, correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. Incompetenza. Eccesso di potere per carenza dei presupposti di fatto e di diritto.”.
Premettendo che rientrerebbe tra il personale che ha mantenuto il regime di diritto pubblico, ai sensi dell’art. 3 del D.lgs. n. 165 del 2001, e qualificando il suo rapporto di lavoro come di “pubblico impiego”, il ricorrente ha dedotto che la disciplina del periodo di prova sarebbe da rinvenire negli artt. 70, comma 13, del D.Lgs. n. 165/2001 e 28 del d.P.R. n. 487/1994, come pure nell’art. 438 del D.lgs. n. 297/1994 (T.U. Istruzione), non trovando quindi applicazione l’art. 2096 c.c., nonché nell’art. 17 del Regolamento per la chiamata dei professori di prima e seconda fascia che prevede la possibilità di recedere dal contratto “durante i primi tre mesi successivi all’immissione in ruolo”.
Sennonché, l’Ateneo avrebbe comunicato la volontà di recedere “soltanto allo scadere del termine dei tre mesi” e che “solo in data 15 giugno 2023 è intervenuto il Decreto Rettorale impugnato”, quando “l’Università era già decaduta dal potere di esercitare il recesso”.
Deduce, inoltre, che la nota del Direttore Generale sarebbe stata adottata da un organo incompetente dell’Ateneo non statale.
“II. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 3, 7 e 10 della Legge del 7 agosto 1990, n. 241, in relazione all’art. 17 del Regolamento per la chiamata dei professori di prima e seconda fascia. Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 del Regolamento integrativo del rapporto contrattuale dei Professori di prima e seconda fascia, anche in relazione agli artt. 3 e 97 Cost. Eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà e difetto di motivazione.”.
Il decreto rettorale impugnato sarebbe illegittimo poiché richiama per relationem la nota del Direttore Generale che risulterebbe viziata “sia a) per difetto di motivazione, con riferimento all’esercitato recesso ad nutum, sia b) per difetto di istruttoria, in relazione alla prova d’esame per la Certificazione d’uso del VLE d’Ateneo”.
Il periodo di prova nel pubblico impiego sarebbe, infatti, disciplinato all’art. 10 del D.P.R. n. 3/1957 (T.U. Impiegati civili dello Stato), che prevede “in caso di esito sfavorevole, l’adozione del c.d. provvedimento di dispensa (ad oggi disciplinato all’art. 439 del T.U. Istruzione)”.
Nel caso in contestazione mancherebbe quella motivazione specifica richiesta dalla giurisprudenza amministrativa – pur risalente – formatasi sul punto per l’adozione della dispensa dal servizio nei rapporti di lavoro in regime di diritto pubblico, sussistendo notevoli differenze di disciplina rispetto a quella applicabile al recesso dal rapporto contrattuale di impiego privato.
Quanto, poi, alla motivazione esternata dall’Ateneo non statale, il ricorrente deduce di aver “svolto i c.d. “periodi formativi” (ex art. 7, co. 12, del Regolamento integrativo) per imparare ad utilizzare la piattaforma VLE d’Ateneo, al fine di svolgere al meglio la propria attività didattica e di aver “sostenuto la prima fase della prova d’esame, consistente nel test informatico a risposta multipla a cui però non ha fatto seguito né la prova pratica né il colloquio”.
L’Ateneo avrebbe, quindi, disapplicato quanto previsto dallo stesso Regolamento integrativo richiamato, violando le regole che si era autovincolato a rispettare per la valutazione dei docenti, e non avrebbe tenuto in considerazione che il ricorrente avrebbe comunque dimostrato di saper utilizzare “la piattaforma VLE d’Ateneo per espletare i propri doveri didattici” avendo predisposto e caricato materiale didattico, svolto esami in modalità telematica, con successiva verbalizzazione – sempre telematica –, e utilizzato la piattaforma per ogni fine necessario a svolgere l’attività didattica.
L’Università resistente avrebbe, infine, omesso di comunicare l’avvio del procedimento, negando un confronto con l’odierno ricorrente, privandolo della “possibilità di presentare osservazioni che avrebbero apportato ulteriori elementi utili e idonei a condurre ad una diversa conclusione”.
Il ricorrente ha proposto istanza cautelare “ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a.”, chiedendo “ai sensi dell’art. 65 c.p.a., che sia ordinata all’Università l’ostensione dei verbali della Commissione d’esame nominata ai sensi dell’art. 7, co. 5, del Regolamento integrativo, dai quali dovrebbe rilevarsi l’esito negativo della prova su cui l’Ateneo fonda il recesso.”.
3. Si sono costituiti, in data 01/08/2023, il controinteressato, e, in data 06/09/2023, l’Università Telematica “e-Campus”.
4. Con successiva memoria del 4/9/2023, il controinteressato ha eccepito, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, nonché l’infondatezza del ricorso, di cui chiede il rigetto, vinte le spese.
5. Alla camera di consiglio del 7.9.2023, previa rinuncia all’istanza cautelare da parte del ricorrente, la causa è stata rinviata all’udienza pubblica del 25 gennaio 2024.
6. In vista dell’udienza di discussione, le parti hanno depositato documenti, memorie e repliche.
In particolare, con memoria del 22/12/2023, il controinteressato ha ulteriormente dedotto in relazione all’asserito difetto di giurisdizione del g.a. e alla infondatezza nel merito del ricorso, eccependo, anche, l’“inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione del decreto rettorale n. 105/2023”.
L’Università, invece, con memoria del 23/12/2023, ha eccepito l’”incompetenza territoriale del Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia – Milano essendo competente il Tar Lazio (art. 15 comma 1 c.p.a.)”, contestando la fondatezza dell’eccezione sollevata dal controinteressato in ordine all’asserita carenza di giurisdizione del giudice amministrativo.
Ha, poi, eccepito, in [#OMISSIS#], l’inammissibilità o, comunque, l’improcedibilità del ricorso avendo omesso il ricorrente “di impugnare, anche eventualmente tramite motivi aggiunti, il Decreto rettorale n. 105 del 17.07.2023 mediante il quale l’Università e-Campus ha assunto l’odierno controinteressato nella posizione in precedenza di titolarità” del ricorrente; nonché, nel merito, l’infondatezza del ricorso, di cui ha chiesto il rigetto, vinte le spese.
Tutte le parti hanno depositato repliche, insistendo nelle rispettive eccezioni e difese.
7. All’udienza pubblica del 25 gennaio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione.
8. In via pregiudiziale va vagliata l’eccezione di difetto di giurisdizione del G.A. adito, sollevata dalla difesa del controinteressato.
Il Collegio è consapevole del diverso orientamento espresso da una parte della giurisprudenza amministrativa che ritiene che “in tema di ordine di esame delle questioni preliminari di [#OMISSIS#], vada per prima scrutinata l’eccezione di incompetenza rispetto a quella di difetto di giurisdizione, dovendo l’eventuale difetto di giurisdizione essere dichiarato dal giudice competente” (di recente, TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, ordinanza n. 1323/2023).
Ritiene, tuttavia, il Collegio che l’eccezione di difetto di giurisdizione vada esaminata prioritariamente, rivestendo la questione di giurisdizione carattere pregiudiziale rispetto a qualunque altra questione, ivi compresa quella di competenza, come chiarito dalla prevalente giurisprudenza (Cons. Stato AP n. 4/11, n. 9/14 e n. 5/2015 in relazione all’ordine di esame delle questioni; cfr. anche TAR Campania, Napoli, sez. V n. 5714/2021 e n. 5507/2018 alle cui motivazioni si rinvia per ragioni di sinteticità; Cass. civ. sez. un., 03/03/2021, n.5806 con ampia argomentazione delle ragioni di ordine sistematico e costituzionale; Cass. civ. sez. VI, 27/02/2020, n.5298; per tutte, Cass., Sez. Un., 5 gennaio 2016, n. 29 e i precedenti ivi richiamati).
Ed infatti, se il “giudice naturale precostituito per legge” è il giudice cui è attribuita sia la giurisdizione sia la competenza a conoscere una determinata controversia, la nota formula “ogni giudice è giudice della propria competenza”, risulta fortemente riduttiva – o quantomeno ambigua -, e va esplicitata in quella secondo cui “ogni giudice è giudice della propria giurisdizione e della propria competenza” (così, esplicitamente, le Sezioni Unite nella sentenza n. 4109 del 2007): infatti, anche il giudice che, in ipotesi, si ritiene privo di competenza fa parte, per definizione, del medesimo ordine giurisdizionale cui appartiene quello ritenuto competente e, dunque, può e deve rilevare, anche d’ufficio, il proprio eventuale difetto di giurisdizione.
Invero, la decisione sulla competenza, sia essa affermativa o negativa, presuppone, dunque, la previa esplicita o implicita affermazione, da parte del giudice investito della causa, della propria giurisdizione (Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2018, n. 4361 e ulteriori precedenti ivi richiamati).
A definitiva riprova che quello affermato è il giusto ordine delle predette questioni, sta inoltre il decisivo rilievo che, contrariamente opinando, la previa decisione della questione di competenza potrebbe risultare inutiliter data – e, quindi, collidente, tra l’altro, con i principi di economia processuale, del “giusto processo” e della sua “ragionevole durata” – ove il giudice adito fosse poi, com’è possibile in determinate fattispecie processuali, dichiarato privo di giurisdizione (Cass. civ. sez. un., 03/03/2021, n. 5806; Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2018, n. 4361 e ulteriori precedenti ivi richiamati).
9. Ciò premesso, l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal controinteressato è infondata.
10. Il controinteressato, premessi taluni cenni sulla peculiare natura dell’Università Telematica e-Campus, sottolinea che, trattandosi di un soggetto di diritto privato (Università non statale), “gli atti di gestione del rapporto di lavoro da assunti nei confronti dei propri docenti sono adottati dal datore di lavoro iure privatorum e dunque su di essi sussiste la giurisdizione del Giudice Ordinario”.
Non nega che “nell’attuale ordinamento, è diffuso l’affidamento dello svolgimento di funzioni pubbliche a soggetti privati”, tuttavia “la natura del rapporto di lavoro con il personale docente da esse impiegato” “è e rimane un rapporto di diritto privato”, nonostante il “regime pubblicistico di reclutamento dei docenti delle Università private” che non influenzerebbe “la natura del rapporto di lavoro successivamente instaurato, visto che il datore di lavoro è (e resta) privato”.
Assume che “nessuna norma di legge impone la totale equiparazione tra la disciplina cui sono sottoposte le Università private a quella cui sono sottoposte quelle pubbliche.”.
Sempre il controinteressato, richiamata la sentenza del T.A.R. Lazio Roma, Sez. III, 15.06.2015, n. 8376 che ha escluso che le Università non statali legalmente riconosciute siano “enti pubblici e, perciò, integralmente assoggettate alla disciplina pubblicistica”, esclude poi “che la sussistenza della giurisdizione amministrativa sui rapporti di lavoro dei docenti delle Università private possa basarsi sul combinato disposto degli artt. 3 e 63 del d.lgs. n. 165/2001” posto che “l’ambito di applicazione del d.lgs. n. 165/2001, in base al suo art. 1, è limitato ai casi di “impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, tra cui, tuttavia, per quanto detto supra ed anche alla luce dell’orientamento giurisprudenziale richiamato, non rientrano di per sé le Università non statali”.
Tali argomenti sono stati ulteriormente affinati e sviluppati nelle memorie depositate in vista dell’udienza pubblica.
Sia l’Università che il ricorrente hanno replicato a tale eccezione di carenza di giurisdizione del giudice amministrativo.
In particolare, l’Ateneo ha sostenuto che “dalla privatizzazione del rapporto di pubblico impiego siano stati esplicitamente esclusi tutti professori universitari senza che sia stata prevista alcuna divaricazione previsionale in ordine alla natura statale o non statale degli Atenei dove gli stessi prestano servizio.
D’altronde, giova evidenziare come le funzioni tipicamente pubblicistiche esercitate da parte delle università nell’ambito delle proprie attività istituzionali non risultino in alcun modo divergere a seconda della natura non statale o statale dei singoli atenei”.
Sicchè “gli stessi docenti che operano presso Atenei non statali” dovrebbero “qualificarsi, ai fini di che trattasi, alla stregua di pubblici dipendenti (per come intesi ex art. 13, comma 2, c.p.a) con ogni conseguente radicamento della competenza presso il Tribunale Amministrativo del luogo ove essi prestano servizio”.
Il ricorrente ha evidenziato, invece, “l’irrilevanza della natura privatistica dell’Università rispetto al rapporto di lavoro instaurato con il docente; in quanto, questa non preclude la possibilità di comprendere il medesimo Ateneo nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica”.
Il controinteressato, di contro, ha tratto ulteriori argomenti dalla giurisprudenza che ha escluso la natura di enti pubblici (non economici) delle università non statali per ricondurle nell’alveo degli enti privati, sottolineando che non assumerebbe “rilievo, ai fini dell’inquadramento giuridico in senso pubblicistico delle Università non statali” e del rapporto di lavoro dei docenti “la circostanza che esse svolgano un’attività, quale quella dell’istruzione universitaria, qualificabile come servizio pubblico o come funzione pubblica” atteso che “Nell’ordinamento sono molteplici i casi in cui l’esercente un pubblico servizio è un privato, normalmente una società di capitali, i cui atti sono soggetti al diritto privato salvo eccezioni previste per legge (ad es. art. 21 legge n. 241/1990 in tema di accesso agli atti). Come pure ci sono molte ipotesi in cui determinati soggetti privati sono attributari per legge di funzioni pubbliche in senso stretto e quindi la loro attività è di obiettiva e prevalente finalità pubblicistica senza con questo che il loro essere si trasformi in ente pubblico o i loro atti in provvedimenti amministrativi” (ad es., concessionari della riscossione, enti previdenziali privati come la Cassa Forense, progettisti privati di opere pubbliche, enti aggiudicatari o i privati che assumono la diretta realizzazione di singole opere sopra soglia a scomputo degli oneri di urbanizzazione).
Né tantomeno muterebbe la natura privata del rapporto di impiego la circostanza che vi siano norme (non diverse da quelle contenute all’art. 19 del d.lgs. n. 175/2016) che sottopongono il reclutamento del personale a speciali procedure concorsuali, in quanto il regime pubblicistico di reclutamento dei docenti delle Università private non influenza la natura del rapporto di lavoro successivamente instaurato.
In altri termini, e sinteticamente, secondo la prospettazione del controinteressato, la natura privata dell’ente datore di lavoro determinerebbe necessariamente che il rapporto di lavoro successivamente instaurato dai docenti selezionati abbia carattere privatistico, e sia correlativamente assoggettato alla giurisdizione del giudice ordinario.
11. Ritiene il Collegio che l’esame della questione – e delle ragioni in parte suggestive poste a fondamento dell’eccezioni e delle difese sviluppate dalle parti – imponga talune considerazioni di ordine sistematico.
Vanno, infatti, affrontate distintamente le questioni relative a) alla natura delle università non statali e b) alla natura del rapporto di impiego dei docenti e dei ricercatori.
Come si preciserà più diffusamente infra, la risoluzione della prima non influenza automaticamente la seconda.
Viceversa, la qualificazione del rapporto di lavoro dei professori a servizio delle università non statali prescinde dalla soluzione che si intende prediligere per stabilire se queste ultime siano enti pubblici non economici o enti privati e a quali fini (rapporto di lavoro con il corpo docente, applicazione della disciplina in materia di contratti pubblici, di trasparenza e obblighi di pubblicità, ecc…).
12. Ci si può esimere in questa sede dal ricostruire la disciplina e l’evoluzione normativa che ha riguardato quelle che nel Testo unico sono definite università “libere” e che, dopo l’entrata in vigore della Costituzione (cfr. art. 33), nel quadro della teoria pluralistica dell’ordinamento giuridico, sono qualificate anche dalla legislazione ordinaria come “università non statali” o “private” (al riguardo, cfr. Consiglio di Stato atti norm., 14/05/2019, n.1433; nonché, Consiglio di Stato, Commissione speciale, nel parere n. 2427/2018 del 26 ottobre 2018).
In breve, le Università non statali – disciplinate dal r.d. 1592/1933 e dalla l. 243/1991 – sono legalmente riconosciute (mediante l’attribuzione della personalità giuridica) ed autorizzate al rilascio di titoli di studio aventi valore legale (mediante il loro riconoscimento quali università) contestualmente all’approvazione dello statuto (con rinvio implicito ai poteri ministeriali contemplati dall’art. 200, r.d. n. 1592 del 1933) e del regolamento didattico di ateneo ex art. 11, comma 1, legge n. 341 del 1990. L’art. 2, comma 5, lett. c), d.p.r. n. 25 del 1998 richiama i poteri di controllo esercitabili dal Ministero dell’Università e della Ricerca e la loro articolazione in relazione alle università libere. Inoltre il d.lgs. 27 gennaio 2012, n. 19 (“Valorizzazione dell’efficienza delle università e conseguente introduzione di meccanismi premiali nella distribuzione di risorse pubbliche sulla base di criteri definiti ex ante anche mediante la previsione di un sistema di accreditamento periodico delle università”) ha previsto le modalità di accreditamento delle università libere anche al fine del rilascio di titoli di studio con valore legale.
All’art. 3 “Ambito di applicazione”, stabilisce che “Le disposizioni del presente decreto si applicano alle istituzioni universitarie italiane, statali e non statali, comunque denominate, ivi compresi gli istituti universitari a ordinamento speciale e le università telematiche […]”.
Le università telematiche gemmano:
– dalla risoluzione sull’e-learning del Consiglio dei ministri dell’istruzione dell’Unione europea del 13 luglio 2001 (2001/C 204/02 dal titolo “Pensare all’istruzione domani”);
– dalla Decisione n.2318/2003/CE del 5 dicembre 2003 del Parlamento europeo e del Consiglio;
– dall’art. 26 comma 5 della legge finanziaria italiana per l’anno 2003 (legge n. 289/2022).
Lo Statuto dell’Università Telematica non statale e-Campus chiarisce, per quanto di interesse, all’art. 1, che la stessa “è promossa e sostenuta dalla ‘Fondazione e-Campus per l’università e la ricerca’, di seguito denominata ‘Fondazione’, che ne assicura il perseguimento dei fini istituzionali e provvede ai relativi mezzi necessari per il funzionamento. 1.3 L’Università e-Campus ha personalità giuridica e autonomia funzionale, didattica, scientifica, amministrativa, organizzativa, finanziaria e contabile come assicurato dall’art. 33, ultimo comma, della Costituzione e a norma dell’art. 1, comma 2, del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore approvato con regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 e successive modificazioni e integrazioni”;
– ed infine, che “(1.4) Sono fonti normative dell’Università e-Campus:
a) le disposizioni costituzionali e le disposizioni normative statali sull’istruzione superiore riguardanti le università non statali autorizzate a rilasciare titoli di studio aventi valore legale;
b) le disposizioni ministeriali applicabili alle università non statali legalmente riconosciute;
c) il presente statuto;
d) i regolamenti richiamati nello statuto e quelli riguardanti specifiche materie, approvati dal Consiglio di Amministrazione dell’Università e-Campus”.
12.1. Posto quindi che le università (non statali) “telematiche” sono in rapporto di species rispetto al più ampio genus “università libere” o private o non statali, il rapporto di lavoro del corpo docente dell’università telematica eCampus è soggetto alla stessa disciplina vigente, in generale, per le università non statali.
13. Va sin d’ora precisato che, in molte pronunce, l’affermazione della giurisdizione esclusiva del g.a. muove dalla condivisione (per alcuni versi, acritica e tralatizia) della natura di enti pubblici non economici delle Università non statali (Cass., SS.UU., 30 giugno 2014, n. 14742; SS.UU. 11.03.2004 n. 5054; SS.UU. 16 febbraio 1977 n. 691; Id., 29 ottobre 1974 n. 3253; Id., 9 novembre 1974 n. 3480; Id., 8 gennaio 1975 n. 26; sed contra: Cass. civ. sez. lavoro sentenza n. 14129 del 1999).
14. Il Collegio è consapevole che il Consiglio di Stato ha escluso, a seguito di una approfondita ricostruzione della natura delle università non statali, che le stesse siano enti pubblici non economici (criticando la tesi, in dottrina, qualificata come “pubblicistica”: condivisa da Cass. Civ., Sez. Un., 2 marzo 1987, n. 2191; Id., 5 marzo 1996, n. 1733; Id., 11 marzo 2004, n. 5054; T.A.R. Milano, Sez. III, 18 gennaio 2021, n. 155; Cons. Stato, Sez. VI, 15 novembre 2021, n. 7573; cfr. anche Cons. Stato, sez. III, 16 febbraio 2010, n. 841 e 20 ottobre 2012, n. 5522, confermate da Cass., ss.uu., 30 giugno 2014, n. 14742; Cass. civ. sez. un., 27/10/2006, n. 23077; Cass. 8 luglio 2003 n. 10734; T.A.R. Bolzano, (Trentino-Alto Adige) sez. I, 02/04/2019, n.89; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III n. 39150/2010; Cass. civ. sez. un., 16/12/1986, n.7542; SS.UU., sentenza n. 4825 del 27/09/1984; SS.UU., sentenza n. 4202 del 19/07/1982), ribadendo, invece, la natura privata delle stesse, in omaggio all’art. 33 Cost. (sposando, quindi, la “tesi privatistica” di tali enti: cfr. TAR Lazio Roma sez. III n. 8376/2015, confermata da Consiglio di Stato, sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3043; idem, 25 marzo 2020, n. 2085; Consiglio di Stato, sez. atti normativi, parere n. 1433 del 14 maggio 2019; Cons. Stato, sez. VI, n. 2660/2014).
15. Ai fini dell’esame dell’eccezione di difetto di giurisdizione, tuttavia, la verifica della natura delle Università non statali (e l’adesione alla “tesi privatistica”, seppure emersa con riferimento a questioni diverse, ed in particolare in relazione all’applicazione di alcuni obblighi in materia di trasparenza e di pubblicità e delle norme in materia di evidenza pubblica per la stipula di contratti di lavori, servizi e forniture) non appare risolutiva, occorrendo spostare il focus dell’attenzione sulla natura del rapporto di impiego dei docenti e sul relativo status giuridico.
Sul punto, e anticipando quanto si argomenterà nei punti seguenti, ritiene il Collegio che sebbene la premessa da cui muove il controinteressato sia corretta (laddove nega la natura di ente pubblico all’Università non statale), ciò non basti per ritenere che sussisterebbe la giurisdizione del g.o..
Ai fini che ci occupano, e cioè in relazione all’equiparazione dello stato giuridico del corpo docente, l’affermazione che “nessuna norma di legge impone la totale equiparazione tra la disciplina cui sono sottoposte le Università private a quella cui sono sottoposte quelle pubbliche” trova, infatti, smentita nelle fonti di rango primario, ed in particolare nelle disposizioni contenute nell’attualmente vigente testo unico delle leggi sull’istruzione superiore approvato con regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 (di seguito anche “Testo unico” o “TU”), che sconfessano l’assunto del controinteressato.
16. Altresì, va osservato che l’art. 3 co. 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (“Personale in regime di diritto pubblico”) prevede che “Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato, resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all’articolo 33 della Costituzione ed agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n. 168, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421”.
Tale norma, rinviando alle “disposizioni rispettivamente vigenti”, non risulta, di per sé, determinante al fine della decisione sulla questione di giurisdizione; impone, invero, di risolvere, prima, il problema dell’inquadramento giuridico del rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori delle Università non statali, rinvenendo le “disposizioni rispettivamente vigenti” per stabilire se la presente controversia sia relativa ad un rapporto di lavoro “del personale in regime di diritto pubblico” (art. 133 co. 1 lett. i) c.p.a.).
17. Ciò posto, ritiene il Collegio che lo status dei docenti delle università non statali sia, attualmente, equiparato a quello dei docenti delle università statali, e pertanto assoggettato alla stessa disciplina di diritto pubblico.
18. Nel parere del Consiglio di Stato, sez. atti normativi, n. 1433 del 14 maggio 2019, nell’escludere che le vigenti “previsioni normative siano di ostacolo alla configurazione di una libera Università privata come società di capitali”, è stato affermato che “L’art. 207 del testo unico del 1933 prevede una sostanziale interscambiabilità dei professori (Ai posti vacanti di professore possono trasferirsi col loro consenso professori di ruolo appartenenti ad Università o ad Istituti di cui alle tabelle A e B o ad Università e Istituti superiori liberi). Più in generale, ai sensi dell’art. 62, comma 2, del testo unico del 1933 e dell’art. 4 della legge n. 243 del 1991, i docenti delle Università non statali hanno la medesima “condizione giuridica” dei docenti delle Università statali, i quali, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lg. n. 165 del 2001, sono in regime di diritto pubblico. Per quanto riguarda il personale tecnico amministrativo delle Università non statali, invece, il testo unico prevede, all’art. 201, lett. o), che la relativa disciplina sia demandata agli statuti degli Atenei. Di regola, le Università non statali applicano, per tale personale, contratti relativi a comparti del settore privato.
Anche questi profili pongono interrogativi di compatibilità con il modello e il regime di gestione di un’impresa nella forma della società di capitali.
Ma anche tali dubbi appaiono superabili. Ed invero, se era già ammesso il « doppio regime » — pubblicistico per il personale docente, privatistico per quello tecnico-amministrativo — per le attuali libere Università private, già riconosciute come persone giuridiche di diritto privato riferibili al libro I del codice civile, non si vede perché la configurazione di tali soggetti — sempre di diritto privato — nelle modalità della società di capitali debba invece comportare ragioni di contrasto o di incompatibilità rispetto ai qui esaminati profili concernenti il rapporto di lavoro del personale universitario” (cfr. punto 16.4 del citato parere).
Il Collegio è consapevole dell’astratta difficoltà teorica, efficacemente ben evidenziata nella memoria del controinteressato, della tesi che afferma la sussistenza di un rapporto di lavoro in regime di diritto pubblico alle dipendenze di un ente privato, financo con (eventualmente possibile) scopo di lucro.
Tuttavia, come emerge dal citato parere del Consiglio di Stato n. 1433/2019, tale affermazione non costituisce un ossimoro giuridico, come sembrerebbe postulare la tesi che ritiene errata l’affermazione della giurisdizione del g.a..
Invero, premesso che “Il testo unico del 1933, ma anche le successive leggi di settore (legge 9 maggio 1989, n. 168, legge 29 luglio 1991, n. 243, legge 30 dicembre 2010, n. 240)” “non hanno mai introdotto espressi divieti del fine di lucro”, il Consiglio di Stato non ha “sottovaluta(to) affatto la problematicità e la sensibilità, anche politica, dell’idea di una possibile riconfigurazione del modello organizzativo e strutturale che ponga le libere Università private sotto l’egida del profitto e del commercio (in quanto scopo essenziale, causa finalis) della loro stessa costituzione”; e, nel ritenere compatibile la finalità di lucro del modello “società di capitali” alla forma giuridica delle libere Università private, ha, parimenti, ritenuto tali modelli (fondazioni di cui al libro I del codice civile e/o società di capitali di cui al libro V del codice civile) compatibili con il pacifico “regime di diritto pubblico” dei professori e ricercatori.
Come chiarito al punto 16.1 e al punto 16.2 del citato parere, la circostanza che tali soggetti giuridici siano ampiamente condizionati “da penetranti poteri pubblicistici, che ne eterodeterminano forme e contenuti, in deroga all’autonomia privata e al regime previsto dal libro V del codice civile” con una “spiccata specialità di regime”, non è incompatibile con l’autonomia privata.
Così come non lo è “(16.2.) Un’altra clausola esorbitante rispetto al diritto privato (che) si rinviene nell’art. 201 del testo unico del 1933, che impone un articolato e dettagliato contenuto minimo dello statuto” (come si vedrà in seguito, proprio tale norma impone che lo statuto delle università non statali non possa disciplinare lo stato giuridico dei professori di ruolo, in tal modo sottraendo, espressamente, all’autonomia privata la relativa disciplina).
19. Alla ricostruzione operata nel parere testè menzionato, va aggiunto che l’art. 199 del Testo Unico prevede che “Alle università e agli istituti superiori liberi si applicano le norme contenute nel titolo I, sezione I, II e III” e tra queste, quindi, l’art. 62 del medesimo TU, in forza del quale “L’insegnamento ufficiale è impartito da professori di ruolo e da professori incaricati. I professori delle università e degli istituti di cui alle tabelle A e B sono professori di Stato; la condizione giuridica dei professori delle università e istituti di cui alla tabella B è uguale a quella dei professori delle università e istituti di cui alla tabella A”.
Dal combinato disposto di tali norme contenute nel TU del 1933 emerge che è identica la disciplina della “condizione giuridica” dei professori delle “regie università”, dei “Regi istituti superiori”, indicati nelle annesse tabelle A e B, nonché delle “università” e degli “istituti superiori liberi”.
L’art. 4 della L. n. 243/1991 (menzionato nel parere del Consiglio di Stato) si limita a prevedere – dando per scontato che il trattamento giuridico sia già equiparato dalle norme vigenti – che “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, ai professori ed ai ricercatori universitari in servizio presso le università non statali si applica, ai fini del trattamento di quiescenza, la disciplina prevista per i dipendenti civili dello Stato dal testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, e successive modificazioni ed integrazioni, quando ciò sia previsto da apposita norma statutaria. I provvedimenti di attribuzione del trattamento di quiescenza sono adottati con la stessa procedura prevista per il personale delle università statali”.
Tale norma completa un quadro da cui si desume l’equiparazione del trattamento giuridico, economico e di quiescenza tra i professori/ricercatori universitari in servizio presso le università statali e quelli in servizio presso gli atenei non statali.
19.1. Rafforza tale conclusione la circostanza che, diversamente opinando, ai docenti delle università non statali, dovrebbero applicarsi le corrispondenti norme della contrattazione collettiva.
Ma è pacifico che “la disciplina contenuta nei contratti collettivi concernenti il comparto del personale dell’Università (…) con tutta evidenza non si applica ai professori e ricercatori universitari, secondo quanto peraltro espressamente disposto all’art. 13 del C.C.N.Q. del 18 dicembre 2002 per la definizione dei comparti di contrattazione per il quadriennio 2002 – 2005 [“Il comparto di contrattazione collettiva di cui all’art. 2, comma 1, lettera M) (n.d.r. comparto del personale dell’Università) comprende – ad eccezione dei professori e ricercatori – il personale dipendente dalle seguenti amministrazioni (ivi incluso quello di cui all’art. 69, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165):
– università, istituzioni universitarie e le aziende ospedaliere universitarie di cui alla lettera a) dell’art. 2 del decreto legislativo del 21 dicembre 1999, n. 517;
– Istituto universitario di scienze motorie (ex ISEF) di Roma”].” (T.A.R. Friuli-Venezia [#OMISSIS#], Trieste, sezione I, n. 251/2014; TAR Catania sez. I n. 1320/2016).”.
Tutti i contratti collettivi del comparto università, eloquentemente, non si applicano al corpo docente delle università statali o non statali, ma al personale “con rapporto a tempo sia indeterminato che determinato, esclusi i dirigenti, appartenente al comparto del personale delle Università e delle altre istituzioni di cui all’articolo 9 del CCNL quadro per la definizione dei comparti di contrattazione, sottoscritto il 2 giugno 1998” (art.1 del CCNL 9.8.2000).
Il citato art. 9 del CCNL 2.6.1998 chiarisce che “1. Il comparto di contrattazione collettiva di cui all’art. 2, comma 1 lettera G) – ivi incluso il personale di cui all’art. 25, comma 4 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni e ad eccezione dei professori e ricercatori – comprende il personale dipendente (…)”.
Identica disposizione è contenuta all’art. 12 (che definisce il “Comparto del personale delle Università”) del CCNL, di cui all’articolo 12 del contratto collettivo quadro per la definizione dei comparti di contrattazione per il quadriennio 2006 – 2009, sottoscritto l’11 giugno 2007: “Il comparto di contrattazione collettiva di cui all’art. 2, comma 1, lettera L) comprende – ad eccezione dei professori e ricercatori – il personale dipendente dalle seguenti amministrazioni (ivi incluso quello di cui all’art. 69, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165)”.
E a tale definizione di comparto si riferiscono gli ultimi contratti collettivi: cfr. art. 1 del contratto collettivo nazionale di lavoro del 12/03/2009 relativo al personale del comparto università per il biennio economico 2008-2009; art. 1 del contratto collettivo nazionale di lavoro del 16/10/2008 relativo al personale del comparto Università per il quadriennio normativo 2006-2009 e il biennio economico 2006-2007; art. 1 del contratto collettivo nazionale di lavoro del 28 marzo 2006 relativo al personale del comparto università per il biennio economico 2004\2005; art. 1 del CCNL sottoscritto in data 27 gennaio 2005; art. 13 del CCNQ per la definizione dei comparti di contrattazione, sottoscritto il 18.12.2002 che parimenti chiarisce che il comparto comprende il personale delle università “ad eccezione dei professori e ricercatori”.
L’espressa esclusione, da parte della contrattazione collettiva, della disciplina dello stato giuridico e del trattamento economico del corpo docente, appare l’ulteriore dimostrazione della pacifica applicabilità delle corrispondenti norme di diritto pubblico sia ai docenti delle università statali che a quelli delle università non statali.
20. In realtà, e per altro verso, a tali conclusioni era pervenuta anche la giurisprudenza della Cassazione, che pure aveva registrato un contrasto in ordine alla natura di tali università (almeno nell’orientamento espresso in materia dalle Sezioni Unite e dalla Sezione Lavoro).
Sintetizzando quello che si dirà nei punti seguenti, il dibattito interno alla giurisprudenza civile (e amministrativa) ha riguardato la sufficienza (o meno) dei singoli c.d. indici di pubblicità al fine di qualificare le università non statali enti pubblici non economici, ma non anche la correttezza delle affermazioni poste a fondamento della individuazione dell’indice di pubblicità che oggi viene in rilievo (relativo alla equiparazione dei docenti e dei ricercatori).
In altri termini, la correttezza delle ragioni poste a fondamento dell’affermata equiparazione dei docenti e dei ricercatori (delle università statali e non statali) non è scalfita dall’affermazione che i c.d. indici di pubblicità (tra cui quello in questione) siano (o meno) sufficienti a supportare la tesi che si tratti di enti pubblici (non economici).
A ben vedere, infatti, nello stesso dibattito che ha riguardato la natura pubblica o privata delle università non statali, l’affermazione della equiparazione dei docenti e dei ricercatori non è mai stata seriamente smentita.
20.1. Ed infatti, Cass. civ. sez. lavoro, con la sentenza n. 14129 del 1999, pur negando (in linea con il più recente orientamento del Consiglio di Stato) che le università non statali siano enti pubblici, non riesce a superare l’argomento della “equiparazione” dello stato giuridico dei docenti.
20.1.1. Ed infatti, precisando che “Quanto all’equiparazione dei docenti ed alla fungibilità relativa agli studenti, esse appaiono connesse più che alla natura giuridica dell’ente, alla garanzia di sufficiente omogeneità nelle modalità essenziali dell’insegnamento ed alla tradizionale “apertura” dell’insegnamento universitario” minimizzava tale “equiparazione”, ritenendo che “i professori di ruolo delle università libere, ai quali l’ente deve assicurare ex art. 201 un trattamento economico e di quiescenza non inferiore ad un dato livello, non sono menzionati dall’art. 62, che dispone l’eguaglianza della condizione giuridica dei professori delle università di cui alla sopra menzionate tabelle A) e B).”.
20.1.2. Tali affermazioni della Sezione Lavoro meritano qualche precisazione.
L’art. 201 TU prevede che lo statuto delle università non statali possa determinare, tra l’altro, “e ) il trattamento economico e di quiescenza dei professore di ruolo, e del personale di qualunque categoria in servizio presso l’università o istituto” e che “Il trattamento economico dei professori di ruolo non può, comunque, essere inferiore a quello stabilito nella tabella E”.
La Tabella E (richiamata dagli artt. 99 e 201 del T.U.) equipara, con la sola differenza delle “indennità accademiche”, la “Misura minima degli emolumenti spettanti ai professori di ruolo delle regie università e dei regi istituti superiori di cui alla tabella B e delle università ed istituti superiori liberi”.
20.1.3. La Sezione Lavoro, poi, sembra ignorare la previsione contenuta all’art. 199 del Testo Unico.
Ed infatti, se è vero che “i professori di ruolo delle università libere, ai quali l’ente deve assicurare ex art. 201 un trattamento economico e di quiescenza non inferiore ad un dato livello, non sono menzionati dall’art. 62, che dispone l’eguaglianza della condizione giuridica dei professori delle università di cui alla sopra menzionate tabelle A) e B)” è anche innegabile che “Alle università e agli istituti superiori liberi si applicano le norme contenute nel titolo I, sezione I, II e III” e tra queste,
quindi, l’art. 62 del medesimo TU.
Sicchè, se “I professori delle università e degli istituti di cui alle tabelle A e B sono professori di Stato” e “la condizione giuridica dei professori delle università e istituti di cui alla tabella B è uguale a quella dei professori delle università e istituti di cui alla tabella A”, e se “Alle università e agli istituti superiori liberi si applicano” tali norme, è giocoforza ritenere che la condizione giuridica dei
professori delle università libere è uguale a quelle delle università di cui alla tabella A e B.
20.2. La richiamata ordinanza delle SS.UU. 11.03.2004 n. 5054, invece, traeva alcuni indici di pubblicità delle università non statali dalla circostanza che “le Università libere hanno gli stessi poteri certificativi, disciplinari e di polizia spettanti alle Università statali; che i rispettivi docenti, uguali per funzioni e prerogative inerenti all’ufficio, possono essere trasferiti dalle une alle altre (cft. art. 207 e 208 t.u. del 1933; art. 2 e 16 legge 24 febbraio 1967 n. 62)” per affermare che “Da questi e da altri elementi di chiaro valore sintomatico (su cui v. amplius la sentenza n. 3253 del 1974 e le altre di seguito richiamate) risulta, dunque, che, per assetto e disciplina, le Università libere ricevono dalla legge una sostanziale equiparazione alle Università statali”.
20.2.1. Orbene, se è pur vero che la giurisprudenza amministrativa successiva ha escluso la qualificazione delle c.d. libere Università in termini di enti pubblici (T.A.R. Lazio – Roma, sez. III n. 8374/2015, resa in materia di obblighi di trasparenza e pubblicità; confermata da Cons. Stato sez. VI n. 3043/2016) è altrettanto pacifico che non sono state confutate le motivazioni poste a fondamento dei singoli c.d. indici di pubblicità.
La “bontà” (e correttezza intrinseca) dell’argomento che traeva spunto dalla sostanziale equiparazione dei docenti (i.e. dello stato giuridico dei docenti) non è stato, in sè, smentito (è stato semmai negato che da tale indice – pure unitamente agli altri – possa inferirsi la natura pubblica dell’ente).
21. È noto che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, il rapporto di lavoro dei docenti e ricercatori universitari è sottoposto ad uno statuto speciale di diritto pubblico, le cui principali previsioni normative sono contenute nel d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382, come modificato ed integrato dalla legge 9 dicembre 1985 n. 705 e dalla legge 18 marzo 1989 n. 118 (cfr. CGARS n. 548/2021; Corte Cost. n. 28/2021; CGARS ordinanza n. 647/2019 di rimessione alla Corte Costituzionale della q.l.c. dell’art. 68 comma 3, t.u. 10.1.1957 n. 3 che ha ritenuto il rapporto di lavoro disciplinato dal TU degli impiegati civili dello Stato n. 3/57 e non anche dalle corrispondenti norme della contrattazione collettiva).
La disciplina del rapporto di lavoro dei docenti e ricercatori universitari delle università libere non è stata modificata, per quanto di interesse, dalla disciplina di cui al d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 e alle leggi 9 maggio 1989, n. 168, 7 agosto 1990, n. 245 e 19 novembre 1990, n. 341.
21.1. D’altronde, e ciò conferma che il regime di diritto pubblico sia compatibile con la natura privata delle università, è principio consolidato che alle stesse università statali non può più essere riconosciuta la qualità di “organi o amministrazioni statali” ma quella di “enti autonomi”, poiché, per un verso, gli artt. 6 e 7 della legge n. 168/1989 (recante nuove norme sull’autonomia delle istituzioni universitarie) hanno attribuito ad esse, oltre all’autonomia didattica e scientifica, anche l’autonomia organizzativa, finanziaria, contabile, statutaria e regolamentare, e, per altro verso, è mutata la natura del rapporto di lavoro dei relativi addetti, atteso che sia gli impiegati tecnici ed amministrativi (cfr. art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 29/1993) sia i docenti e i ricercatori (cfr. art. 5, commi 9 e 10, della legge n. 537/1993) sono ormai da considerare non più dipendenti statali bensì dipendenti dell’ente-università; né le università (statali) possono essere equiparate alle amministrazioni statali ad ordinamento autonomo, in quanto tali amministrazioni costituiscono comunque una specificazione delle amministrazioni dello Stato e le università (statali, e a fortiori quelle non statali), come osservato, non possono essere più configurate quali amministrazioni dello Stato ma come enti dotati di una propria autonomia strutturale e funzionale (T.A.R., Campania, Napoli, sez. II, 03/05/2016, n.2208; cfr. Cass. Civ., SS.UU., 10 maggio 2006 n. 10700; Cass. Civ., Sez. Trib., 1 giugno 2012, n. 8824).
Il regime di diritto pubblico e l’equiparazione tra professori e ricercatori delle università statali e non statali, quindi, non postula una equiparazione dello stato giuridico tra “dipendenti” di un “ente pubblico” e “dipendenti” di un “ente privato”, quanto, più precisamente, tra professori e ricercatori a servizio di un ente autonomo (statale) e docenti e ricercatori a servizio di un corrispondente e analogo ente autonomo (non statale).
Ricostruita, anche sotto tale profilo, la specialità del regime di diritto pubblico e la riconducibilità di entrambi i rapporti nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo [art. 133, comma 1, lett. i), cpa], va aggiunto che l’equiparazione (nel comune regime di diritto pubblico) appare logicamente posta a tutela dello status dei docenti universitari, nella cornice costituzionale che ruota attorno agli artt. 9 e 33 Cost..
22. Come, infatti, è stato condivisibilmente affermato da autorevole dottrina, lo stato giuridico del personale docente è posto a tutela della libertà di ricerca scientifica e di insegnamento (art. 33 co. 1 Cost: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”) e rappresenta un limite all’autonomia delle università (statali e non statali) riconosciuta dall’art. 33 Cost. (“Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”).
Già nel Testo Unico delle leggi sull’istruzione superiore (R.D. 31 agosto 1933, n. 1592), in parte ancora vigente, erano contenute precise disposizioni a garanzia della libertà d’insegnamento dei professori universitari, tenuti unicamente al coordinamento dei programmi didattici (art. 85), in omaggio ad un’antica tradizione del sistema universitario italiano.
Tale garanzia della libertà di ricerca scientifica è stata, successivamente, ribadita dall’art. 4 della legge 18 marzo 1958, n. 311, che ha disciplinato lo status del personale docente delle Università all’interno della nuova cornice delineata nell’art. 33 della Costituzione.
In coerenza con i principi costituzionali, quindi, la normativa di rango primario (e, in particolare, l’art. 6, commi 3 e 4, della legge n. 169 del 1989) ha sottolineato che le Università – sedi primarie della ricerca, art. 63 del d.P.R. n. 382 del 1980 – organizzano le strutture e realizzano le proprie finalità “nel rispetto della libertà di insegnamento dei docenti e dei ricercatori”, oltre che dei principi generali sugli ordinamenti didattici. La legge 4 novembre 2005, n. 230, ha precisato che i professori universitari, oltre al diritto, hanno “il dovere di svolgere attività di ricerca e di didattica, con piena libertà di scelta dei temi e dei metodi (…), nel rispetto della programmazione universitaria (…), dei contenuti e dell’impostazione culturale dei propri corsi di insegnamento”; e che i docenti di materie cliniche “esercitano (…) funzioni assistenziali inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca”, fermo restando il loro stato giuridico allorché svolgano tali attività presso le aziende e le strutture del SSN.
In definitiva, la disciplina dello stato giuridico da parte del legislatore è tesa a salvaguardare le libertà di scienza e di insegnamento del singolo docente/ricercatore, e la stessa “autonomia” delle università è funzionale a salvaguardarle, essendo enti istituzionalmente tenuti a perseguire una “finalità” didattico-scientifica “emergente dall’art. 33 della stessa Carta costituzionale”, proprio “in ragione dell’alto livello di preparazione scientifica e tecnica dei suoi docenti” (Corte Cost. sentenza n. 103 del 1977).
La giurisprudenza costituzionale afferma in modo generale che “il diritto di darsi ordinamenti autonomi è riconosciuto dalla Costituzione alle “istituzioni di alta cultura, università ed accademie” non in modo pieno ed assoluto, ma “nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.” (Corte Cost. sent. 1017/1988; n.145 del 1985).
In altri termini, “Nessun dubbio che l’ultimo comma dell’art. 33 della Costituzione sia strettamente collegato al primo comma dello stesso articolo, venendo l’autonomia universitaria – da intendersi nel suo senso più ampio, come autonomia normativa, didattica, scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile – a porsi in diretta correlazione funzionale con la libertà di ricerca e di insegnamento, valore
che non può non contrassegnare al massimo livello l’attività delle istituzioni di alta cultura. (L’Università – proclama il primo dei principi fondamentali della “Magna Charta delle Università europee”, sottoscritta a Bologna il 18 settembre 1988 – “è un’istituzione autonoma che produce e trasmette criticamente la cultura mediante la ricerca e l’insegnamento. Per essere aperta alle necessità del mondo contemporaneo deve avere, nel suo sforzo di ricerca e d’insegnamento, indipendenza morale e scientifica nei confronti di ogni potere politico ed economico”).
Ciò non significa, peraltro, che la libertà di ricerca e di insegnamento del docente universitario si identifichi con l’autonomia dell’istituzione cui egli appartiene. Il vero è che l’autonomia universitaria si esprime non solo nel tutelare l’autodeterminazione dei docenti, ma anche nel demandare agli organi accademici l’ordinamento dell’istituzione e la conduzione della stessa.” (Corte Cost. n. 1017/1988).
23. È stato coerentemente (con tali premesse) chiarito dalla giurisprudenza amministrativa che “- nel vigente ordinamento, le Università, ai sensi dell’art. 33, sesto comma Cost., hanno il «diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato»;
– la l. 9 maggio 1989, n.168, contiene, in attuazione della norma citata, la disciplina vigente dell’autonomia universitaria e prevede in particolare all’art. 16 la relativa autonomia statutaria;
– per quanto qui interessa, ai sensi dell’art. 16, comma 4, lettera d), della l. citata, lo statuto è tenuto alla «osservanza delle norme sullo stato giuridico del personale docente, ricercatore e non docente»” (Cons. Stato sez. VI sentenze 5 luglio 2017 n. 3318 e 16 febbraio 2017, n. 696; C.G.A. sez. giur. 18 febbraio 2016, n. 42).
In altri termini, il regime di autonomia delle Università “non opera in uno spazio libero da norme, ma è limitata perlopiù da fonti primarie attuative di principi costituzionali concernenti, tra l’altro, lo stato giuridico dei docenti, il quale, com’è noto, dev’essere osservato dalla potestà statutaria ai sensi dell’art. 16, c. 4, lett. d) della l. 9 maggio 1989 n. 168” (Cons. Stato sez. VI n. 696/2017).
24. La giurisprudenza costituzionale ha, in più occasioni, ribadito lo stretto collegamento e il rapporto di strumentalità della disciplina di rango primario che definisce lo “status professionale” del personale docente delle Università con le “attività didattiche, scientifiche e di ricerca intraprese” e con l’esercizio di libertà costituzionalmente garantite nelle sedi in cui si svolgono ricerca scientifica e corsi d’insegnamento (Corte Cost. n. 236 del 2009; n. 158 del 1985), nonché il carattere “sensibile” che connota la disciplina sullo stato giuridico dei professori e dei ricercatori universitari.
25. Gli artt. 17 e 18 del Testo Unico del 1933 riconoscono agli Atenei potestà normativa e organizzativa in materia di facoltà, scuole, corsi e seminari (in sostanza, in materia di didattica), ma non in materia di disciplina dello stato giuridico del personale docente.
Lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori universitari è rimasto di competenza esclusiva del legislatore statale, che lo disciplina (dopo la riforma del Titolo V) ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. g) l) (“ordinamento civile”) ed n), Cost..
Tale disciplina, va ribadito, costituisce un espresso “limite” all’autonomia universitaria (Corte Cost. sent. n. 22 del 1996), atteso che il diritto delle università di darsi ordinamenti autonomi non attiene allo stato giuridico dei professori universitari (Corte Cost. sent. n. 145 del 1985: “Non si ha violazione del diritto (art. 33, ultimo comma, Cost.) delle Università di darsi “ordinamenti autonomi”, poiché lo stesso art. 33 aggiunge che tale diritto spetta “nei limiti delle leggi dello Stato”: non si tratta di una autonomia piena ed assoluta ma di una autonomia che lo Stato può accordare in termini più o meno larghi, sulla base di un suo apprezzamento discrezionale, che, tuttavia, non sia irrazionale. E nella specie, come si è detto, le norme in questione non sono irrazionali. D’altro canto le norme stesse attengono allo stato giuridico dei professori universitari, i quali sono legati da rapporto di impiego con lo Stato e sono, di conseguenza, soggetti alla disciplina che la legge statale ritiene di adottare: l’autonomia universitaria, invece, come ha riconosciuto questa Corte (sent. n. 51/1966) si esercita nei sensi indicati negli artt. 17 e 18 del t.u. n. 1592 del 1933, nei quali non è cenno alcuno né dello stato giuridico dei docenti né della composizione degli organi universitari”; cfr. anche Corte Cost. n. 51 del 1966; n. 22 del 1996; n. 310 del 2013; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, n. 29 del 2014 che ha ribadito che lo stato giuridico dei docenti e ricercatori è una materia “sottratta alla normativa statutaria ed è rimessa alla competenza esclusiva della fonte statale di rango primario”; cfr. anche CGARS 14 ottobre 1999 n. 564; Cons. Stato 23 settembre 1998 n. 1269; T.A.R. Marche 10 gennaio 2002 n. 5).
26. Tali principi si applicano anche alle università non statali, se solo si consideri che gli artt. 200 e 201 TU 1933 dopo aver previsto che “L’ente o gli enti promotori della istituzione di una università o di un istituto superiore libero debbono rassegnare al ministro lo schema del relativo statuto, allegando una motivata relazione e un documentato piano finanziario”, precisano che “Lo statuto determina: (…) “d ) il ruolo organico dei posti di professore per ciascuna facoltà e scuola; il numero dei posti deve essere tale da assicurare l’efficace funzionamento della facoltà e scuola; e ) il trattamento economico e di quiescenza dei professore di ruolo, e del personale di qualunque categoria in servizio presso l’università o istituto. Il trattamento economico dei professori di ruolo non può, comunque, essere inferiore a quello stabilito nella tabella E; f) lo stato giuridico di qualunque categoria di personale in servizio presso l’università o istituto, esclusi i professori di ruolo”.
Lo “stato giuridico dei professori” è, dunque, come si è accennato, esplicitamente sottratto anche all’autonomia statutaria delle università non statali, ben inteso che la stessa disciplina relativa al “trattamento economico e di quiescenza” dei docenti delle università private è pur sempre soggetta al potere di controllo e vigilanza del Ministero (chiamato ad approvarne gli statuti), a tutela del rispetto di inderogabili norme statali.
Nel caso dell’università e-Campus sussiste un unico riferimento al “trattamento economico” del corpo docente all’art. 11.3 lett. f) dello Statuto (rubricato “(Consiglio di Amministrazione – Competenze)”, laddove al solo fine di disciplinare e distribuire le competenze spettanti ai vari organi dell’ateneo, precisa che “Inoltre, spetta al Consiglio di Amministrazione deliberare: (…) f) in ordine al trattamento economico del personale docente, alle indennità di carica del Rettore”.
27. L’art. 33 della Costituzione attribuisce alla legge statale la competenza a stabilire i “limiti” al diritto delle Università di “darsi ordinamenti autonomi”; e tra questi limiti vi rientra la riserva di legge in materia di stato giuridico del personale docente, pur se inquadrati nelle Università c.d. libere o non statali.
La sostanziale equiparazione alle università statali investe, oltre alle modalità di reclutamento (TAR Lombardia, Milano, sez. I n. 02022/2022, relativa proprio all’Università Telematica E-Campus), anche la natura pubblicistica del rapporto d’impiego dei rispettivi docenti, “uguali per funzioni e prerogative inerenti all’ufficio” (Sez. Un. civ., n. 5054 del 2004) a quelli degli Atenei statali.
Non a caso, l’art. 1 della l. 29 luglio 1991, n. 243, stabilisce che le Università non statali legalmente riconosciute “operano nell’ambito delle norme dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione e delle leggi che le riguardano, nonché dei principi generali della legislazione in materia universitaria in quanto compatibili”; disposizione, questa, che ulteriormente impone di estendere ai docenti e ai ricercatori delle università non statali le norme in materia di stato giuridico.
Come, infatti, chiarito dal Consiglio di Stato “L’applicazione ad esse (ndr: alle università non statali) della disciplina prevista per le Università statali può avvenire alla duplice condizione che si tratti di disciplina espressione di un principio generale della legislazione in materia universitaria (condizione positiva) e che il relativo principio sia compatibile con il rispetto del principio costituzionale del pluralismo e della libertà di iniziativa privata nel campo dell’istruzione (condizione negativa)” (sez. VI n. 3043/2016).
La disciplina dello stato giuridico del corpo docente rappresenta, quindi, alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, sia “principio generale della legislazione in materia universitaria (condizione positiva)” che “limite stabilito dalle leggi dello Stato” (art. 33 Cost.) all’autonomia ordinamentale delle università non statale “compatibile con il rispetto del principio costituzionale del pluralismo e della libertà di iniziativa privata nel campo dell’istruzione (condizione negativa)”.
28. Non potrebbero neppure essere eccessivamente enfatizzati per segnare, in via generale, un solco incolmabile tra lo stato giuridico dei professori delle università statali e non statali quei principi espressi dalla (nota) giurisprudenza costituzionale ed amministrativa formatasi in relazione ai limiti alla libertà d’insegnamento nelle università confessionali o comunque ideologicamente caratterizzate (cfr. Corte Costituzionale sentenza n. 195 del 1972; cfr. anche Cons. St., Sez. VI, n. 1762 del 2005); libertà di insegnamento, garantita dagli artt. 9 e 33 Cost., che intanto può subire delle limitazioni e/o talune compressioni (rispetto alla inderogabile disciplina di diritto pubblico) in quanto vengano in rilievo altri principi e libertà costituzionali, e non in qualsiasi caso.
Nei casi oggetto di tali giudizi, che riguardavano docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, veniva in rilievo lo speciale “nulla osta” della [#OMISSIS#] Sede (il “gradimento della competente autorità ecclesiastica”) previsto dall’art. 10 dell’Accordo di revisione del Concordato tra la Repubblica Italiana e la [#OMISSIS#] Sede e pertanto, come chiarito dalla Corte Costituzionale e, pertanto, “La legittima esistenza di libere università, caratterizzate dalla finalità di diffondere un credo religioso” (che) è senza dubbio uno strumento di libertà” (“la libertà dei cattolici”) sicchè “ove l’ordinamento imponesse ad una siffatta università di avvalersi e di continuare ad avvalersi dell’opera di docenti non ispirati dallo stesso credo, tale disciplina fatalmente si risolverebbe nella violazione della fondamentale libertà di religione di quanti hanno dato vita o concorrano alla vita della scuola confessionale. Nella specie – ma giova aggiungere che l’argomentazione ha validità più generale – la libertà dei cattolici sarebbe gravemente compromessa ove l’Università Cattolica non potesse recedere dal rapporto con un docente che più non ne condivida le fondamentali e caratterizzanti finalità. Invero, il docente che accetta di insegnare in una università confessionalmente o ideologicamente caratterizzata, lo fa per un atto di libero consenso, che implica l’adesione ai principi e alle finalità cui quella istituzione scolastica è informata” (Corte Costituzionale n. 195 del 1972).
Se ne desume, a contrario, che laddove l’università non sia “ideologicamente caratterizzata” (come nel caso dell’Università e-Campus che, ai sensi dell’art. 2.6 dello Statuto, “assicura la libertà di ricerca e di insegnamento garantita dalla Costituzione”) e la “chiamata” del docente non racchiuda in sè, anche, quell’”atto di libero consenso, che implica l’adesione ai principi e alle finalità cui quella istituzione scolastica è informata”, la libertà del docente si riespande e non sussiste, neppure sotto tale limitato profilo, alcuna distinzione di condizione giuridica con gli altri docenti universitari delle università pubbliche.
29. In dottrina è stato autorevolmente osservato che nei sistemi di istruzione superiore dell’Europa continentale, i docenti universitari sono inquadrati come dipendenti in regime di diritto pubblico, le cui mansioni, così come il trattamento retributivo, non dipendono dalla contrattazione con i singoli Atenei.
Il regime di diritto pubblico per i professori e i ricercatori universitari, sottratti alla “privatizzazione” del rapporto di lavoro, trova giustificazione nella peculiarità del relativo status e nell’esigenza di garantire, come si è detto, principi e libertà fondamentali tutelati agli artt. 9 e 33 Cost..
Il regime di diritto pubblico è peraltro strumentale alla garanzia delle peculiari condizioni di indipendenza riconosciuta dalla Costituzione ai professori/ricercatori (come – con le dovute differenze – nel caso dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, degli avvocati e procuratori dello Stato, del personale militare e delle Forze di polizia di Stato, del personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia) che renderebbe inappropriato che questi diventino “parti contrattuali” con lo Stato, atteso che l’eventuale diretto coinvolgimento in trattative sindacali rischierebbe di minare inevitabilmente la posizione di indipendenza dell’intero corpo docente.
“La giurisprudenza costituzionale ha infatti significativamente evidenziato che il principio della libertà dell’insegnamento, caratteristico dell’ordinamento universitario, «non tollera ingerenze di ordine politico o comunque ingerenze estranee alle premesse tecniche e scientifiche dell’insegnamento» e che, in questa prospettiva, l’attribuzione agli stessi professori universitari del potere di scelta dei membri delle commissioni di concorso, assicurando «il buon andamento dell’insegnamento universitario», rappresenta «un progresso verso la realizzazione di quell’ordinata autonomia cui hanno diritto le istituzioni di alta cultura, le università e le accademie, in applicazione dell’art. 33, ultimo comma della Costituzione» (sentenza n. 143 del 1972; in senso analogo, anche sentenze n. 68 del 2011 e n. 20 del 1982, nonché l’ordinanza n. 95 del 1980, con la quale questa Corte si è autorimessa la questione di legittimità costituzionale decisa con la citata sentenza n. 20 del 1982)” (Corte Cost. n. 241/2019).
Le considerazioni che precedono non potrebbero non riguardare anche i docenti delle università non statali, anche in ragione dell’affermata interscambiabilità dei professori prevista dall’art. 207 del testo unico del 1933, che renderebbe certamente assurdo un “doppio regime” di stato giuridico.
30. Di tali esigenze si è fatta carico la giurisprudenza amministrativa, formatasi in materia di procedimenti disciplinari, che ha ritenuto applicabili le norme contenute nella l. 240/2010 al procedimento disciplinare avviato da una università libera nei confronti di un professore ordinario (di recente, TAR Milano sez. V n. 03096/2023; cfr. anche TAR Lazio Roma sez. III n. 6682/2014).
La previsione di una deroga, in tale limitato ambito, per le università telematiche non legalmente riconosciute, non può fare ritenere che anche i profili ordinamentali oggi in discussione possano ritenersi differenti; essa, al contrario, induce a ritenere che, d’ordinario, la disciplina della L. 240\2010 sia invece valida per ogni Ateneo, tradizionale o telematico.
In definitiva, non pare al Collegio sussistere ragione alcuna perché alle università telematiche non debbano applicarsi le norme della L. 240\2010, il cui articolo 1 prevede che tutte le istituzioni universitarie sono sede primaria di libera ricerca e di libera formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti e sono luogo di apprendimento ed elaborazione critica delle conoscenze; operano, combinando in modo organico ricerca e didattica, per il progresso culturale, civile ed economico della Repubblica; ed operano, altresì, ispirandosi a principi di autonomia e di responsabilità.”).
In altri termini, sia l’autonomia statutaria che quella organizzativa, nelle sue implicazioni relative all’esercizio del potere disciplinare, in alcun modo può minare la libertà e l’indipendenza del corpo docente, in ragione delle peculiari garanzie costituzionali previste agli artt. 9, 21 e 33 Cost..
Concludendo sul punto, va rigettata l’eccezione sollevata dal controinteressato ed affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
32. In omaggio alla tassonomia propria delle questioni (cfr. punto n. 8) va, adesso, esaminata l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall’Università resistente.
L’obiezione è fondata.
La controversia, invero, non rientra nella competenza di questo Tribunale Amministrativo Regionale, atteso che:
– secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, non potrebbe trovare applicazione il criterio di cui all’articolo 13, comma 2, cod. proc. amm., tenuto anche conto che il rapporto di lavoro era cessato all’atto del radicamento del giudizio, sicchè opera l’ordinario criterio generale dell’estensione territoriale della res controversa, ai sensi dell’articolo 13, comma 1, cod. proc. amm. (Cons. Stato, Sez. IV, 30 novembre 2020, n. 7560; TAR Lazio, Roma, Sez. I Bis, ord. 31 maggio 2022, n. 7061; Id., ord. 15 febbraio 2022, n. 1829; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 16 dicembre 2021, n. 3516);
– al riguardo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che “i rapporti tra il criterio della sede e quello dell’efficacia spaziale” sono costruiti “secondo una logica di complementarietà e di reciproca integrazione”, nel senso che “il criterio ordinario rappresentato dalla sede dell’autorità amministrativa cui fa capo l’esercizio del potere oggetto della controversia, cede il passo a quello dell’efficacia spaziale nel caso in cui la potestà pubblicistica spieghi i propri effetti diretti esclusivamente nell’ambito territoriale di un tribunale periferico” (Ad. plen., ord. 31 luglio 2014, n. 17);
– ancora più di recente, l’Adunanza plenaria ha evidenziato che “La ratio sottesa al c.d. criterio dell’efficacia (…) consiste nel radicare la competenza del Tribunale Amministrativo Regionale più vicino al ricorrente, quando gli effetti lesivi dell’atto siano limitati ad un ristretto ambito territoriale nel quale egli si trova, anche se l’autorità emanante, centrale o periferica, abbia sede altrove. In questo modo si attua il decentramento della competenza territoriale ex art. 125 Cost., secondo una logica di prossimità, che esclude la possibilità, in senso inverso, di riconoscere ipotesi ulteriori di competenza in capo al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (…). Pertanto, il criterio principale di riparto della competenza per territorio, fondato sulla sede dell’autorità che ha emesso l’atto impugnato, è suscettibile di essere sostituito da quello inerente agli effetti diretti dell’atto qualora detta efficacia si esplichi esclusivamente nel luogo compreso in una diversa circoscrizione di Tribunale amministrativo regionale (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., 24 settembre 2012, n. 33; Consiglio di Stato, Ad. plen.,19 novembre 2012, n. 34; Consiglio di Stato, sez. III, 24 marzo 2014, n. 1383)” (Ad. plen., ord. 13 luglio 2021, n. 13; nello stesso senso: Ad. plen., 8 settembre 2021, n. 15; Cons. Stato, Sez. VII, ord. 4 marzo 2022, n. 1583);
– il legislatore ha stabilito l’inderogabilità della competenza territoriale, e tale opzione muove dal presupposto che vi sia un solo giudice – e soltanto quello – competente a pronunciarsi e che la sua individuazione sia rimessa a regole predeterminate sottratte all’arbitrio delle parti (Cons. Stato, Sez. III, ord. 15 ottobre 2019, n. 7026);
– il criterio dell’efficacia spaziale comporta che, nei giudizi attinenti a rapporti di lavoro in regime di diritto pubblico non più in atto, la competenza si radichi in ragione del luogo di residenza della parte ricorrente, ove gli effetti diretti del provvedimento o del comportamento oggetto di controversia siano limitati a tale ambito (cfr., ex multis, TAR Lazio, Sez. Prima Bis, 18 maggio 2023, n. 8478 e n. 11397/2023; id. n. 251/2024; Id., 3 maggio 2023, n. 7545; Id., 17 aprile 2023, n. 6558 e n. 6556; Id., 24 marzo 2023, n. 5142 e n. 5130; Id., 24 febbraio 2023, n. 3241 e n. 3239; Id. 13 febbraio 2023, n. 2475; TAR Liguria n. 51/2024: “Sebbene nel caso di specie, in difetto dell’attualità del rapporto di lavoro, non possa trovare applicazione il criterio della sede di servizio (art. 13, co. 2 cod. proc. amm.), opera comunque il criterio dell’efficacia spaziale dell’atto. Efficacia che, essendo riferita ad un soggetto determinato, si produce esclusivamente nella circoscrizione di competenza di questo T.A.R. (Cons. St., sez. II, ord. 1° giugno 2023, n. 5414)”);
– nel caso oggetto del presente giudizio, il provvedimento impugnato, quindi, esaurisce, pertanto, i propri effetti diretti nei confronti del destinatario ricorrente, il quale, al tempo della notifica del medesimo provvedimento:
– aveva scelto di prestare servizio presso la sede di e-Campus sita in Roma (cfr. “scheda anagrafica”, in atti);
– era residente a Roma (ibid.).
In applicazione dell’articolo 13, comma 1, secondo periodo, cod. proc. amm., va quindi dichiarata l’incompetenza dell’adito Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia e va, invece, indicato il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con sede in Roma, quale giudice ritenuto competente a conoscere della controversia, innanzi al quale la causa dovrà essere riassunta entro il termine di cui all’art. 15, quarto comma, c.p.a., per la prosecuzione del giudizio.
33. La definizione in [#OMISSIS#] conduce a disporre la compensazione delle spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quinta), dichiara la propria incompetenza sul ricorso in epigrafe, per essere competente a decidere il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, con onere di riassunzione ai sensi dell’art. 15, quarto comma, c.p.a..
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità delle parti costituite.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024 con l’intervento dei magistrati:
OMISSIS, Presidente
OMISSIS, Consigliere
OMISSIS, Referendario, Estensore
Pubblicato il 26 febbraio 2024