Corte dei conti, Sez. III App., 6 settembre 2024, n. 220

Il professore universitario a tempo pieno può svolgere incarichi di consulenza senza autorizzazione

Data Documento: 2024-09-06
Autorità Emanante: Corte dei conti
Area: Giurisprudenza
Massima

L’attività consulenziale riconducibile al regime di cui all’art. 6, co. 10 della L. n. 240 del 2010 deve essere caratterizzata: 1) dall’occasionalità e dall’essere prestata in assenza di un’organizzazione di mezzi e persone; 2) dal compimento di attività non riconducibili alle figure professionali di riferimento; 3) dal fatto di essere resa in qualità di esperto della materia; 4) dal fatto di concludersi, di norma, con un parere, una relazione o uno studio.

Contenuto sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte dei conti

Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello

Composta dai Sigg. magistrati:

Dott.  OMISSIS – Presidente

Dott. OMISSIIS – Consigliere

Dott. OMISSIS – Consigliere relatore

Dott.ssa OMISSIS – Consigliere

Dott.ssa OMISSIS – Consigliere

ha pronunciato la seguente

Sentenza

sulla citazione in appello iscritta al n. 59.111/R.G., proposta da L.N.D. (C.F. (…)), rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata e datata 28 giugno 2021, dall’Avv. OMISSIS, con domicilio digitale, ex art. 28, co. 2 c.g.c., all’indirizzo p.e.c. susca.giovanni@avvocatibari.legalmail.it e domicilio fisico eletto a Turi (BA), in via Dante n. 4, presso lo studio del medesimo, nonché, alla stregua di nuova procura datata 26 luglio 2021 e allegata in sede di iscrizione a ruolo, rappresentato e difeso anche dall’Avv. OMISSIS, con domicilio digitale, ex art. 28, co. 2 c.g.c., all’indirizzo p.e.c. intini.monica@avvocatibari.legalmail.it e domicilio fisico eletto a Turi (BA), in via Giuseppe Elefante n. 7, presso lo studio della medesima: appellante

contro

la Procura presso la Sezione giurisdizionale regionale per il Trentino Alto-Adige/Südtirol – sede di Trento e la Procura generale presso la Corte dei conti: appellate

avverso e per la riforma

della sent. 68/2021 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per il Trentino Alto-Adige/Südtirol – sede di Trento, pubblicata il 26 aprile 2021 e notificata il 28 aprile seguente.

Visti: l’appello della parte privata, le conclusioni della Procura generale, gli atti tutti di causa;

Uditi alla pubblica udienza del 15 maggio 2024, con l’assistenza del segretario dott.ssa OMISSIS, il Cons. relatore OMISSIS, l’Avv. OMISSIS, su delega scritta dell’Avv. OMISSIS, per L.N.D., e il Vice Procuratore generale OMISSIS, per l’Ufficio del pubblico ministero.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I. Con la sentenza descritta nei suoi estremi in epigrafe, la Corte regionale per il T.A.A./ Südtirol – Sezione di Trento, previo rigetto delle questioni di giurisdizione, di prescrizione e di legittimità costituzionale, in parziale accoglimento della domanda attrice, afferente a presunti danni conseguenti allo svolgimento di attività extra-istituzionali, nella contestualità di prestazione universitaria in regime di impegno a tempo pieno, ha condannato L.N.D. “a risarcire la complessiva somma di Euro 549.426,90 in favore dell’Università degli Studi di Trento”, oltre agli accessori e alle spese di giudizio, liquidate in Euro 619,65 in favore dell’Erario statale.

II. I fatti. A seguito di un articolo di stampa (la “Repubblica” del 15 gennaio 2018), dal titolo “Caccia ai docenti col doppio lavoro – le indagini che agitano gli atenei“, la Procura regionale del T.A.A./ Südtirol – Sezione di Trento ha aperto un fascicolo istruttorio al fine di verificare la sussistenza di danni erariali connessi allo svolgimento di incarichi professionali extra-istituzionali remunerati (e asseritamente non autorizzati) da parte di alcuni docenti dell’Università degli Studi di Trento. Pertanto, con atto istruttorio del 26 marzo 2018, il Requirente ha chiesto al Magnifico Rettore una dettagliata informativa formativa sulla questione in argomento. In risposta, il Rettore dell’Ateneo trentino ha segnalato, con nota del 10 aprile 2018, tra le altre, la posizione del Prof. L.N.D., nei confronti del quale era stato avviato un procedimento disciplinare a causa dello svolgimento di attività libero-professionale non compatibile con il ruolo di docente universitario a tempo pieno. In seguito, con decreto del 25 gennaio 2019, la Procura regionale di Trento ha delegato alla Guardia di finanza ulteriori adempimenti istruttori esitati in un’articolata informativa, acquisita dal requirente il 2 ottobre 2019. Quest’ultima ha evidenziato, in primo luogo, l’inquadramento del Prof. L. nell’Ateneo trentino come “professore aggregato” e la circostanza che nel periodo 1 novembre 2008 – dicembre 2018 ha lavorato in regime di impegno a tempo pieno. In secondo luogo, ha allegato, per il periodo gennaio 2010 – maggio 2019, elementi fattuali relativi all’asserito, costante, assiduo e ininterrotto impegno del docente verso molteplici clienti (società e persone fisiche) in attività libero-professionale di natura giuridica (avvocato/consulente, implicante, quest’ultima attività, il compimento di atti tipicamente riconducibili alla figura professionale di legale). Nel periodo in esame (gennaio 2010-maggio 2019) l’interessato sarebbe stato impegnato, nella contestualità dell’attività accademica: nella conduzione della ditta individuale “L.N.D.”, cessata il 31 dicembre 2018, peraltro dopo l’esito di un primo procedimento disciplinare instaurato dall’Università; nella società R.E.O. S.r.l. con sede a M., specializzata nell’attività di compravendita di beni immobili effettuata su beni propri, nella qualità di socio e rappresentante legale; come liquidatore, dal 2008, della società F.T. S.r.l., con sede a V. (M.), anche questa specializzata nella compravendita di beni immobili effettuata su beni propri; nella società C.S. S.p.A., già in concordato e in fallimento, con sede a C. (B.), con attività di estrazione di ghiaia, sabbia, argille e caolino, di cui era amministratore unico. Per dette attività non risulta provata la percezione di compensi. Invece, dalle informazioni recuperate nell’Anagrafe tributaria e dall’applicativo “Spesometra” sono emersi compensi anche elevati pagati al Prof. L. dal 2012 al 2018.

Oltre a questo, i militari hanno effettuato varie richieste di informazioni alle società che hanno intrattenuto rapporti lavorativi o commerciali con l’odierno appellante e ne hanno ricavato ulteriori dati, che, unitamente ai compensi percepiti, non sarebbero stati portati a conoscenza dell’Università. In conclusione, l’informativa della Polizia giudiziaria elenca i compensi percepiti dal Prof. L. per attività extra-istituzionali svolte dal 2012 al 2018 unitamente alla descrizione delle prestazioni professionali rese dal medesimo a società e a privati. Perciò, all’esito delle indagini delegate è emerso che il Prof. L.N.D. ha svolto attività extra-istituzionale in contrasto con la normativa vigente nel tempo, percependo compensi per complessivi Euro 446.057,83, per incarichi non previamente comunicati all’Ateneo e, quindi, non autorizzati e/o non autorizzabili, in violazione di quanto statuito dai commi 7 e 7 bis dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001.

Dappoi, il Gruppo tutela finanza pubblica della Guardia di finanza ha individuato un’asserita seconda posta di nocumento in conseguenza della violazione dell’obbligo di esclusività del rapporto lavorativo, in quanto ricercatore aggregato a tempo pieno. Tale porzione di pregiudizio è stata ottenuta, in via automatica, rilevando la differenza del trattamento stipendiale percepito (in cui manca una specifica voce a compensazione del rapporto di esclusività) rispetto a quello che invece avrebbe ricevuto (tempo definito), per poter esercitare la libera professione, “quantificato, ver il periodo 2012-2018 d’interesse, nella misura di Euro58.347,03, al netto di 3 anni di interdizione dai pubblici uffici” (informativa GdF). Dappoi, relativamente a quest’ultima, l’informativa della Guardia di finanza ha ritenuto che al Prof. L. sarebbe riconducibile una ulteriore posta di danno, quantificata in Euro 142.384,23, per la mancata applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, atteso che solo a fine novembre 2018 il Rettore dell’Università di Trento è venuto a conoscenza della condanna del docente a due anni di reclusione e a tre anni di interdizione dai pubblici uffici per il delitto di peculato (art. 314 c.p.), accertato con sentenza della Corte d’appello di Milano del 14 marzo 2013, irrevocabile al 7 luglio 2015 a seguito di riforma operata con sentenza n. 39846 della Corte di cassazione del 7 luglio-2 ottobre 2015. L’applicazione della pena accessoria avrebbe comportato la sospensione dell’attività del ricercatore presso l’Ateneo dal 7 luglio 2015 al 6 luglio 2018, con privazione degli elementi stipendiali a carico del datore di lavoro. All’esito degli accertamenti il Procuratore regionale, ravvisando nei fatti descritti profili di responsabilità a carico del Prof. L.N.D. per un presunto complessivo danno di Euro 646.789,09 (Euro 446.057,83+58.347,03+142.384,23), ha notificato al medesimo, il 12 dicembre 2019, l’invito a dedurre contenente formula interruttiva della prescrizione. In assenza di attività difensive preliminari tese a una diversa valutazione della vicenda, la Procura regionale l’11 marzo 2020 ha depositato l’atto introduttivo del giudizio per il complessivo danno di Euro 646.789,09, che sarebbe stato arrecato al bilancio dell’Università di Trento.

III. La Corte territoriale, in rito, ha disatteso l’eccezione di carenza di giurisdizione, argomentata dal difensore del convenuto in udienza e ritenuta rientrare, “in ragione dell’asserita natura sanzionatoria del recupero preteso dall’attore ex art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001“, nella giurisdizione del Giudice ordinario, come statuito dalla Corte di legittimità (Cass. 16721/2020). La Sezione ha rilevato, tuttavia, che detto orientamento è stato rivisitato, anche alla luce della portata del co. 7 bis, inserito nell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, dalla L. n. 190 del 2012. Difatti, in adesione ad altro precedente orientamento (Cass. 22688/201125769/2015), l’azione proposta dal Procuratore contabile nei confronti del pubblico impiegato “trova giustificazione nella violazione dello specifico dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento di incarichi extra-lavorativi e del conseguente obbligo di riversare sulla P.A. i compensi in tali occasioni ricevuti”. Sicché, in “tale ottica, l’art. 53, co. 7 bis non avrebbe portata innovativa, per cui è irrilevante il momento di percezione di tali compensi (se antecedente o successivo alla novella). Si verte, infatti, in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato nella condotta e nella sanzione, predeterminando il danno ex lege” (Cass. 6473/2021). Relativamente alla “natura sanzionatoria ovvero risarcitoria dell’azione erariale ex art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001, distinzione sulla cui base si fonda l’eccezione del convenuto (…)”, la Corte territoriale ha richiamato il principio di massima della sent. n. 26/2019/QM delle SS.RR., che hanno affermato la natura risarcitoria dell’azione erariale per l’omesso riversamento delle somme indebitamente percepite e, quindi, la giurisdizione della Corte dei conti. La sentenza ha disatteso, altresì, l’eccezione preliminare di merito atteso che, in adesione al coeso orientamento della giurisprudenza d’appello, “il termine quinquennale di prescrizione decorre dalla data di scoperta dell’illecito, poiché la fattispecie di cui all’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001 presuppone un preciso obbligo di comunicazione all’Amministrazione degli incarichi conferiti e, l’omissione di tale obbligo integra, perciò, un’evidente ipotesi di “occultamento doloso”, ai sensi dell’art.1, co. 2 L. n. 20 del 1994“. In applicazione di detto principio, il dies a quo della prescrizione “va nella specie individuato nel momento della scoperta dell’illecito e dunque della conoscenza, da parte della P.A. danneggiata ovvero del Procuratore regionale, della relazione datata 1 ottobre 2019 della Guardia di finanza”. L’occultamento doloso è poi ravvisabile anche nella “mancata comunicazione all’Ateneo della sentenza di condanna passata in giudicato (…), atteso che il convenuto non può certo ritenersi, secondo la tesi difensiva, in buona fede”, essendo il Prof. L. un professore aggregato in materie giuridiche che ha esercitato la professione di avvocato per molti anni. Da qui la “tempestività della notifica dell’invito a dedurre, avvenuta il 12 dicembre 2019 ai fini interruttivi della prescrizione”. Nel merito, previo richiamo della disciplina normativa primaria (artt. 11, commi 5 e 6, e 15 del D.P.R. n. 382 del 1980artt. 60 e 63 D.P.R. n. 3 del 1957art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001art. 6, commi 9 e 10 della L. n. 240 del 2010, i.e. legge “Gelmini”) e di quella regolamentare secondaria (Decreto rettorale n. 288, del 29 maggio 2014, in particolare l’art.5, regolamento di recente modificato dal D.R. n. 688/2017), la sentenza ha accolto parzialmente la domanda attrice. I primi giudici hanno posto in rilievo che “in specie non è in discussione e neppure contestato (…) che il Prof. L. abbia esercitato attività libero-professionale (avvocato) durante un lungo periodo (perlomeno dal 2012 al 2018, per quanto rileva nel caso in esame), e che abbia rivestito cariche societarie ed esercitato attività commerciale e d’impresa in forma individuale (dal 2010 al 2019 in base agli esiti delle indagini)”.

Infatti, “il Prof. L. ha esercitato, nel periodo considerato, sia attività assolutamente incompatibile – indipendentemente dal regime di impiego prescelto – con lo status di docente e ricercatore e, più in generale, con quello di dipendente pubblico (esercizio del commercio e dell’industria, esercizio di attività imprenditoriale, assunzione di cariche societarie), sia attività libero-professionale (avvocato) non autorizzata e comunque incompatibile con il regime di lavoro a tempo pieno (…)”, svolta in modo continuativo, stabile e ininterrotto con iscrizione al relativo Albo ordinario dal 1997 al 2018, anno in cui l’Ordine degli avvocati di Milano ne ha disposto la cancellazione d’ufficio a seguito della condanna penale del docente per peculato, carattere continuativo emergente anche dall’esame delle prestazioni rese (come deducibile dalle descrizioni delle fatture emesse) e come confermato dalla circostanza che “gli stessi committenti, interpellati dai militari della Guardia di finanza, hanno affermato di non essere al corrente che il L. fosse un docente universitario essendosi rivolti a lui solo in qualità di avvocato libero-professionista”. Inoltre, la sentenza precisa che l’insieme delle attività non consentite, svolte dal docente in costanza di rapporto a tempo pieno con l’Università di Trento, “ha inevitabilmente e fisiologicamente determinato un distoglimento di energie lavorative nell’ambito dell’attività accademica”, non potendosi condividere “l’affermazione del convenuto in ordine alla circostanza che il docente non avrebbe asseritamente mai fatto mancare il proprio impegno in favore dell’Università”. Infine, il primo giudice ha disatteso la questione di costituzionalità dell’art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001 sollevata in estremo subordine sul “presupposto che tali disposizioni creerebbero un inammissibile automatismo tra determinate condotte e il danno azionabile da questa Corte, configurando una responsabilità formale e sanzionatoria in violazione degli artt. 2 e 3 della Carta”. In breve, “il dubbio di costituzionalità appare manifestamente infondato, giacché (…) la responsabilità derivante dalla violazione dell’art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001 ha carattere risarcitorio (danno da mancata entrata) e non sanzionatorio, come statuito dalle Sezioni riunite nella sent. n. 26/2019/QM”. In ogni caso, il comma 7 dell’art. 53 “costituisce un mero corollario logico del principio di esclusività della prestazione del pubblico impiegato, consacrato nell’art. 98 della Cost. (…)”; pertanto, l’obbligo di riversamento non viola gli artt. 2 e 3 della Cost. perché stabilito in egual misura rispetto a quanto illecitamente percepito da qualsiasi pubblico dipendente per incarichi retribuiti non autorizzati. Alla luce della descritta antigiuridicità del comportamento posto in essere, la sentenza ha qualificato l’elemento soggettivo in termini di dolo, “tenuto conto della volontà e della piena consapevolezza della condotta tenuta concretizzatasi nell’inosservanza degli obblighi di servizio connessi all’esclusività del rapporto di pubblico impiego in regime di tempo pieno”, atteso, altresì, che il docente “in ragione dell’elevato livello culturale e della competenza giuridica, era agevolmente in grado di comprendere non solo il contesto normativo, ma anche l’assoluta incompatibilità delle attività imprenditoriali, commerciali e professionali svolte in costanza di rapporto di impiego a tempo pieno”. Riguardo all’ammontare del danno, relativamente alla prima posta di Euro 446.057,83, afferente ai compensi percepiti per lo svolgimento di attività extra-istituzionale di tipo libero-professionale e non riversati nel bilancio dell’amministrazione di appartenenza, la Corte trentina, dopo aver chiarito che “la responsabilità amministrativa in esame (…) individua un’ipotesi, ormai tipizzata, di responsabilità per danno da mancata entrata (…)”, ha considerato pregiudizio l’intera somma contestata dal Procuratore regionale incluso, perciò, l’importo di Euro 58.560,00, afferente ai bonifici effettuati dalla società M. S.r.l. in favore di L., atteso che le diverse argomentazioni di quest’ultimo sono state ritenute prive di supporto probatorio.

Quanto, invece, alla posta di Euro 142.384,23, relativa alle retribuzioni percepite durante il periodo di interdizione dai pubblici uffici, la prima decisione ha convenuto, parzialmente, con le argomentazioni difensive del Prof. L. e ha aderito all’interpretazione avallata dall’Ateneo nel provvedimento disciplinare n. 948, del 15 ottobre 2019. Pertanto, in ossequio al principio di corrispondenza tra pena principale e pena accessoria, recato dall’art. 37 c.p. (Cass. S.U. n. 6240 del 27 novembre 2014), alla condanna irrevocabile a 2 anni di reclusione per peculato deve intendersi connessa anche l’interdizione dai pubblici uffici di pari durata e non, come suggerito dal PM, di tre anni. Inoltre, poiché il L. stava scontando la pena accessoria, applicata con il provvedimento disciplinare n. 948, del 15 ottobre 2019, dal 9 marzo 2020 all’8 marzo 2022, sul punto non ha accolto la domanda attorea. Riguardo all’asserita terza posta di pregiudizio di Euro 58.347,03, costituita dalle differenze stipendiali tra attività a tempo pieno, incompatibile con il coevo svolgimento di attività libero-professionale, e a tempo definito per il periodo 2012-2018, la sentenza ha osservato che “il compenso per il tempo pieno rappresenta il corrispettivo per l’esclusività della prestazione di lavoro. Pertanto, nel momento in cui il lavoratore in regime di esclusiva (docente a tempo pieno) svolge attività libero-professionale, incompatibile ai sensi di legge, viene ontologicamente meno la corrispettività della prestazione piena a carico del datore di lavoro pubblico”, con alterazione del sinallagma. Inoltre, “risulta dagli atti depositati in giudizio che il L. ha subito più di un procedimento disciplinare da parte dell’Ateneo che, evidentemente, non era pienamente soddisfatto della sua resa accademica. Perciò, non appare revocabile in dubbio un significativo condizionamento delle attività professionali esercitate dal L. sul suo rendimento accademico complessivo, da parametrarsi, ovviamente, sull’obbligo di esclusività assunto e non sulla minima attività richiesta a un qualunque docente universitario” (pag. 33). La decisione ha ritenuto poi accoglibile la richiesta dell’attore, formulata in udienza, di rideterminare tale posta di danno considerando i differenziali retributivi per l’intero periodo considerato (2012-2018), senza escludere, come originariamente indicato in citazione, il contestato periodo di interdizione dai pubblici uffici per il quale era stata formulata apposita richiesta di danno. Sicché, tale posta di asserito nocumento ammonta a Euro 103.369,07. Il complessivo danno di Euro 549.426,90 è stato, quindi, addebitato al Prof. L. al lordo degli oneri fiscali e previdenziali, come statuito dalle Sezioni riunite (n.4/2021/QM e n. 24/2020), senza che possano valutarsi vantaggi per l’Amministrazione. Da ultimo, sulle somme dovute a titolo risarcitorio è stata applicata la rivalutazione monetaria, da calcolarsi secondo l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOT), e gli interessi compensativi nella misura di quelli legali, dalla data di percezione dei compensi non riversati, oltre agli interessi di legge, sulle somme così rivalutate anno per anno, dalla data di pubblicazione della sentenza e sino all’effettivo soddisfo.

IV. Si grava della decisione L.N.D., che lamenta: “1) Con riferimento al difetto di giurisdizione. Violazione e/o erronea applicazione dell’art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001“. Ripropone il difetto di giurisdizione, da declinare in favore del Giudice ordinario, posto che “dalla lettura dell’atto di citazione e dalla stessa sentenza (…), le misure richieste e la quantificazione delle stesse palesano un’evidente attività e misura sanzionatoria non meramente ascrivibile alla competenza restitutoria delle somme asseritamente indebitamente percepite dall’odierno appellante”. Con un secondo motivo denuncia: “2) Questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001“. Nella denegata ipotesi in cui il Collegio giudicante “non ritenesse condivisibile l’assorbente rilievo prospettato che impone l’insorgenza dell’obbligo di pagamento di cui si controverte esclusivamente quale conseguenza di un danno sostanziale stanziale e non meramente formale patito dall’Amministrazione datrice di lavoro del dipendente pubblico per l’espletamento di relative attività extra-lavorative (…)”, reputa di dover “prospettare nuovamente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, commi 7 e 7 bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001 nella parte in cui tale disposizione, ove interpretata in senso difforme da quello evidenziato dal deducente, introdurrebbe nell’ordinamento giuridico ingiustificati automatismi sanzionatori connessi alla mera violazione di obblighi di carattere formale (richiesta di autorizzazione all’attività extra per il docente universitario a tempo pieno), a prescindere dalla individuazione e dalla verificazione di effettivi e conclamati pregiudizi arrecati al bene giuridico protetto dalla norma (buon andamento della PA)”. Difatti, “l’obbligo di restituire all’Aniministrazione i compensi (…) percepiti in assenza di autorizzazione si pone in contrasto con l’art. 3, co. 2 della Cost. e con i principi generali di ragionevolezza e di proporzionalità, trattandosi di una sanzione correlata a una violazione formale, in quanto priva di connessione rispetto a un eventuale danno patito dall’Università (…)”. In breve, secondo l’appellante si determinerebbe “un’inammissibile disparità di trattamento tra la posizione del pubblico dipendente che abbia effettivamente svolto prestazioni non autorizzate né autorizzabili e la posizione del pubblico dipendente che,

con l’ordinaria diligenza, avrebbe ottenuto dalla P.A. di riferimento l’autorizzazione necessaria allo svolgimento dell’incarico”. Con un terzo motivo lamenta: “3) Danno erariale, dolo erariale e decreto semplificazioni n. 76/2020”. Deduce che con il decreto semplificazioni il legislatore è intervenuto su una delle componenti strutturali dell’illecito amministrativo, ossia sull’elemento soggettivo. Nello specifico, l’art. 21, co. 1 del D.L. n. 76 del 2020 ha integrato l’art. 1, co. 1 della L. n. 20 del 1994, prevedendo che la “prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Perciò, in esito alla novella in esame, “viene codificato l’indirizzo contabile minoritario per cui il dolo c.d. erariale deve intendersi sostanziato dalla volontà dell’evento dannoso, che si accompagni alla volontarietà della condotta antidoverosa”. Nel caso di specie, “il prof. L. ha sì svolto attività di consulenza legale pur essendo dipendente dell’Ateneo trentino a tempo pieno, ma non ha arrecato alcun danno al medesimo, in quanto ha sempre adempiuto in modo puntuale ai propri compiti di docente”. Con un quarto motivo denuncia: “4) Con riferimento alla prescrizione. Violazione e/o erronea applicazione dell’art.1, co. 1 bis e co. 2 della L. n. 20 del 1994“. Deduce “che, in relazione a tutte le domande risarcitorie spiegate nel presente giudizio o, in ogni caso, quanto meno in relazione all’obbligo di riversamento dei compensi percepiti per attività libero-professionali all’Amministrazione, difetti qualsivoglia situazione di occultamento alla luce dell’orientamento della giurisprudenza contabile formatasi in materia”, che ha affermato che al fine di integrare l’occultamento doloso “non sia sufficiente il mero espletamento delle attività formalmente non autorizzate nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo pieno, essendo necessario un quid pluris, ossia un’attività ulteriore e strumentale a occultare la relativa verificazione”, in specie non configurabile in quanto non è “sufficiente la mera omessa comunicazione, da parte del L., dell’esecuzione di attività extra-lavorative, a integrare il comportamento volto a occultare (Corte dei conti, Sez. I d’app. n. 130/2021)”. Con un ulteriore motivo denuncia l’erroneità “5) Sul calcolo della prescrizione ex art. 1 L. n. 20 del 1994“. Osserva, che il termine della prescrizione, “che andava certo meglio approfondito dalla sentenza (…), andrebbe calcolato a ritroso dalla data di notifica della sentenza di primo grado, ovvero dal 24 aprile 2021, con la conseguenza che non potrebbero essere prese in considerazione le attività extra-istituzionali svolte dall’odierno appellante prima del 23 aprile 2016, ovvero anteriori alla data dell’11 marzo 2015 (cinque anni prima della notifica dell’atto introduttivo)”. Con un sesto motivo lamenta: “6) Con riferimento alla quantificazione del danno erariale: 6.1) Errata applicazione dell’art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001; 6.2) Errata quantificazione delle differenze retributive”. In sintesi, il giudicante avrebbe “errato nel considerare il danno erariale nella misura pari all’importo asseritamente introitato dal Prof. L. per l’attività di consulenza prestata e non riversato all’Ateneo trentino, e cioè considerando le somme percepite al lordo delle imposte, tasse e contributi previdenziali”, dovendo invece considerarsi gli importi percepiti al netto dei prelievi fiscali e previdenziali, a qualunque titolo operati (Cons. di Stato n. 4590/2016). Sempre in tema di determinazione delle somme da riversare all’Ente di appartenenza, l’appellante rileva l’erronea inclusione dell’importo di Euro 58.560,00, versato al medesimo dalla società M. S.n.c. di F.M.C. poi fallita, mediante quattro distinti versamenti di Euro 14.640,00 cadauno, effettuati il 25 maggio, il 3 giugno, il 4 agosto e il 7 agosto 2017. Si trattava, infatti, di trasferimenti di natura fiduciaria al Prof. L. di canoni di locazione percepiti dalla stessa società, per sottrarli ad azioni esecutive intentate dai creditori nel corso dell’avviata procedura di concordato preventivo. A tal riguardo, l’appellante rileva (richiamando il documento n. 3) che, “(…) conte dichiarato dalla stessa Curatela M. S.n.c. all’Autorità giudiziaria di Bolzano (…) detti canoni di locazione erano stati restituiti tra il dicembre 2017 e aprile 2018 (…)”; ovvio corollario di detto adempimento “è stata la rinuncia a qualsiasi pretesa da parte del Fallimento nei confronti dell’appellante, culminata con il deposito della rinuncia alla costituzione di parte civile nel procedimento penale, pendente innanzi al Tribunale di Bolzano”, avente a oggetto la presunta sottrazione delle stesse somme considerate dalla Procura regionale e dalla sentenza come compensi professionali per attività extra-istituzionali non autorizzate. Da ultimo, l’appellante deduce che “la Procura aveva quantificato in Euro 58.347,03 le diffetenze retributive, mentre la Corte di prime cure (…) in Euro 103.369,07”, quantificazione ritenuta erronea “in quanto la Corte dei conti ha esteso la voce di danno dal 2012 al 2018”. In realtà, secondo il deducente “alla fattispecie de qua deve essere applicata la prescrizione quinquennale, calcolata a ritroso dal 28 aprile 2021 (data della notifica della sentenza di primo grado) ovvero dall’11 marzo 2020 (data di notifica dell’atto di citazione)”. In ogni caso, “l’Università (…) ha indubbiamente usufruito della prestazione utile e completa (…) del dipendente”.

V. Nello scritto acquisito al fascicolo processuale il 23 aprile 2024, la Procura generale ha concluso, previa conferma della giurisdizione contabile e declaratoria di manifesta infondatezza della q.l.c. dell’art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001, per il rigetto dell’appello. Deduce, che la “natura sanzionatoria dell’obbligo restitutorio, sancito dall’art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001, è stata espressamente esclusa dalle Sezioni riunite della Corte dei conti che, con sent. n. 26/2019/QM, hanno confermato che la fattispecie ivi disciplinata “dà luogo a un’ipotesi autonoma di responsabilità amministrativa tipizzata, a carattere risarcitorio del danno da mancata entrata per l’amministrazione di appartenenza del compenso indebitamente percepito e che deve essere versato in un apposito fondo vincolato””. Del resto, anche la granitica giurisprudenza della Corte regolatrice ha riconosciuto la giurisdizione contabile in materia (ex multis, Cass. S.U. 23240/2022). Ne discende altresì la manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale “dovendosi confermare, sul punto, le argomentazioni svolte dal Collegio giudicante di primo grado”. Quanto alla presunta violazione dei principi in tema di danno e di dolo erariale, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 21, co. 1 del D.L. n. 76 del 2020, rileva che “l’innovazione normativa (“La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”) non incide sulla ricostruzione sistematica della fattispecie di danno in esame”, atteso che “il dovere di restituzione sancito dall’art. 53, co. 7, discende dall’obbligo di esclusività della prestazione lavorativa nel pubblico impiego (art. 98 Cost.), il che può essere sufficiente a dimostrare la particolare significatività del tema (…)”. Richiama poi il consolidato orientamento giurisprudenziale che ravvisa che “l’omessa richiesta di autorizzazione (per gli incarichi autorizzabili), dà luogo a occultamento doloso e, ciò, senza necessità di un quid pluris”. In specie, “è acclarato che l’appellante abbia dato ampia dimostrazione, con la sua condotta, di una pervicace volontà di celare determinati accadimenti, così precludendo all’Aniministrazione la possibilità di far valere il proprio diritto di credito”. In ordine alla quantificazione del danno, le Sezioni riunite con la sent. n. 13/2021/QM hanno affermato che “il danno erariale debba essere risarcito al lordo delle ritenute fiscali operate sugli emolumenti percepiti”, mentre deve essere inclusa nel complessivo importo anche la somma di Euro 58.560,00, versata al L. dalla società M. S.n.c. di F.M.C. poi fallita, non essendo ciò “precluso dall’essere in corso di accertamento, in sede penale, la natura distruttiva di tali somme, che hanno costituito, presumibilmente, il profitto del reato”. Da ultimo, ritiene corretta la rideterminazione del danno, afferente alla terza voce (per differenze retributive), in Euro 103.369,07, per via della necessità di dover riconsiderare anche il periodo 2015-2018. In breve, “è dirimente il fatto che la somma delle voci di danno è compresa nel quantum di cui all’ipotesi accusatoria originaria, per cui non vi è vulnus dei diritti di difesa”.

VI. Alla pubblica udienza odierna, i rappresentanti delle parti hanno indugiato nei rispettivi atti e concluso come da verbale. Al termine della discussione la causa è stata, quindi, trattenuta in decisione.

Ragioni del decidere

1 L’ordine delle questioni da scrutinare è strettamente correlato al principio della gradualità che vede “il Collegio decidere (…) le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e, quindi, il merito della causa” (art. 102, co. 2 c.g.c.; di identico contenuto l’art. 276, co. 2 c.p.c.). Si tratta di un preciso obbligo di legge, che agevola il percorso logico-giuridico per assumere una decisione completa (Cass. S.U. civili 24883/2008, 26242/2014, 17909/2018, Corte dei conti Sez. III d’app. 155 e 172/2024, Sez. II centr. 257 e 265/2023, Sez. I d’app. 103/2018), la cui violazione può dar luogo a un vizio della sentenza nella misura in cui questo ridondi in una contraddittorietà della motivazione (Cass. 8720/2004) e salvo che non ricorra una ragione più liquida. Questa, infatti, impone un approccio interpretativo che privilegia la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello dell’evidenza, rispetto all’ordine delle questioni da trattare. In tali circostanze l’ordine di trattazione, mentre lascia libero il giudice di scegliere, tra varie questioni di merito, quella che ritiene più liquida, gli impone per contro di esaminare per prime le questioni pregiudiziali di rito rispetto a quelle di merito e la violazione di tale regola costituisce una causa di nullità del procedimento (Cass. 30745/2019). In specie, la causa non può essere decisa affrontando ante omnia una questione ritenuta di più agevole o pronta soluzione, dovendosi procedere secondo il prudente apprezzamento del Collegio giudicante ad affrontare progressivamente la questione pregiudiziale della giurisdizione e la preliminare di merito afferente all’eccezione di prescrizione, scrizione, all’esito delle quali il Collegio, ove ritenuta manifestamente infondata la q.l.c. proposta dall’appellante, è chiamato a sindacare il merito del giudizio.

2 Ciò stante, la prima questione da decidere impinge sulla provvista di giurisdizione della Corte dei conti, revocata in dubbio dall’appellante che lamenta “difetto di giurisdizione. Violazione e/o erronea applicazione dell’art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001” (1 motivo dell’appello). In breve, ha riproposto l’eccezione formulata nel corso della discussione orale di prime cure posto che “dalla lettura dell’atto di citazione e dalla stessa sentenza (…), le misure richieste e la quantificazione delle stesse palesano un’evidente attività e misura sanzionatoria non meramente ascrivibile alla competenza restitutoria delle somme asseritamente indebitamente percepite dall’odierno appellante”.

2.1 L’eccezione non coglie nel segno.

L’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001 disciplina la materia delle incompatibilità, del cumulo di impieghi e di incarichi e prevede un particolare regime grazie al quale, fermo restando il divieto di svolgere prestazioni per le quali sia normativamente prevista una incompatibilità assoluta, i pubblici impiegati possono svolgere incarichi retribuiti conferiti da altri soggetti, pubblici o privati, in quanto autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, la quale, pertanto, deve essere informata di dette attività avendo l’onere di fissare criteri oggettivi e predeterminati in base ai quali concedere o negare la possibilità di rilasciare l’autorizzazione. Gli obblighi di informativa sono concepiti, invero, come strumentali all’esatto svolgimento delle mansioni pubbliche in quanto preordinati a garantirne la proficua esecuzione attraverso il potere dell’Amministrazione di valutare se l’impiego in ulteriori attività, per qualità e quantità, possa pregiudicare i compiti d’istituto, anche in ragione di eventirali conflitti d’interesse con dette funzioni. Di particolare importanza sono le disposizioni e le conseguenze in caso di attività svolta in assenza dei presupposti, di cui ai commi 7 e 7 bis dell’art. 53 D.Lgs. n. 165 del 2001 del cit. T.U. Il comma 7 sancisce il divieto di svolgere “incarichi retribuiti che non siano stati previamente autorizzati o conferiti dall’Amministrazione di appartenenza”; a detti fini, “l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi”.

La ratio della norma e, quindi, dell’obbligo di informare risiede nella salvaguardia del precetto costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, art. 98 Cost.), inteso a preservare le energie del lavoratore e a tutelare il buon andamento della P.A., che risulterebbero turbate dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto. In breve, centri d’interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero alterare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e il prestigio della P.A. In tale ottica, l’art. 53, quale norma di riferimento, distingue tra attività assolutamente incompatibili per previsione normativa, quindi in alcun modo autorizzabili (co. 1), attività relativamente incompatibili, perciò esercitabili previa autorizzazione (co. 7 e, per quanto concerne i professori universitariart. 6 della L. n. 240 del 2010 e s.m.i.) e attività compatibili, liberamente esercitabili, tassativamente indicate dal legislatore, soggette a mera comunicazione (co. 6 del D.Lgs. n. 165 del 2001). In breve, il co. 1 lascia impregiudicata, per tutti i dipendenti pubblici, la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e ss. del D.P.R. n. 3 del 1957, che vieta agli stessi, in modo assoluto, di esercitare il commercio, l’industria, attività imprenditoriali (anche agricole) e qualsiasi professione o di assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite per fini di lucro. In sostanza, il pubblico dipendente è obbligato a prestare il proprio lavoro in maniera esclusiva nei confronti dell’Amministrazione da cui dipende. A questo principio di carattere generale fanno eccezione alcuni regimi speciali (si pensi alla possibilità per i docenti a tempo definito di esercitare la libera professione) e il personale in part-time con prestazione lavorativa non superiore al 50%. Su tali basi, il co. 6 dell’art. 53 indica espressamente le attività extra-istituzionali liberamente consentite: a) collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; b) utilizzazione economica, da parte dell’autore, di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali; c) partecipazione a convegni e seminari; d)incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; e) incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; f) incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; f-bis) attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica. I suddetti incarichi, in quanto liberalizzati, non necessitano di comunicazione all’Amministrazione di appartenenza, anche se in alcune circostanze quest’ultima può pretendere che il dipendente sia preventivamente autorizzato a utilizzare la qualifica di appartenenza ed esigere la precisazione che quanto scritto non rappresenti la linea di azione (c.d. linea editoriate) dell’ente di titolarità. Resta, fermo, tuttavia, il divieto per il dipendente di svolgere attività che possano risultare in concorrenza o in contrasto con l’amministrazione di appartenenza. Di talché, dopo la legge “Madia” del 2015 (n. 124), recante deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, è obbligatorio chiedere l’autorizzazione all’Amministrazione di appartenenza solo per svolgere attività compatibili che siano retribuite, mentre permane il divieto di svolgere le attività di cui all’art. 60 del T.U. n. 3/1957, afferenti all’esercizio del “commercio, dell’industria, all’esercizio di professione e all’assunzione di impieghi alle dipendenze di privati o all’accettazione di cariche in società costituite a scopo di lucro (…)”, in cui l’informativa all’amministrazione ha la finalità di rimettere alla stessa la valutazione in concreto della ricorrenza di un’attività incompatibile in assoluto ai fini di una sua eventuale inibitoria. In ragione di tali premesse, il co. 7 dell’art. 53 sancisce che, in caso di inosservanza del divieto di svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, “salve le più gravi sanzioni e la possibilità di essere sottoposto a procedimento disciplinare”, il compenso percepito per le prestazioni eventualmente svolte “(…) deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato a incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”. Relativamente, invece, al dispositivo dell’art. 60, l’impiegato che contravvenga ai divieti in questo contenuti è diffidato dall’Amministrazione a cessare dalla situazione di incompatibilità e ove quest’ultima non cessi è dichiarato decaduto dall’impiego (art. 63 del D.P.R. n. 3 del 1957). A tal riguardo, mette conto rilevare che la locuzione “incarichi retribuiti che non siano stati conferiti

o previamente autorizzati” (salvo quanto precisato in seguito sulla questione di massima sollevata il 3 luglio 2024 dal Procuratore generale, quindi dopo la deliberazione ma anteriormente alla pubblicazione di questa sentenza) appare idonea a ricomprendere sia quegli incarichi autorizzabili astrattamente ma non in concreto, sia gli incarichi per i quali la preclusione allo svolgimento dell’attività esterna compensata non avrebbe in ogni caso potuto essere rimossa attraverso il provvedimento autorizzativo perché, in astratto, mai autorizzabili (si pensi allo svolgimento di attività retribuite di tipo imprenditoriale, commerciale, a cariche in società di lucro che non abbiano le caratteristiche di spin off o di start up, ad attività libero-professionale incompatibile con il solo regime di impegno a tempo pieno). In specie, per un verso, l’elemento unificante è la mancata autorizzazione, irrilevante essendo

la circostanza che tale condizione venga generata da un inadempimento del dipendente pubblico, da un provvedimento negativo dell’amministrazione cui sia stata eventualmente formalizzata la pertinente istanza o da un impedimento legale insuperabile; “per un altro verso, si determinerebbe una ingiustificabile asimmetria ove si ritenesse che la norma, tesa a preservare il rapporto di pubblico impiego dai rischi rivenienti da commistioni con incarichi esterni, si limitasse ad attingere le situazioni meno rischiose (quelle degli incarichi astrattamente autorizzabili) ed escludesse quelle più rischiose (quelle degli incarichi assolutamente incompatibili, addirittura in grado di determinare la decadenza dall’impiego” (Corte dei conti, Sez. II d’app. 168 e 337/2022, 219, 241, 290 e 376/2023, Sez. I centr. 49/2023; contra Sez. III d’app. 230/2019, 460/2021, Sez. II 310/2023, Sez. I centr. 281/2022, App. Sicilia 33/2022). Da ultimo, il co. 7 bis dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, prevede che “l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”. Alla luce delle previsioni normative sopra delineate risulta chiaro che il dipendente pubblico possa svolgere attività extra-lavorative (relativamente compatibili), quale forma di espressione della propria personalità in ossequio all’art. 2 della Carta fondamentale: dette attività sono, tuttavia, soggette a un rigoroso sistema di limiti, di autorizzazioni o di comunicazioni. In relazione a queste (ma anche alle prestazioni per le quali sia normativamente prevista una incompatibilità assoluta, ove chiaramente retribuite), il carattere sanzionatorio dell’obbligo restitutorio sancito ai commi 7 e 7 bis dell’art. 53 è stato espressamente escluso dalle Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei conti che, con sent. n. 26/2019/QM, hanno confermato che la fattispecie ivi disciplinata “ha un carattere dissuasivo e di deterrenza nei con fronti dei pubblici dipendenti dall’assunzione di incarichi retribuiti non sottoposti, previamente, al regime autorizzatorio da parte dell’amministrazione di appartenenza e determina l’attrazione del medesimo compenso in conto entrata del bilancio dell’amministrazione; la condotta omissiva del versamento del compenso

da parte del dipendente pubblico indebito percettore, di cui al successivo art. 53, co. 7 bis, dà luogo a un’ipotesi autonoma di responsabilità amministrativa tipizzata, a carattere risarcitorio del danno da mancata entrata per l’amministrazione di appartenenza del compenso indebitamente percepito e che deve essere versato in un apposito fondo vincolato. Dalla natura risarcitoria di tale responsabilità consegue l’applicazione degli ordinari canoni sostanziali e processuali della responsabilità, con rito ordinario, previa notifica a fornire deduzioni di cui all’art. 67 c.g.c.“. Il dubbio fugato con la soluzione della questione di massima, dalla quale non si ha motivo di dissentire dovendosene garantire la continuità interpretativa, ha riguardato proprio la riconducibilità della fattispecie in esame alla responsabilità sanzionatoria, disciplinata dagli artt. 133 e ss. c.g.c., esclusa dal Giudice della nomofilachia contabile, trattandosi di una forma di responsabilità risarcitoria, non formale e, quindi, sanzionatoria, che non crea alcun automatismo tra determinate condotte e danno azionabile. Sicché, la disposizione ha tipizzato una fattispecie dannosa da mancata entrata, originata dall’omissione del versamento da parte del dipendente del compenso percepito per gli incarichi retribuiti ma non autorizzati o non autorizzabili, la cui entità è quantitativamente predeterminata dal legislatore proprio nella misura del compenso ricevuto (Cass. S.U. 4852/2021, Corte dei conti Sez. II d’app. 241/2023). Perciò, la responsabilità prevista dal citato comma 7 -bis dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001 non è che una comune responsabilità patrimoniale da mancata entrata fondata sugli elementi precipui dell’elemento psicologico e del danno: il legislatore ne ha solo tipizzato la condotta e la sanzione predeterminando il danno ex lege, con lo scopo di rafforzare la tutela dell’erario a fronte della diffusa prassi di attività extra-istituzionale non autorizzata. Dappoi, la supposta attrazione della fattispecie nella giurisdizione esclusiva del giudice ordinario è stata esclusa di recente, con orientamento al momento consolidato, dalla Suprema Corte che ha riconosciuto la giurisdizione contabile in materia. In uno degli ultimi precedenti, la Suprema Corte ha delineato il proprio iniziale orientamento esegetico che all’esito della pronuncia n. 19072/2016 si era consolidato nell’affermare che “la controversia avente a oggetto la domanda della P.A. volta a ottenere dal proprio dipendente il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario anche dopo l’inserimento, nell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, del comma 7 bis a opera dell’art. 1, co. 42 lett. b), della L. n. 190 del 2012 (…), attesa la natura sanzionatoria dell’obbligo di versamento previsto dal co. 7, che prescinde dalla sussistenza di specifici profili di danno richiesti per la giurisdizione del giudice contabile (Cass. SS.UU. 16722,1415,5789,1323920533/2018 e 8688/2017)”. Successivamente, la Corte regolatrice ha ritenuto che “l’azione ex art. 53, co. 7 promossa dal Procuratore della Corte dei conti nei confronti di dipendente della P.A., che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, rimane attratta alla giurisdizione del giudice contabile (…)”, anche se la percezione dei compensi si è avuta (…) in epoca antecedente all’introduzione del co. 7 bis del medesimo art. 53, “giacché tale norma non ha portata innovativa, vertendosi in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta ma altresì annettendo valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, al fine di tutelare la compatibilità dell’incarico extra-istituzionale in termini di conflitto di interesse, dovendo privilegiarsi il proficuo svolgimento di quello principale e l’adeguata destinazione di energie lavorative al rapporto pubblico (Cass. SS.UU. 17124/2019415/2020,14237/20208507/2021)”. Sicché, l’obbligo di versamento è configurato come “una particolare sanzione ex lege, volta a rafforzare la fedeltà del pubblico dipendente. In una tale evenienza la giurisdizione contabile è ravvisabile solo se alla violazione del dovere di fedeltà o all’omesso versamento della somma pari al compenso indebitamente percepito dal dipendente si accompagnino specifici profili di danno” (Cass. 17124/2019415/2020), in specie correlati alla mancata entrata nel bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente dei compensi percepiti. Inoltre, la Corte di legittimità ha posto ulteriormente in rilievo come “allorquando non sia la P.A. ad agire per il recupero dei compensi erogati al dipendente pubblico per incarichi espletati in assenza di autorizzazione (…) ma l’azione nei confronti del soggetto legato alla P.A. da un rapporto d’impiego o di servizio venga come nella specie promossa dal Procuratore contabile, questa trova giustificazione nella violazione del dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extra-lavorativi e del conseguente obbligo di riversare all’Amministrazione i compensi ricevuti, trattandosi di prescrizioni (…) volte a garantire il corretto e proficuo svolgimento delle mansioni attraverso il previo controllo dell’Ente sulla possibilità per il dipendente d’impegnarsi in un’ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti d’istituto”. In conclusione, il co. 7 bis dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001 “non riveste carattere innovativo ma si pone in rapporto di continuità con l’orientamento giurisprudenziale in precedenza venuto a delinearsi, essendosi dal legislatore attribuita natura di fonte legale alla precedente regola di diritto effettivo di fonte giurisprudenziale” (Cass. n. 415/202022688/2011). Da ultimo, la Cassazione non ha mancato di sottolineare che “laddove la PA. di appartenenza del dipendente percipiente il compenso in difetto di autorizzazione non si attivi, ponendosi detta azione rispetto a essa in termini di indefettibile alternatività (Cass. 17124/2019), (anche) in via pregiudiziale per far valere l’inadempimento degli obblighi del rapporto di lavoro, e il Procuratore contabile come nella specie abbia promosso azione di responsabilità contabile in relazione alla tipizzata fattispecie legale ex art. 53, commi 7 e 7 bis (…), alla P.A. rimane precluso promuovere la detta azione, essendo da escludere – stante il divieto del bis in idem – una duplicità di azioni attivate contestualmente che, seppure con la specificità di ciascuna di esse propria, siano volte a conseguire, avanti al giudice munito di giurisdizione, lo stesso identico petitum (predeterminato dal legislatore) in danno del medesimo soggetto obbligato in base a un’unica fonte (quella legale), e cioè i compensi indebitamente percepiti in difetto di autorizzazione allo svolgimento dell’incarico che li ha determinati e non riversati, alfine di effettivamente destinarli al bilancio dell’Amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente” (Cass. 415/202023240/2022). In specie, l’impugnata decisione ha fatto piena e corretta applicazione dei suindicati principi, rientrando la fattispecie nella responsabilità amministrativa da mancata entrata, per l’omesso riversamento dei corrispettivi percepiti per l’attività libero-professionale (non risultando, invece, riscossi compensi per le disimpegnate attività imprenditoriali, commerciali e societarie) svolta senza aver chiesto una preventiva valutazione all’Università di Trento, atteso il preteso inquadramento della stessa in quella di consulenza liberalizzata, presso la quale, con riguardo al periodo 2012-2018 qui d’interesse, era “Professore aggregato” di diritto romano e diritti dell’antichità, in regime di impegno a tempo pieno. In sintesi, all’esito della complessa istruttoria, la prima sentenza ha riconosciuto che il Prof. L.N.D. ha svolto attività extra-istituzionale, in contrasto con la normativa vigente nel tempo, percependo compensi per complessivi Euro 446.057,83, non riversati all’Amministrazione universitaria di Trento, in violazione di quanto statuito ai commi 7 e 7 bis dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001. Di talché, non è nella specie configurabile né la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quale giudice delle controversie di lavoro ex art. 3 del D.Lgs. n. 165 del 2001, né quella del Giudice ordinario reclamata dal Prof. L.. A tal riguardo, anche il Consiglio di Stato ha affermato che in ipotesi “è necessario scindere z due momenti divisati ai commi 7 e 7 bis dell’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001“. Laddove, infatti, si verta in merito all’accertamento dei presupposti dell’obbligo di versamento dei compensi percepiti in maniera indebita “non è possibile sottrarne la giurisdizione al giudice amministrativo visto che la giurisdizione contabile subentra solo in un momento diverso ovvero quando – accertato il credito dell’amministrazione – il debitore non abbia provveduto a soddisfarlo” (Cons. di Stato 4091/2021). In conclusione, l’obbligo di riversare il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente integra una “misura reale di natura compensativa della condotta irregolare del dipendente stesso”, quale obbligo restitutorio del tantundem indebitamente percepito e scaturente dalla violazione della normativa regolante l’autorizzazione degli incarichi extra-istituzionali. Perciò, l’omesso riversamento denunciato dal Procuratore regionale e riconosciuto in sentenza, ai sensi del co. 7-bis dell’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001, determina un depauperamento delle casse pubbliche rispetto a somme che il legislatore assegna all’amministrazione. In conclusione, la controversia è attratta alla giurisdizione contabile.

3 Ciò premesso, in sede preliminare di merito il Prof. L. contesta la prospettazione della sentenza sulla prescrizione dell’azione, in ragione dell’erronea “applicazione dell’art.1, co. 1 bis e co. 2 della L. n. 20 del 1994” e dell’inesatto suo “calcolo” (4 e 5 motivo del gravame). Osserva che, “in relazione a tutte le domande risarcitorie spiegate nel presente giudizio o, in ogni caso, quanto meno in relazione all’obbligo di riversamento dei compensi percepiti per attività libero-professionali all’Amministrazione, difetti qualsivoglia situazione di occultamento alla luce dell’orientamento della giurisprudenza contabile formatosi in materia”, che ha affermato che al fine di integrare l’occultamento doloso “non sia sufficiente il mero espletamento delle attività formalmente non autorizzate nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo pieno, essendo necessario un quid pluris, ossia un’attività ulteriore e strumentale a occultare la relativa verificazione”, in specie non integrata dalla “mera omessa comunicazione, da parte del L., dell’esecuzione di attività extra-lavorative (Corte dei conti, Sez. I d’app. n. 130/2021)”. Inoltre, il termine della prescrizione, “che andava certo meglio approfondito dalla sentenza (…), andrebbe calcolato a ritroso dalla data di notifica della sentenza di primo grado, ovvero dal 24 aprile 2021 (recte, 28 aprile), con la conseguenza che non potrebbero essere prese in considerazione le attività extra-istituzionali svolte dall’odierno appellante prima del 23 aprile 2016 (recte, 27 aprile), ovvero anteriori alla data dell’ll marzo 2015 (cinque anni prima della notifica dell’atto introduttivo)”.

3.1 L’articolata censura è destituita di fondamento.

Con riguardo al tempo dei fatti risalenti, per gli aspetti a rilievo erariale, agli anni 2012-2018, la norma applicabile ratione temporis, sia con riguardo al termine della prescrizione che ai principi civilistici di ordine sostanziale afferenti alla sua decorrenza, è l’art. 1, co. 2,L. n. 20 del 1994, alla cui stregua “Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”. Detta disposizione, a mente della quale, fuori dei casi di intenzionale occultamento del danno, il termine di prescrizione deve essere computato “dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso”, declina, nel processo contabile, la regola codicistica di cui all’art. 2935 c.c. secondo la quale “la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”, così consolidando l’indirizzo giurisprudenziale, espresso nella sent. n. 743/1992 delle Sezioni riunite, della decorrenza della prescrizione dalla conoscibilità obiettiva del nocumento (in specie il riferimento è alla violazione del dovere di chiedere l’autorizzazione o di informare sullo svolgimento degli incarichi extra-lavorativi e del conseguente obbligo di riversare all’Amministrazione i compensi ricevuti), salvo il principio della conoscenza effettiva solo nelle ipotesi di occultamento. Il recente Codice di giustizia contabile, che all’art. 66 ha previsto che la prescrizione quinquennale possa essere interrotta per una sola volta, per non più di due anni, e che “il termine complessivo di prescrizione non può comunque eccedere i sette anni dall’esordio della stessa”, non ha apportato modifiche ai principi generali dell’istituto. A tale stregua, la regola generale (SS.RR. 5/2007/QM e 14/2011/ QM) ritiene che il fatto dannoso, integrante il dies a quo della prescrizione, non si perfezioni con il comportamento tenuto dal pubblico dipendente in difformità da quello previsto dalle norme, circostanza, questa, attinente alla condotta, ma con il momento in cui, verificandosi le conseguenze di quella condotta, si realizza l’eventus damni, quale effettivo depauperamento del patrimonio pubblico, e si abilita il requirente all’esercizio dell’actio damni. La giurisprudenza contabile, non diversamente da quella di legittimità, che ha affermato che “il danno non è una mera lesione di un diritto, ma la lesione di un diritto dalla quale siano derivate conseguenze pregiudizievoli oggettivamente apprezzabili” (Cass. S.U. 26972 e 26975/2008 e 23763/2011), partendo da detto principio ritiene che l’exordium praescriptionis, nel caso di danno all’erario, sia da individuare nel momento in cui il danno si esteriorizza, ossia diviene percepibile non soltanto come modificazione patrimoniale negativa ma anche riconoscibile come ingiusto, alla stregua di una spesa non dovuta o di un valore perduto, completandosi in tal modo la nozione giuridica di fatto dannoso per l’Erario (Corte dei conti, Sez. III d’app. 170 e 207/2019,303/2017, Sez, II d’app. 182/2019, 129/2017, 891/2016, Sez. I d’app. 8/2019, 365/2018). L’individuazione del termine di esordio della prescrizione, in ragione del carattere ordinariamente non tipizzato dell’illecito contabile, ha imposto al giudice erariale frequenti sforzi interpretativi per giungere all’individuazione di criteri oggettivi, a carattere presuntivo poiché fondati sull’id quod plaerunque accidit, aventi attitudine a disvelare il fatto dannoso, ossia il momento dell’effettivo verificarsi del danno, con riguardo alle varie manifestazioni della responsabilità amministrativa. In buona parte dei casi questo può sicuramente opinarsi con riferimento al momento dell’esborso di somme non dovute, quale definitiva perdita dell’utilità considerata (Corte dei conti SS.RR. 12/1997, Sez. 1700/2014, 634/2010, Sez. II 296/2007), Anche in sede nomofilattica si è affermato che “di decorrenza della prescrizione possa parlarsi solo nel momento in cui la condotta contra ius abbia prodotto l’evento dannoso avente i caratteri della concretezza e dell’attualità”, id est il pagamento concretante la deminutio patrimonii (SS.RR. n. 14/2011/QM). In tal modo, la lesione patrimoniale si esteriorizza divenendo conoscibile dal danneggiato secondo un criterio di ordinaria diligenza (Corte conti SS.RR. 2/2003/QM, Sez. I d’app. 222/2019, Sez. II 190/2019, Sez. III 20/2020). Tale principio soffre delle eccezioni nelle non infrequenti ipotesi di “occultamento doloso” del danno, che impediscono l’esteriorizzazione, la percepibilità e la conoscibilità dello stesso secondo l’ordinaria diligenza e che richiedono l’esecuzione di accorte attività finalizzate al non mero disvelamento dei fatti e delle loro conseguenze. In tali casi, il legislatore ha voluto affermare la regola dell’esercizio dell’azione e, conseguentemente, della decorrenza della prescrizione dal momento della “conoscenza effettiva”, in luogo della “conoscibilità obiettiva” (Corte conti, Sez. III d’app. 98/2002, Sez. I d’app., 427/2003, Sez. II d’app. 377 e 498/2017), sussistendo un oggettivo impedimento all’esercizio del diritto da parte del suo titolare (Sez. III 114/2020). L’occultamento doloso, disciplinato all’art. 1, co. 2, L. n. 20 del 1994, presuppone l’esistenza di un’attività consapevole del titolare del rapporto di servizio, diretta a occultare il fatto generatore del danno erariale e un elemento obiettivo dato da una situazione che precluda la scoperta del fatto stesso (Sez. III 308/2016, 334/2017,62/2020, Sez. II d’app. 241/2023, Sez. I centr. 49/2023). Inoltre, diversamente da quanto opinato dall’appellante, l’occultamento doloso può realizzarsi anche con un comportamento semplicemente omissivo avente “(…) a oggetto un atto dovuto, cioè un atto cui il debitore sia tenuto per legge” (Cass. 11348/1998, Corte dei conti Sez. I, 124/2004/ A, App. Sicilia 198/2012 e 64/2016). In sostanza, per detti crediti trovano applicazione i canoni ermeneutici sviluppati dalla consolidata giurisprudenza (contabile e di legittimità) che vuole integrato il “doloso occultamento” da una condotta omissiva consistente nella violazione dell’obbligo di informazione ricadente sul pubblico dipendente. Pertanto, può occultarsi non solo realizzando una condotta ulteriore riore – rispetto alla fattispecie integrativa dell’illecito erariale – preordinata a mantenere celati i fatti dannosi, ma anche rimanendo semplicemente silenti, nel senso di realizzare non un comportamento meramente passivo ma di serbare “maliziosamente” il silenzio su taluni elementi circostanziali (espletamento di attività extra-istituzionali retribuite da parte del Prof. L., sulle quali spettava all’Università di Trento stabilire se trattavasi di attività libero-professionale oppure di incarichi retribuiti di natura occasionale, ovvero di consulenze, liberamente consentite nella ricorrenza di taluni imprescindibili requisiti), aventi riverberi anche sul rapporto di lavoro con l’Ateneo trentino. In specie, il “doloso occultamento” va inteso come fattispecie rilevante non tanto soggettivamente (in relazione a una condotta occultatrice del debitore), ma obiettivamente in relazione all’impossibilità dell’amministrazione di conoscere il danno e, quindi, di azionarlo in giudizio ex art. 2935 c.c. (Corte dei conti Sez. III d’app. 345/2016, 62/2020, Sez, Il centr. 1094/2015, Sez. I 49/2023). Sicché, al cospetto di un obbligo giuridico di informare, quale discendente dal co. 7 dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, e, quindi, di attivarsi, l’ulteriore condotta dolosa del debitore/dipendente pubblico, tesa a occultare il fatto pregiudizievole, contrariamente a quanto argomentato dalla parte privata, può estrinsecarsi anche in una condotta omissiva “quando chiaramente riguardi atti dovuti, ai quali cioè, il debitore è tenuto per legge” (Cass. 11348/1998, 125/1979, 2030/2010,22711/2019). Aspetto ancora più eloquente negli arresti della legittimità penale, che affermano essere peraltro “(…) consolidato il principio (… ) che in materia di truffa contrattuale anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere integra l’elemento oggettivo ai fini della configurabilità del reato di truffa (…); di talché, l’omissione dolosa si riscontra anche nelle ipotesi in cui le circostanze taciute siano conoscibili dalla controparte mediante l’ordinaria diligenza” (Cass. pen. 30798/2012). Alla luce di tali direttrici esegetiche e del quadro normativo di riferimento va condotto lo scrutinio sull’eccezione di prescrizione. Nella fattispecie è incontroverso l’inquadramento del Prof. L. come “professore aggregato”, qualifica assegnata agli ex ricercatori a tempo indeterminato.

Lo stesso, nominato ricercatore dell’Università di Trento il 9 novembre 1994, ha alternato periodi di lavoro a tempo pieno con altri a tempo definito; in particolare, nel periodo 2008-dicembre 2018 ha lavorato presso l’Ateneo trentino a tempo pieno, così come previsto dall’art.11, del D.P.R. n. 382 del 1980 (recante il Testo unico sul riordinamento della docenza universitaria), dall’art.6, co.1 della L. n. 240 del 30 dicembre 2010 (c.d. legge “Gelmini”). I fatti così come ricostruiti, ascrivibili al periodo 2010 – maggio 2019 evidenzierebbero elementi inequivoci circa il costante, assiduo e ininterrotto impegno del docente a tempo pieno verso molteplici clienti (società e persone fisiche) in attività libero-professionali di natura giuridica (avvocato/consulente legale). Gli accertamenti della Polizia tributaria per il periodo in esame hanno riscontrato che l’interessato sarebbe stato impegnato, nella contestualità dell’attività accademica: nella conduzione della ditta individuale “L.N.D.”, cessata il 31 dicembre 2018, peraltro dopo l’esito di un primo procedimento disciplinare instaurato dall’Università; nella società R.E.O. S.r.l. con sede a M., specializzata nell’attività di compravendita di beni immobili effettuata su beni propri, nella qualità di socio e rappresentante legale; come liquidatore, dal 2008, della società F.T. S.r.l., con sede a V. (M.), anche questa specializzata nella compravendita di beni immobili effettuata su beni propri; nella società C.S. S.p.A., già in concordato e in fallimento, con sede a C. (B.), con attività di estrazione di ghiaia, sabbia, argille e caolino, di cui era amministratore unico. Dappoi, dalle informazioni recuperate nell’Anagrafe tributaria e dall’applicativo “Spesometro” sono emersi compensi anche elevati percepiti dal Prof. L., in particolare dal 2012 al 2018. Oltre a questo, i militari hanno effettuato varie richieste di informazioni alle società che hanno intrattenuto rapporti lavorativi o commerciali con l’odierno appellante e ne hanno, quindi, ricavato ulteriori dati, che, unitamente ai compensi percepiti, per complessivi Euro 446.057,83, non sarebbero stati portati a conoscenza dell’Università né alla stessa riversati, in violazione dei commi 7 e 7 bis dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001. Perciò, l’evento dannoso è da ricondurre non tanto allo svolgimento di attività remunerate che si pongono in posizione di incompatibilità assoluta con la prestazione lavorativa universitaria, quali individuate dalla normativa primaria, di cui all’art. 60 del D.P.R. n. 3 del 1957 e per le conseguenze dall’art. 63 (decadenza dall’impiego), dagli artt. 11 e 15 del D.P.R. n. 382 del 1980, dall’art. 6, co. 9, primo periodo, della L. n. 240 del 2010, il cui regime è richiamato al co. 1 dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, che ha esteso a tutti i dipendenti pubblici il divieto dell’esercizio del commercio e dell’industria, ma allo svolgimento di attività libero-professionale incompatibile con il solo regime del tempo pieno e per la quale è confermata la necessità della previa informativa all’Amministrazione di appartenenza alla quale spetta stabilire se trattasi di attività libero-professionale, assolutamente incompatibile con il tempo pieno, oppure di incarichi retribuiti di natura occasionale che non determinavano situazioni di conflitto di interesse e detrimento alle attività didattiche affidategli dall’ateneo, oppure di attività di consulenza a carattere scientifico, quale prestazione di opera intellettuale, resa da un esperto nel proprio campo disciplinare, in assenza del vincolo di subordinazione e di un’organizzazione di mezzi e di persone preordinata a suo svolgimento. Dalla suindicata disciplina primaria emerge, perciò, la sussistenza di obblighi di informativa a carico del dipendente pubblico. Quest’ultima rinviene poi spazio attuativo nella normativa regolamentare adottata dall’Università e di cui al Decreto rettorale n. 288, del 29 maggio 2014, di recente modificato dal D.R. n. 688/2017, che può operare solo ai fini di integrazione attuativa della fonte primaria, essendo delegata, infatti, a disciplinare i criteri e le procedure di rilascio delle autorizzazioni nei casi previsti dal D.Lgs. n. 165 del 2001. Tuttavia, anche detta normativa regolamentare, vigente all’epoca dei fatti, con riguardo ai professori a tempo pieno all’art. 5 ha ribadito il divieto di esercizio di attività libero-professionale, sancendo anche l’incompatibilità delle attività di lavoro autonomo e parasubordinato di carattere extra-istituzionale prestate in favore di terzi che, considerate singolarmente o cumulativamente, costituivano, in relazione all’impegno richiesto, un centro d’interessi prevalente rispetto al ruolo universitario. Pertanto, non si può affatto dubitare che vi sia, a carico del docente, un obbligo specifico di informare il proprio datore di lavoro riconducibile sia ai generali obblighi di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., espressione di principi generali di matrice costituzionale (principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. secondo Cass. 3462/2007) e, dunque, applicabili anche ai contratti di lavoro, pubblici e privati, nonché fonte legale di precipui doveri d’informazione (Cass. pen. 41717/2009), sia alla disciplina, generale e di settore, prima richiamata, prevedente le attività extra-istituzionali e le incompatibilità dei pubblici dipendenti. Sicché, la scelta legislativa di rendere assolutamente incompatibile l’esercizio di attività imprenditoriali e anche quelle libero professionali, che non abbiano carattere episodico e non integrino attività di consulenza per il docente a tempo pieno (come in specie), al punto da prevedere l’irrogazione di sanzioni disciplinari, che possono giungere sino alla destituzione dall’impiego, rinvia al potere-dovere dell’Amministrazione di conoscere le cause dell’incompatibilità e di avviare, se del caso, il procedimento di decadenza dall’impiego. Tale onere di conoscenza intestato all’Amministrazione presuppone, tuttavia, un comportamento collaborativo, corretto e di buona fede del dipendente (art. 1175 c.c.), in specie del tutto mancato, per avere il Prof. L. (come emergente dai fatti) serbato un consapevole silenzio sull’esercizio di attività libero-professionali, mai comunicate e mai autorizzate, sì da potersi ritenere che lo stesso abbia consapevolmente omesso di informare l’Ateneo di appartenenza circa la natura e la tipologia di prestazioni rese in favore di soggetti terzi. Come evidenziato in premessa, l’Università degli Studi di Trento solo nel marzo 2018 veniva a conoscenza che il Prof. L. risultava essere iscritto all’Albo ordinario degli avvocati di Milano dal 7 settembre 2006, nonché all’Albo degli Avvocati Cassazionisti dal 19 luglio 2013, come segnalato dall’Ordine degli avvocati di Milano. Tenuto conto del regime del “tempo pieno” adottato dal docente, incompatibile, ai sensi degli artt. 11 e 15 del D.P.R. n. 382 del 1980, 6, co.9 della L. n. 240 del 2010 e 11, co.2 del Regolamento sugli incarichi extra-istituzionali del personale docente e ricercatore con l’iscrizione ai citati Albi professionali (D.R. 872 del 7 novembre 2018), l’Ateneo di appartenenza ha diffidato il ricercatore aggregato a cessare immediatamente da tale situazione di irregolarità. Successivamente l’Ordine degli avvocati di Milano, in data 9 ottobre 2018, ha informato l’Università di Trento che l’Avvocato L. il 19 aprile 2018 ha chiesto di passare dall’Albo Ordinario a quello Speciale. Lo stesso Ordine ha precisato che essendo emersi gravi precedenti penali a carico del medesimo, tale da ritenere la posizione dello stesso incompatibile con l’iscrizione all’Albo degli avvocati, ne ha disposto la cancellazione d’ufficio da quest’ultimo. A seguito di tale comunicazione l’Ateneo ha provveduto ad acquisire il certificato del Casellario giudiziale, datato 21 ottobre 2018, riferito al Prof. L., dal quale è emersa la sentenza di condanna della Corte di appello di Milano del 14/03/2013, parzialmente riformata dalla Suprema Corte con sentenza del 7/07/2015, divenuta irrevocabile in pari data, con cui l’appellante è stato condannato alla pena di anni due di reclusione per peculato e alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Sicché gli atti danno ragione che il Prof. L. ha esercitato attività extra-istituzionali senza la prescritta autorizzazione e, comunque, in assenza di una preventiva informativa all’amministrazione, così sottraendosi a un preciso obbligo di comunicazione sia con riguardo all’esercizio di attività libero-professionale senza soluzione di continuità, all’esito della quale ha percepito annualmente notevoli somme di denaro, sia con riguardo alla condanna penale subita, la quale avrebbe provocato l’immediata sospensione del rapporto di lavoro tra il ricercatore e l’Ateneo per la durata dell’interdizione stessa, applicata dall’Università di Trento solo a decorrere dal 7/11/2018. Sicché, il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione, ricorrendo il doloso occultamento del danno, di cui all’art.1, co. 2,L. n. 20 del 1994, non può coincidere in ipotesi che con la data di ricevimento, il 2/10/2019, da parte del Procuratore regionale, della dettagliata informativa della G. di F., che attraverso apposita attività investigativa ha accertato gli elementi essenziali dell’illecito erariale, all’esito della quale è stato notificato, il 12/12/2019, l’invito a dedurre contenente formula interruttiva della prescrizione, mentre il successivo 11/03/2020 è stato depositato l’atto introduttivo del giudizio. La censura, pertanto, non merita accoglimento.

4 Tutto quanto statuito, l’appellante, che insiste “sull’assorbente rilievo (…) che impone l’insorgenza dell’obbligo di pagamento di cui si controverte esclusivamente anale conseguenza di un danno sostanziale e non meramente formale patito dall’Amministrazione datrice di lavoro del dipendente pubblico per l’espletamento di relative attività extra-lavorative (…)”, ha riproposto “la questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, commi 7 e 7 bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001 nella parte in cui tale disposizione, ove interpretata in senso difforme da quella evidenziata (…), introdurrebbe nell’ordinamento giuridico ingiustificati automatismi sanzionatori connessi alla mera violazione di obblighi di carattere formale (richiesta di autorizzazione all’attività extra per il docente universitario a tempo pieno), a prescindere dalla individuazione e dalla verificazione di effettivi e conclamati pregiudizi arrecati al bene giuridico protetto dalla norma (buon andamento della PA.)” (2 motivo d’appello). Difatti, “l’obbligo di restituire all’Amministrazione i compensi (…) percepiti in assenza di autorizzazione si pone in contrasto con l’art. 3, co. 2 della Cost. e con i principi generali di ragionevolezza e di proporzionalità, trattandosi di una sanzione correlata a una violazione formale, in quanto priva di connessione rispetto a un eventuale danno patito dall’Università (…)”. Ciò che all’evidenza determinerebbe “un’inammissibile disparità di trattamento tra la posizione del pubblico dipendente che abbia effettivamente svolto prestazioni non autorizzate né autorizzabili e la posizione del pubblico dipendente che, con l’ordinaria diligenza, avrebbe ottenuto dalla P.A. di riferimento l’autorizzazione necessaria allo svolgimento dell’incarico”.

4.1 La questione prospettata è manifestamente infondata. Il carattere sanzionatorio dell’obbligo restitutorio sancito ai commi 7 e 7 bis dell’art. 53, è stato espressamente escluso, come prima ricordato, dalle SS.RR. della Corte dei conti che con sent. 26/2019/QM hanno confermato che la fattispecie ivi disciplinata “ha un carattere dissuasivo e di deterrenza nei confronti dei pubblici dipendenti dall’assunzione di incarichi retribuiti non sottoposti, previamente, al regime autorizzatorio da parte dell’amministrazione di appartenenza e determina l’attrazione del medesimo compenso in conto entrata del bilancio dell’amministrazione; la condotta omissiva del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore, di cui al successivo art. 53, co. 7 bis, dà luogo a un’ipotesi autonoma di responsabilità amministrativa tipizzata, a carattere risarcitorio del danno da mancata entrata per l’amministrazione di appartenenza del compenso indebitamente percepito e che deve essere versato in un apposito fondo vincolato. Dalla natura risarcitoria di tale responsabilità consegue l’applicazione degli ordinari canoni sostanziali e processuali della responsabilità, con rito ordinario, previa notifica a fornire deduzioni di cui all’art. 67 c.g.c.“. La soluzione interpretativa è stata condivisa poi dalla consolidata giurisprudenza contabile (ex aliis, Corte dei conti, Sez. II d’app. 305/2020,129/2020,82/2019, Sez. III d’app. 241/2023,155/2024) e della Suprema Corte che ha affermato che l’obbligo di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato integra “un’ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta, ma annettendo, altresì, valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, attraverso la quale si è inteso tutelare la compatibilità dell’incarico extra-istituzionale in termini di conflitto di interesse e il proficuo svolgimento di quello principale in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico” (Cass. 6473/2021). Sicché, la domanda proposta dal Procuratore regionale trentino, è stata correttamente qualificata dalla prima sentenza quale “domanda diretta a far valere la responsabilità erariale in relazione a una fattispecie tipizzata di responsabilità amministrativa, trovando fondamento nel danno erariale conseguente alla violazione del dovere strumentale di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extra-lavorativi e del conseguente obbligo di riversare alla P.A. i compensi ricevuti, trattandosi di prescrizioni volte a garantire il corretto e proficuo svolgimento delle mansioni attraverso il previo controllo dell’Amministrazione sulla possibilità del dipendente di impegnarsi in un’ulteriore attività senza pregiudizio per i compiti d’istituto, essendo stati i compensi dedotti a titolo di risarcimento del danno, forfetizzato ex lege, conseguente alla violazione degli obblighi gravanti sul pubblico impiego” (Cass. 23240/2022). Del resto, sull’art. 53, co. 7, cit. D.Lgs. n. 165 del 2001 sono già state sollevate questioni di legittimità costituzionale dichiarate inammissibili dalla Consulta (ordd. 41 e 90/2015), costituendo detta norma un mero corollario del principio di esclusività della prestazione del pubblico impiegato, consacrato nell’art. 98 della Carta. In sostanza, in ragione del rapporto di esclusività le energie lavorative devono essere impiegate esclusivamente al servizio dell’Amministrazione di appartenenza e l’illegittima destinazione delle stesse importa quale conseguenza tipizzata dal legislatore l’attribuzione al datore di lavoro pubblico dei proventi derivanti dall’illegittima destinazione, in attività extra-lavorative incompatibili o non autorizzate, delle energie lavorative. Dappoi, non vale ad escludere la situazione di incompatibilità di un pubblico dipendente, che svolga attività non autorizzata o non autorizzabile, la circostanza che questi esegua regolarmente il proprio lavoro, poiché le norme sulle incompatibilità mirano proprio a salvaguardare le energie lavorative del medesimo dipendente, ai fini di un migliore rendimento nei confronti della P.A. datrice di lavoro. (Cass. 22188/2021,31277/2019). Da ultimo, non riesce neppure ipotizzare una violazione dei principi di ragionevolezza, di uguaglianza e di proporzionalità in conseguenza dell’applicazione dei commi 7 e 7-bis, art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001 cit. e, quindi, delle conseguenze in caso di attività svolta in assenza dei presupposti in detti commi previsti, atteso che l’obbligo di riversamento è stabilito in egual misura, rispetto a quanto percepito per incarichi retribuiti non autorizzati (o non autorizzabili), nei confronti dell’intero pubblico impiego.

Nel merito l’appello (3 e 6 motivo di impugnazione per come articolato) è parzialmente fondato in ordine al quantum da ristorare.

Preventivamente, il Collegio è chiamato a ricostruire il quadro normativo di riferimento, valido per ambedue le poste di (presunto) nocumento. L’art. 60 del D.P.R. n. 3 del 1957, tuttora vigente, dispone che “L’impiegato non può esercitare il commercio il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”. Con specifico riferimento ai professori e ai ricercatori universitari, il successivo D.P.R. n. 382 dell’11 luglio 1980, sul riordinamento della docenza universitaria, all’art. 11, per quanto qui di rilievo, prevede che “L’impegno dei professori ordinari è a tempo pieno o a tempo definito. Ciascun professore può optare tra il regime a tempo pieno e il regime a tempo definito (…) Il regime a tempo pieno: a) è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito e con l’esercizio del commercio e dell’industria; sono fatte salve le perizie giudiziarie e la partecipazione a organi di consulenza tecnicoscientifica dello Stato, degli enti territoriali e degli enti di ricerca, nonché le attività, comunque svolte, per conto di amministrazioni dello Stato, enti pubblici e organismi a prevalente partecipazione statale purché prestate in quanto esperti nel proprio campo disciplinare e compatibilmente con l’assolvimento dei propri compiti istituzionali; b) è compatibile con lo svolgimento di attività scientifiche e pubblicistiche, espletate al di fuori di compiti istituzionali, nonché con lo svolgimento di attività didattiche, comprese quelle di partecipazione a corsi di aggiornamento professionale, di istruzione permanente e ricorrente svolte in concorso con enti pubblici, purché tali attività non corrispondano ad alcun esercizio professionale (…)”(co. 5). La ratio del divieto in esame si rinviene nel principio costituzionale di cui all’art. 98 della Carta fondamentale, secondo cui “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, che introduce il vincolo inderogabile di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore di lavoro pubblico, con l’intento di preservare le energie del prestatore di lavoro e di tutelare il buon andamento della P.A., che potrebbe subire conseguenze negative, anche in termini di conflitto di interessi, dall’espletamento di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto. La violazione del divieto genera una situazione di illiceità atta a compromettere la prosecuzione del rapporto d’impiego; difatti, l’art. 63 del T.U. 3/1957 già prevedeva la decadenza dall’ufficio, laddove il dipendente non avesse posto termine alla prestazione incompatibile, nel termine previsto dall’atto di diffida dell’amministrazione di appartenenza (Corte dei conti Sez. II d’app. 241/2023, Sez. III n. 447/2023). La decadenza è prevista, altresì, all’art. 15 del D.P.R. n. 382 del 1980, secondo il quale: “Il professore ordinario che violi le norme sulle incompatibilità è diffidato dal rettore a cessare dalla situazione di incompatibilità Decorsi 15 giorni dalla diffida senza che l’incompatibilità sia cessata, il professore decade dall’ufficio”.

Il sistema è rimasto inalterato anche nelle successive riforme del pubblico impiego, tant’è che l’art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001 ha sancito, definitivamente, l’estensione a tutti i dipendenti pubblici del divieto di svolgere incarichi retribuiti, che non siano conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. L’inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, determina in capo al dipendente l’obbligo di natura patrimoniale del riversamento alla propria amministrazione dei compensi percepiti aliunde, teso a disincentivare le descritte condotte illecite. Invero, l’art. 53, al co. 1 lascia impregiudicata, per tutti i dipendenti pubblici, la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e ss. del D.P.R. n. 3 del 1957, che vieta agli stessi, in modo assoluto, di esercitare il commercio, l’industria, attività imprenditoriali (anche agricole) e qualsiasi professione o di assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite per fini di lucro. In sostanza, il pubblico dipendente è obbligato a prestare il proprio lavoro in maniera esclusiva nei confronti dell’ Amministrazione da cui dipende. A questo principio di carattere generale fanno eccezione alcuni regimi speciali (si pensi alla possibilità per i docenti a tempo definito di esercitare la libera professione) e il personale in part-time con prestazione lavorativa non superiore al 50%. A tal riguardo, il co. 6 dell’art. 53 indica espressamente delle attività extra-istituzionali liberamente consentite (infra descritte e a cui si rinvia) afferenti, ad esempio, ad attività scientifiche, di utilizzazione economica, da parte dell’autore, di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali, che non necessitano di comunicazione all’Amministrazione di appartenenza, anche se in alcune circostanze quest’ultima può pretendere che il dipendente sia preventivamente autorizzato a utilizzare la qualifica di appartenenza ed esigere la precisazione che quanto scritto non rappresenti la linea di azione dell’ente di titolarità. Resta, fermo, tuttavia, il divieto per il dipendente di svolgere attività che possano risultare in concorrenza o in contrasto con l’amministrazione di appartenenza. La norma precisa, quindi, che gli incarichi retribuiti, ai quali si applicano i commi da 7 a 13 dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, “sono tutti ali incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto sotto qualsiasi forma, un compenso” (co. 6 prima parte dell’art. 53); inoltre, solo ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento, ai docenti universitari a tempo definito e alle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è permesso da disposizioni speciali di riferimento è consentito lo svolgimento di attività libero-professionali (per i docenti a tempo definito vedi l’art. 11 del D.P.R. n. 382 del 1980). Infine, per i docenti a tempo pieno è possibile l’inclusione nell’elenco degli Albi speciali degli Avvocati (art. 11, co. 6 del D.P.R. n. 382 del 1980). Gli atti e provvedimenti amministrativi comunque denominati, regolamentari e amministrativi, adottati dalle amministrazioni di appartenenza dei dipendenti pubblici in violazione del co. 6 dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, sono per legge da considerare nulli e, perciò, non possono apportare deroghe, in specie con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, al sistema delineato dall’art. 53, atteso che il rinvio del co. 7 dello stesso, per detta categoria, agli statuti o ai regolamenti degli atenei, integra non una sorta di delegificazione della materia quanto piuttosto una tipica ipotesi di integrazione attuativa della fonte normativa primaria. La fonte regolamentare interna, infatti, è delegata a disciplinare soltanto i criteri e le procedure “per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto”. Ciò stante, la disciplina primaria dispone al co. 7 dell’art. 53 D.Lgs. n. 165 del 2001 cit., con riguardo all’obbligo di riversamento, che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti. che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto d’interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti nel presente decreto. In caso di inosservanza del divieto (…) il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato a incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”. Infine, il co. 7 bis dell’art. 53 prevede che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”. Con specifico riguardo ai professori e ricercatori universitari, la successiva L. n. 240 del 30 dicembre 2010, recante norme in materia di riorganizzazione delle università, ha distinto, rispettivamente, tra attività totalmente incompatibili, attività liberamente esercitabili e attività consentite previa autorizzazione del rettore. Più precisamente, all’art.6 ha operato la seguente distinzione: al co. 1 ha confermato che “Il regime di impegno dei professori e dei ricercatori è a tempo pieno o a tempo definito”; al co. 9 ha parzialmente liberalizzato il settore in relazione alla possibile costituzione di società con caratteristiche di spin off o di start up universitarie, nelle quali i docenti assumano anche responsabilità formali, ribadendo, tuttavia, il regime di incompatibilità assoluta o relativa. Difatti, ha previsto che a) “La posizione di professore e ricercatore è incompatibile con l’esercizio del commercio e dell’industria fatta salva la possibilità di costituire società con caratteristiche di spin off o di start up universitari (…)”; ha ribadito, sempre al co.9, che b) “L’esercizio di attività libero-professionale è incompatibile con il regime del tempo pieno”, fermo restando le ipotesi in cui il docente è collocato in aspettativa obbligatoria (artt. 13,14 e 15 del D.P.R. n. 382 del 1980); al co. 12 ha confermato per c) “i professori e i ricercatori a tempo definito” la possibilità di “svolgere attività libero-professionali e di lavoro autonomo anche continuative, purché non determinino situazioni di conflitto di interesse rispetto all’ateneo di appartenenza (…)”; al co. 10 ha poi previsto che d) “I professori e i ricercatori a tempo pieno, fatto salvo il rispetto dei loro obblighi istituzionali, possono svolgere liberamente, anche con retribuzione, attività di valutazione e di referaggio, lezioni e seminari di carattere occasionale, attività di collaborazione scientifica e di consulenza, attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale, nonché attività pubblicistiche ed editoriali” (co. 10, prima parte); inoltre, e) possono svolgere previa autorizzazione del rettore: “funzioni di didattica e di ricerca, nonché compiti istituzionali e gestionali senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro, purché non si determinino situazioni di conflitto di interesse con l’università di appartenenza, a condizione comunque che l’attività non rappresenti detrimento delle attività didattiche, scientifiche e gestionali loro affidate dall’università di appartenenza” (art.6, co. 10, secondo periodo). Su tale normativa il legislatore è intervenuto recentemente con il D.L. n. 44 del 22 aprile 2023, convertito, con modificazioni dalla L. n. 74 del 21 giugno 2023, incidendo sulla disciplina degli incarichi esterni dei professori e ricercatori in regime di tempo pieno. In particolare, con il co. 2-bis dell’art.9, inserito dalla legge di conversione 74/2023, è stato aggiunto, all’art. 6 della L. n. 240 del 2010, il co. 10-bis, che prevede la possibilità “per i professori e i ricercatori a tempo pieno” di svolgere, “previa autorizzazione del rettore, incarichi senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici e privati anche a scopo di lucro, purché siano svolti in regime di indipendenza” e purché sussistano talune specifiche condizioni negative, ossia assenza di esercizio di poteri esecutivi individuali, di situazioni di conflitto di interesse con l’università di appartenenza e di detrimento per le attività didattiche, scientifiche e gestionali dalla stessa affidate. Con il successivo co. 2-ter, inserito anche questo dalla legge di conversione, è stata formulata una disposizione di interpretazione autentica avente a oggetto il co. 10 dell’art. 6 della L. n. 240 del 2010, a norma della quale “Il primo periodo del co. 10 dell’art.6 della L. n. 240 del 2010, con specifico riferimento alle attività di consulenza, si interpreta nel senso che ai professori e ai ricercatori a tempo pieno è consentito lo svolgimento di attività extraistituzionali realizzate in favore di privati o enti pubblici ovvero per motivi di giustizia, purché prestate senza vincolo di subordinazione e in mancanza di un’organizzazione di mezzi e di persone preordinata al loro svolgimento, fermo restando quanto previsto dall’art. 23-ter, del D.L. n. 201 del 2011 (…)”.

Alla luce del delineato quadro normativo va dunque esaminato il merito della causa. Infatti, le condotte foriere di danno erariale devono valutarsi singolarmente, in ragione del regime giuridico di riferimento per come diacronicamente sviluppatosi, nel cui alveo il Collegio, ai fini dell’imputazione del danno erariale conseguente all’omesso riversamento delle somme incamerate dal Prof. L. per l’espletamento di attività libero-professionali non previamente segnalate all’Ateneo trentino, è tenuto a verificare gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa, in special guisa con riferimento alla corretta qualificazione dell’attività extra-istituzionale svolta dall’appellante, all’elemento soggettivo e alla omissione del riversamento delle somme percepite, atteso che l’art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001 non prevede automatismi applicativi, non ricorrendo una responsabilità formale.

In specie, il Prof. L.N.D., legato da rapporto di servizio accademico con l’Università di Trento dal 9 novembre 1994 come ricercatore, è stato inquadrato come “professore aggregato”, qualifica assegnata agli ex ricercatori a tempo indeterminato che abbiano svolto almeno tre anni di insegnamento ai sensi dell’art. 6, co. 4 della L. n. 240 del 2010 (c.d. legge “Gelmini”). Per quanto qui d’interesse, dal 1 novembre 2008 e sino a dicembre 2018 ha optato per il regime di impegno a tempo pieno. Gli atti di causa danno conto che nel periodo in esame il Prof. L. è stato impegnato, nella contestualità dell’attività accademica, nella conduzione della ditta individuale “L.N.D.”, cessata il 31 dicembre 2018, peraltro dopo l’esito di un primo procedimento disciplinare instaurato dall’Università; nella società R.E.O. S.r.l. con sede a M., specializzata nell’attività di compravendita di beni immobili effettuata su beni propri, nella qualità di socio e rappresentante legale; come liquidatore, dal 2008, della società F.T. S.r.l., con sede a V. (M.), anche questa specializzata nella compravendita di beni immobili effettuata su beni propri; nella società C.S. S.p.A., già in concordato e in fallimento, con sede a C. (B.), con attività di estrazione di ghiaia, sabbia, argille e caolino, di cui era amministratore unico. Dappoi, dalle informazioni recuperate nell’Anagrafe tributaria e dall’applicativo “Spesometro” sono emersi compensi, anche elevati, percepiti dal Prof. L., in particolare dal 2012 al 2018, per l’espletamento di attività libero-professionale non portata a conoscenza dell’Ateneo. In sostanza, l’informativa della Polizia giudiziaria, ma anche il libello introduttivo (qui, per tale aspetto, da intendersi integralmente trascritto e al quale si rinvia per economia processuale) elenca i compensi percepiti dal Prof. L. per attività extra-istituzionali svolte dal 2012 al 2018, unitamente alla descrizione delle prestazioni professionali rese dal medesimo a società e a privati, evidenziando i casi i cui si è trattato di attività libero professionale in materia giuridica (societaria, fallimentare, successoria) e di patrocinio in giudizi civili e fallimentari. Invero, dai riscontri tra le visure in Anagrafe Tributaria, le verifiche effettuate dalla Polizia tributaria e i dati forniti direttamente dalle società che si sono avvalse dell’attività professionale del L., emerge il sistematico esercizio, da parte del medesimo, di attività libero – professionali per il periodo in questione, incompatibile in assoluto con il regime di impegno a tempo pieno prescelto, per le quali ha percepito compensi per complessivi Euro 446.057.83 di cui ha omesso il riversamento all’amministrazione di appartenenza, infedelmente contravvenendo agli obblighi sul medesimo incombenti in ragione di quanto previsto ai commi 7 e 7 bis dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e al comma 9 dell’art. 6 della L. n. 240 del 2010. Difatti, l’appellante per svolgere detta attività si avvaleva di un’organizzazione di mezzi e di persone preordinata al suo svolgimento, in assenza di qualsivoglia preventiva richiesta all’Amministrazione di appartenenza, alla quale competeva stabilire se si trattasse di attività libero-professionale del tutto preclusa ai docenti in regime di impegno a tempo pieno o di attività di consulenza svolta per motivi di giustizia, realizzata in favore di privati o di enti pubblici, senza vincolo di subordinazione e in mancanza di un’organizzazione di mezzi e di persone preordinata al suo svolgimento. A tale stregua, l’interpretazione autentica del primo periodo del co. 10, dell’art. 6 della L. n. 240 del 2010, resa dal legislatore con il co. 2 ter dell’art. 9 della L. n. 74 del 2023, con riferimento alle attività di consulenza anche con retribuzione liberalizzate, ha effetto retroattivo, dato che il significato stabilito dal legislatore riguarda disposizioni già in vigore. Sicché, dal momento dell’entrata in vigore della legge di interpretazione autentica, l’interprete (il giudice, qualsiasi interprete) deve applicare la legge secondo il senso prescritto dal legislatore. In specie, fermo il tenore testuale della disposizione esposta, l’interpretazione autentica del legislatore ne ha chiarito il contenuto scegliendo una sola fra le varie interpretazioni ragionevolmente possibili (Corte cost. 233/1988,155 e 380/1990). L’interpretazione giurisprudenziale non può, infatti, che limitarsi a portare alla luce un significato precettivo (un comando, un divieto, un permesso) che è già interamente contenuto nel significante (l’insieme delle parole che compongono una disposizione) e che il giudice deve solo scoprire (Cass. S.U. 24413/2021,18722/2024), Di talché, la norma vigente, per effetto della sopravvenienza legislativa di interpretazione autentica, che è il risultato della saldatura tra norma interpretata (il comma 10 dell’art. 6 della L. n. 240 del 2010) e norma interpretativa (il co. 2 ter dell’art. 9 della L. n. 74 del 2023), esprime quale contenuto significativo la possibilità, per il professore universitario a tempo pieno, di svolgere liberamente, senza necessità di previa autorizzazione, incarichi esterni di consulenza. Perciò, secondo l’assunto dell’appellante, l’attività libero-professionale svolta rientrerebbe nel novero delle consulenze e, come tale, sarebbe stata liberamente esercitatile. A tal riguardo, al fine di enucleare il concetto di attività consulenziale liberamente esercitatile, possono ricavarsi utili elementi di valutazione dall’atto di indirizzo del MIUR n. 39 del 14 maggio 2018, avente natura evidentemente ricognitiva della normativa primaria di riferimento che, sebbene non vincolante, individua condivisibili linee interpretative per la soluzione di casi concreti, ribadite anche nella norma di interpretazione autentica di cui all’art.9, co. 2-ter della L. n. 74 del 2023. Secondo tale atto di indirizzo, l’attività consulenziale riconducibile al regime di cui all’art. 6, co. 10 della L. n. 240 del 2010 deve essere caratterizzata: 1) dall’occasionalità e dall’essere prestata in assenza di un’organizzazione di mezzi e persone; 2) dal compimento di attività non riconducibili alle figure professionali di riferimento; 3) dal fatto di essere resa in qualità di esperto della materia; 4) dal fatto di concludersi, di norma, con un parere, una relazione o uno studio (cfr. T.A.R. Napoli n. 1243/2023, Corte dei conti Sez. III d’app. 155/2024). Conseguentemente, come evidenziato dalla giurisprudenza contabile (Corte dei conti Sez. II d’app. 186/2023, Sez. I centr. 15/2023), la frequenza e la consistenza degli incarichi di consulenza risulteranno di rilievo, “attesa la loro idoneità ad assurgere a indici sintomatici dello sconfinamento, in concreto, della consulenza nell’attività libero-professionale, tutt’ora assolutamente incompatibile”. La norma di interpretazione autentica, in linea anche con i principi enucleati dalla giurisprudenza contabile, ha chiarito che ai professori e ai ricercatori a tempo pieno è consentito lo svolgimento di attività extra-istituzionali realizzate in favore di privati o enti pubblici ovvero per motivi di giustizia, purché prestate senza vincolo di subordinazione e in mancanza di un’organizzazione di mezzi e di persone preordinata al loro svolgimento. Perciò, “quanto alle modalità esecutive, la mera consulenza per un verso deve distinguersi dal lavoro dipendente, atteso che l’esclusione del vincolo di subordinazione implica l’impossibilità di prestare l’attività nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente diverso da quello intrattenuto con l’amministrazione di appartenenza con vincolo di esclusiva; per altro verso, deve distinguersi dall’appalto di servizi o anche dall’attività libero-professionale, siccome caratterizzati dall’organizzazione di mezzi e di persone, funzionale all’attività resa” (Corte dei conti, Sez. I d’app. 181/2019, Sez. III centr. 155/2024). Sicché, in ragione del diritto vivente formatosi, nell’ambito della giurisprudenza contabile (in special modo d’appello), sulla norma di interpretazione autentica, la “consulenza, per essere liberamente esercitabile, dovrà avere carattere scientifico: il contenuto dovrà, cioè, consistere in una prestazione di opera intellettuale, resa da un esperto nel proprio campo disciplinare, dovrà essere svolta in modo non subordinato, ma anche non organizzato e non implicante il compimento di attività tipicamente riconducibili alle figure professionali di riferimento; non dovrà comprendere prestazioni di carattere strumentale o esecutivo; dovrà, di norma, concludersi con un parere, una relazione o uno studio; dovrà essere svolta in modo occasionale, non abituale, né continuativo” (Corte dei conti, Sez. III d’app. 447/2023,155/2024, Sez. II centr. 241/2023, Cass. S.U. 18722/2024). In specie, il L. risulta aver percepito compensi per attività libero-professionali, da definire tali anche quelle consulenziali svolte in forme tipicamente riconducibili all’attività di avvocato, organizzate con mezzi e personale preordinati al loro svolgimento, come alcuni pareri pro-veritate resi nel 2012-2018, correlati alle eventuali azioni legali da intentare per conto di società e di privati-persone fisiche. A tal riguardo, l’odierno appellante ha svolto prestazioni libero-professionali a carattere non occasionale in favore: di 1) P. S.r.l., con fatturazione, in qualità di legale, dell’importo di Euro 7.713,32; 2) I. S.p.a., con fatturazione della somma di Euro 44.752,20, 3) A.A. S.r.l., al quale il Prof. L. ha fatturato l’importo di Euro 17.128,80; 4) F. S.r.l., con fatturazione della somma di Euro 10.000,00; 5) C.C. S.r.l. con fatturazione dell’importo di Euro 5.000,00; 6) S.A.C. somma fatturata dal docente Euro 9.820,16; 7) C.R. S.r.l. importo fatturato Euro 971,12; 8) M. S.r.l. con fatturazione dell’importo di Euro 3.806,40; 9) M.H. S.r.l. importo fatturato Euro 19.032,00; 10) M.G. S.r.l., con fatturazione dell’importo di Euro 14.188,00; 11) T. S.a.s. di G.L.C. con fatturazione della somma di Euro 37.140,68; 12) M. S.r.l. con fatturazione dell’importo di Euro 5.204,03; 13) E. S.r.l. con fatturazione della somma di Euro 46.332,80; 14) M.M. e figli con fatturazione dell’importo di Euro 13.322,40; 15) P. S.r.l. alla quale è stato fatturato l’importo di Euro 7.612,80; 16) N. S.r.l. alla quale è stato fatturata la somma di Euro 11.806,40; 17) T.P. e P.C., ai quali è stato fatturato l’importo di Euro 30.197,44; 18) D.E. di L., alla quale è stato fatturata la somma di Euro 2.156,96; 19) M.R., alla quale è stata fatturata la somma di Euro 25.000,00; 20) R.V., al quale è stato fatturato l’importo di Euro 9.008,48; 21) D.A., al quale è stata fatturato il compenso legale per Euro 12.480,00; 22) L.L., al quale è stata fatturata la somma di Euro 15.846,72,23) M. S.n.c. di F.M.C. dalla quale il Prof. L. risulta aver ricevuto per assistenza legale (come emergente dai bonifici) la somma di Euro 102.536,52. Il Complessivo importo, per compensi per attività di consulenza e assistenza legale percepito dal Prof. L. e non riversato, ammonta a Euro 451.057,83. Tuttavia, al medesimo è stato contestato l’importo di Euro 446.057,83, in quanto nello stesso, per mero refuso non è stata conteggiata la somma di Euro 5.000,00 ricevuta, per assistenza legale in concordato preventivo, dal C.C. S.r.l. il 1 dicembre 2015, con riferimento alla fattura n. (…) del 2 dicembre 2015. Non essendoci impugnativa del Procuratore regionale l’importo complessivo resta quello statuito in sentenza. Quanto, invece, ai bonifici effettuati dalla Società M. S.r.l. in favore del Prof. L. per Euro 102.536,52 complessivi, in questi la prima sentenza ha compreso la somma di Euro 58.560,00 relativa a quelli effettuati da detta società in favore del docente e che quest’ultimo ha ritenuto trattarsi di somme collocate solo temporaneamente sul conto del medesimo, quale deposito fiduciario al dichiarato fine di evitarne il pignoramento da parte dei creditori della società. La prima sentenza ha ritenuto, tuttavia, non supportato da elementi di prova quanto prospettato, “atteso che lo stesso difensore in udienza ha confermato di non essere in possesso di un documento attestante il riversamento di tali somme dal L. alla società M.”. Nel gravame, l’appellante rileva l’erronea inclusione dell’importo di Euro 58.560,00, versato al medesimo dalla società M. S.n.c. di F.M.C.„ poi fallita, mediante quattro distinti versamenti di Euro 14.640,00 cadauno, effettuati il 25 maggio, il 3 giugno, il 4 agosto e il 7 agosto 2017 (in realtà 3 marzo, 25 maggio, 4 e 7 agosto 2017). A tal riguardo, il suddetto ha rilevato (richiamando il documento n. 3, tuttavia non corrispondente al contenuto trascritto) che, “(…) come dichiarato dalla stessa Curatela M. S.n.c. all’Autorità giudiziaria di Bolzano (…) detti canoni di locazione erano stati restituiti tra il dicembre 2017 e aprile 2018 (…)”; ovvio corollario di detto adempimento “è stata la rinuncia a qualsiasi pretesa da parte del Fallimento nei confronti dell’appellante, culminata con il deposito della rinuncia alla costituzione di parte civile nel procedimento penale, pendente innanzi al Tribunale di Bolzano”, avente a oggetto proprio la presunta sottrazione delle stesse somme considerate dalla Procura regionale e dalla sentenza come compensi professionali per attività extra-istituzionali non autorizzate. Osserva il Collegio non essere persuasive le asserzioni induttive dell’appellante sia perché non è stata prodotta in atti alcuna prova, alcun documento attestante il riversamento di tali somme dal L. alla Società M. (neppure in appello), sia perché nelle causali dei bonifici è precisato che si tratta di compensi “per assistenza legale procedura concorsuale M. S.r.l.”, potendosi così dedure che anche tali importi siano stati incassati dal Prof. L. (e non restituiti) per attività professionale, sebbene non fatturata. Ciò non è, inoltre, precluso dall’essere in corso di accertamento, in sede penale, la natura distrattiva di tali somme, che hanno costituito, presumibilmente, anche il profitto del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, ascritto a titolo di concorso anche al Prof L.. Pertanto, dall’ampio materiale probatorio agli atti, in particolar modo dal contenuto delle diverse fatture emesse dal Prof. L., dalle note descrittive dei bonifici con indicazione dei committenti, delle prestazioni svolte e dei compensi percepiti,, emerge inconfutabilmente che l’odierno appellante dal 2012 al 2018 ha esercitato attività libero-professionale (quella di avvocato), fornendo il proprio patrocinio in giudizi civili, penali e fallimentari e specifica attività consulenziale in materia societaria, fallimentare, successoria sempre nell’esercizio della professione di avvocato e non della figura professionale del docente di diritto romano, con organizzazione di mezzi e di personale preordinata al suo svolgimento, circostanze che escludono, anche in ragione del carattere non tipicamente scientifico, la configurazione della stessa come attività di consulenza. Perciò, l’appellante (docente di diritto romano e di diritti delle antichità) ha svolto in modo continuativo, stabile e ininterrotto, quindi non occasionale, attività libero-professionale del tutto incompatibile con la scelta del regime di impegno a tempo pieno (così artt. 60, del T.U. n. 3/1957,11 del D.P.R. n. 382 del 1980,6, co. 9, secondo periodo della L. n. 240 del 2010), per la quale ha ricevuto significativi compensi che ha omesso di riversare all’amministrazione di appartenenza, che in ogni caso doveva essere informata dal proprio dipendente per le valutazioni di competenza, anche al fine di stabilire se si trattava di attività libero professionale oppure di incarichi retribuiti di natura occasionale ovvero di attività di consulenza. In sostanza, che si trattasse di vere e proprie attività professionali è comprovato dalle fatture emesse dal Prof. L. verso i propri clienti (società e persone fisiche). A tal riguardo, e a solo titolo esemplificativo, il Collegio ha riscontrato fatture a carico della società I. S.p.a., aventi a oggetto, in qualità di legale, “prestazioni di consulenza in materia societaria, pareri pro-veritate e studio della questione giuridica, gestione cause civili e penali”; le fatture emesse a carico dell’A.A. S.r.l. aventi a oggetto la “gestione di cause civili e penali”; le fatture a carico della F. S.r.l., aventi a oggetto “la valutazione per l’avvio di una causa nei confronti della società T.”; a quelle verso lo S.A., nei confronti del quale il Prof. L. forniva “attività professionale legale vostri clienti P. G + 1”; alla M.G. S.r.l., nei confronti della quale “l’avvocato L. dava assistenza in Tribunale”; alla M. S.n.c. di F.M.C. verso la quale il professionista aveva svolto l’attività di advisor finanziario nella procedura di concordato preventivo. Inoltre, dagli accertamenti effettuati dalla Guardia di finanza, è emerso che anche i committenti, interpellati in merito, hanno affermato di non essere al corrente che il L. fosse un docente universitario “essendosi rivolti a lui solo in qualità di avvocato libero professionista”. Sicché, risulta del tutto comprovata l’antigiuridicità della condotta nell’evidente struttura bifasica dell’illecito: difatti, da una parte risulta accertato che il Prof. L. ha esercitato attività libero-professionale in assenza di qualsivoglia preventiva autorizzazione, perciò in violazione, a monte, del divieto di assumere incarichi e/o di svolgere attività libero professionale, sanzionata con l’obbligo di versamento dei compensi relativi alle attività non autorizzate o non autorizzabili nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente; a valle, il danno si concretizza e diviene attuale con l’inottemperanza del ridetto obbligo di versamento, sancito dall’art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (Corte dei conti, Sez. III d’app. n. 447/2023, Sez. Il 241/2023). Di talché, risulta acclarato il complessivo omesso riversamento della somma di Euro 446.057,83, quali compensi percepiti dal Prof. L. per lo svolgimento di attività libero-professionale, in favore di società e di persone fisiche, dal 2012 al 2018, in assenza di qualsivoglia preventiva autorizzazione, venendosi così a trovare in una situazione di incompatibilità assoluta, sulla quale non spiega influenza, in quanto allo stato non decisa in termini di statuizione nomofilattica, la questione di massima sollevata dalla Procura generale con atto di deferimento del 3 luglio 2024. Invero, la Procura generale, in epoca successiva alla statuizione assunta dal Collegio (e di cui alla camera di consiglio del 15 maggio 2024), ha formulato il seguente quesito di massima: “se l’obbligo del dipendente pubblico di riversare i compensi percepiti per gli incarichi extra-istituzionali ex art. 53, commi 7 e 7 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001 si riferisca sia alle situazioni di incompatibilità assoluta (incarichi in radice non autorizzabili) che alle situazioni di incompatibilità relativa (incarichi in astratto autorizzabili, ma nel concreto svolti in assenza di autorizzazione), ovvero sia limitato a queste ultime”. In sostanza, almeno per lo svolgimento dell’attività libero-professionale, ora fortemente diluibile, in base al co. 2 -ter dell’art. 9 della L. n. 74 del 2023, con le attività di consulenza, il Collegio ravvisa che, quand’anche l’art. 53, commi 7 e 7 bis sia norma ritagliata sulla sola ipotesi di incarichi autorizzabili ma in concreto non autorizzati, questa sarebbe idonea a ricomprendere anche gli incarichi per i quali la preclusione allo svolgimento dell’attività non avrebbe in ogni caso potuto essere rimossa attraverso il provvedimento autorizzativo perché, in astratto, non autorizzabili (Corte dei conti, Sez. II d’app. n. 168/2022, 241/2023). Inoltre, il complessivo danno da ascrivere all’appellante è da determinare, come statuito dal giudice della nomofilachia contabile, al lordo delle imposte, tasse e contributi previdenziali, senza che possano valutarsi vantaggi per l’Amministrazione. In ordine alla quantificazione del danno, le Sezioni riunite nella sent. n. 13/2021/QM, con motivazione che il Collegio condivide e che si intende integralmente richiamata ai sensi dell’art. 17, n.1, delle norme di attuazione del c.g.c., hanno affermato il principio che “in ipotesi di danno erariale conseguente all’omesso versamento dei compensi di cui all’art. 53, co. 7 e ss., del D.Lgs. n. 165 del 2001 da parte di pubblici dipendenti (…), la quantificazione è da effettuare al lordo delle ritenute fiscali IRPEF operata a titolo di acconto sugli importi dovuti o delle maggiori somme eventualmente pagate per la medesima causale sul reddito imponibile”.

Relativamente all’elemento soggettivo, la gravata sentenza, in ragione della descritta antigiuridicità del comportamento posto in essere dal Prof. L., ha qualificato l’elemento soggettivo in termini di dolo, “tenuto conto della volontà e della piena consapevolezza della condotta tenuta concretizzatasi nell’inosservanza degli obblighi di servizio connessi all’esclusività del rapporto di pubblico impiego in regime di tempo pieno”. Di contro, l’appellante deduce che con il decreto semplificazioni il legislatore è intervenuto su una delle componenti strutturali dell’illecito amministrativo, ossia sull’elemento soggettivo. Nello specifico, l’art. 21, co. 1 del D.L. n. 76 del 2020 ha integrato l’art. 1, co. 1 della L. n. 20 del 1994 prevedendo che la “prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Perciò, in esito alla novella in esame, “viene codificato l’indirizzo contabile minoritario per cui il dolo c.d. erariale deve intendersi sostanziato dalla volontà dell’evento dannoso, che si accompagni alla volontarietà della condotta antidoverosa”. Nel caso di specie, “il prof. L. ha sì svolto attività di consulenza legale pur essendo dipendente dell’Ateneo trentino a tempo pieno, ma non ha arrecato alcun danno al medesimo, in quanto ha sempre adempiuto in modo puntuale ai propri compiti di docente”. La decisione trentina ha qualificato, con argomentazioni pienamente condivisibili da questo Collegio, l’elemento soggettivo in capo al Prof. L. come contraddistinto dal dolo poiché dall’insieme degli atti versati in giudizio è chiaramente emersa oltre che la prova del dolo, quale coscienza e volontà del comportamento contra ius, integrata dalla lesione del divieto di assumere incarichi e/o di svolgere attività libero-professionale, sanzionata con l’obbligo di versamento dei compensi relativi alle attività non autorizzate o non autorizzabili nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente, anche la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso, l’inottemperanza al ridetto obbligo di versamento, sancito dall’art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001, quanto meno nella forma del dolo eventuale, ossia della consapevole e voluta accettazione del rischio che dal comportamento illecito posto in essere sarebbe potuto derivare un nocumento economico per l’Amministrazione (ossia una mancata entrata). Il Collegio è perciò persuaso che le condotte realizzate dal docente siano caratterizzate dalla piena consapevolezza della violazione delle norme sulle incompatibilità e delle conseguenze dannose che dalla sistematica e reiterata violazione ne sono derivate. Un elemento indiziante di questo è rinvenibile nel sistematico svolgimento di attività non autorizzate (libero -professionali) in un consistente arco temporale. La coscienza e volontà della dannosità della condotta ben possono essere provate, infatti, attraverso elementi presuntivi, costituiti dal carattere continuativo dell’attività di patrocinio/ consulenza finalizzata allo stesso e dalla rilevanza dei compensi ricevuti nell’arco di 7 anni, con assunzione del relativo rischio e piena accettazione dello stesso con riguardo all’illecita sottrazione dei proventi all’amministrazione di provenienza; dal principio per cui “ignorantia legis non excusat”, atteso che non può ritenersi scriminata una condotta violativa di puntuali e inequivoci divieti di legge, protratta e reiterata nel tempo, per effetto di un’eventuale non conoscenza delle norme vigenti; il docente “in ragione dell’elevato livello culturale e della competenza giuridica, era agevolmente in grado di comprendere non solo il contesto normativo, ma anche l’assoluta incompatibilità delle attività imprenditoriali, commerciali e professionali svolte in costanza di rapporto di impiego a tempo pieno” (così sentenza impugnata e anche Corte conti, Sez. II d’app. 165/2021). Inoltre, il dolo è da ritenere sussistente tutte le volte in cui il dipendente, una volta scoperta l’illiceità del proprio comportamento, cosa all’evidenza nota al Prof. L. sin dal 2012, continui a sottrarsi, in piena scienza e coscienza, all’obbligo di informativa e di riversamento dei compensi ricevuti e indebitamente trattenuti, con l’effetto di provocare volontariamente la perdita patrimoniale per cui è causa, con frustrazione delle finalità tutelate dall’art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001, posto che i compensi devono essere versati nel conto dell’entrata del bilancio dell’ente di appartenenza per essere destinati a incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti (Corte dei conti Sez. II d’app.308/2021, Cass. 38343/2014). Detta considerazione rende perciò irrilevante la questione dell’applicabilità, ratione temporis, alla fattispecie all’esame dell’art. 1, co. 1 della L. n. 20 del 1994, come novellato dall’art. 21 del D.L. n. 76 del 2020, poiché gli elementi prima trascritti palesano che il suindicato appellante ha comunque agito con condotte che ne integrano la nozione. Conclusivamente, con riguardo alla prima posta di danno, quantificata nella misura di Euro 446.057,83, l’appello è da disattendere e la prima sentenza da confermare, anche in ordine agli accessori del credito.

6 Relativamente, invece, alla seconda posta di presunto danno, il Collegio, diversamente da quanto affermato in sentenza, ne ritiene la non debitabilità al L. per non avere il Procuratore regionale provato il detrimento della prestazione universitaria in conseguenza dell’attività libero-professionale contestata. Detta posta, riconosciuta in sentenza nella misura di Euro 103.369,07, concerne le differenze stipendiali percepite dal docente nel periodo 2012-2018 per attività a tempo pieno, incompatibile con il contemporaneo svolgimento di attività libero-professionale, rispetto alla prestazione a tempo definito, compatibile invece con l’attività di avvocato, originariamente determinate in Euro 58.347,03, al netto del periodo di interdizione dai pubblici uffici. Infatti, la prima sentenza ha accolto la richiesta dell’attore, formulata in udienza, di rideterminazione di tale posta di danno considerando i differenziali retributivi per l’intero periodo 2012-2018, senza escludere, come originariamente fatto in citazione, il periodo di interdizione dai pubblici uffici, per il quale il Requirente aveva formulato apposita richiesta di danno. In sostanza, la prima sentenza ha respinto la domanda finalizzata al risarcimento del danno da differenziale retributivo, tra regime a tempo pieno e regime a tempo definito, percepito dal Prof. L. durante il periodo di interdizione indicato dalla Procura regionale, poiché con provvedimento del Rettore dell’Università di Trento del 15 ottobre 2019, previa acquisizione del parere dell’Avvocatura distrettuale dello Stato, è stata applicata al Prof. L. l’interdizione dai pubblici uffici per il periodo di 2 anni, scontata dal 9 marzo 2020 all’8 marzo 2022, mentre è stata eliminata dal precedente provvedimento disciplinare, comminato con decreto rettorale n. 284 del 2 maggio 2019, la corresponsione del 50% della retribuzione fissa mensile, con effetto retroattivo e quindi con recupero delle somme già erogate. Di talché, appare corretto e condivisibile l’importo da differenziale retributivo quantificato in Euro 103.369,07, in ogni caso compreso nel quantum dell’originaria ipotesi accusatoria e che esclude qualsivoglia vulnus dei diritti della difesa. Ciò premesso, il Collegio rileva che l’esercizio di attività non autorizzate o non autorizzatili può generare ipotesi di concorso formale di illeciti erariali (Corte dei conti, SS.RR. n, 26/2019/QM): da un lato ricorre, invero, l’illecito di cui all’art. 53, co. 7 del D.Lgs. n. 165 del 2001, integrato dall’omesso riversamento dei compensi percepiti per le attività extra-istituzionali incompatibili o non autorizzate; dall’altro lato, la sistematica e concreta sottrazione di energie alla prestazione di lavoro presso l’amministrazione di appartenenza appare idonea, in presenza di taluni specifici requisiti, a determinare la grave compromissione del rapporto sinallagmatico, circostanze che in ogni caso deve provare l’Attore pubblico. In altri termini, ferma la correlazione e l’eventuale interdipendenza tra le due fattispecie, stante la parziale identità del fatto generatore, si impone sempre una loro autonoma valutazione ai fini dell’accertamento delle rispettive responsabilità amministrativo-contabili e dei relativi elementi costitutivi (Corte dei conti, Sez. II d’app. n. 536/2018, n. 147/2022). In ipotesi, sia l’atto introduttivo che la sentenza di prime cure, che ne ha accolto le richieste, non provano l’esistenza in quanto tale di detto danno. Difatti, quand’anche lo svolgimento di attività extra-lavorative possa alterare il rapporto tra Ateneo e docente in chiave di adempimento della prestazione da questi dovuta, non vi sono agli atti elementi che diano prova certa di una prestazione accademica in regime di impegno a tempo pieno del Prof. L. inferiore alle attese nel periodo 2012-2018, né risulta comprovata una non diligente partecipazione dello stesso all’attività collegiale del Dipartimento al quale apparteneva. Inoltre, un tale detrimento non può conseguire in automatico allo svolgimento dell’attività libero-professionale da parte del docente, come fatto intendere in sentenza (pag. 45), non essendo configurabile per ciò solo in re ipsa la minore resa del servizio (Corte dei conti, Sez. III d’app. 447/2023). Detto altrimenti, il danno erariale non può farsi derivare, sic et simpliciter, dalla violazione di una norma, ma occorre verificare se da detta violazione sia derivato, in concreto, un nocumento al pubblico erario, non potendo l’accertamento arrestarsi alla constatazione della violazione dell’obbligo di esclusività per ritenere integrata una responsabilità amministrativa del dipendente, questo anche perché i vizi della condotta del soggetto sottoposto alla giurisdizione contabile costituiscono un mero sintomo della dannosità per l’erario delle condotte medesime (Corte dei conti Sez. III d’app. 347/2018, App. Sicilia 38/2018). Di talché, di rottura del sinallagma contrattuale “può parlarsi nel caso in cui la prestazione resa in concreto dal dipendente non abbia la connotazione complessiva per la quale era stabilita la remunerazione e, cioè, solo laddove lo svolgimento dell’attività extra-istituzionale abbia compromesso il buon andamento dell’amministrazione di appartenenza o abbia generato conflitto di interessi” (Corte dei conti, Sez. III d’app. 155/2024). E questo vale non solo per la retribuzione, ma anche per la maggiorazione di cui all’art. 36, co. 6 del D.P.R. n. 382 del 1980, secondo cui “La misura del trattamento economico previsto dai precedenti commi è maggiorata del 40 per cento a favore dei professori universitari che abbiano optato per il regime di impiego a tempo pieno”, considerato che detta maggiorazione non è connessa solo al rispetto dell’obbligo di esclusiva, ma è, più in generale, collegata al complessivo impegno lavorativo a tempo pieno. Sicché, nel caso di svolgimento di attività extra-istituzionali relativamente o assolutamente incompatibili, detta maggiorazione – diversamente dall’indennità prevista per i dirigenti medici avente sia una funzione di misura premiale, volta a incentivare la scelta per il regime intramurario e a migliorare sul piano quali-quantitativo l’offerta sanitaria pubblica, sia una finalità compensativa della rinuncia a fonti di reddito aggiuntive – non potrà ritenersi corrisposta sine titulo, ove, per un verso, non si sia concretizzata alcuna lesione effettiva del buon andamento nell’attività dell’amministrazione di appartenenza e non si sia realizzato alcun concreto conflitto di interessi e, per altro verso, siano stati adempiuti tutti gli altri obblighi connessi al tempo pieno (Corte dei conti, Sez. III d’app. 155/2024). Sicché, è compito della Procura regionale provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità erariale. Pertanto, come evidenziato in precedente di questa Sezione (n. 447/2023), “non trattandosi di una responsabilità formale, bensì di una violazione del rapporto di esclusività, con compromissione dell’equilibrio sinallagmatico delle prestazioni, la Procura dovrà dimostrare l’effettivo svolgimento di attività incompatibili, nonché l’idoneità delle stesse a rendere ingiustificata la spesa sostenuta in rapporto all’interesse pubblico da soddisfare con il tempo pieno (Sez. III d’app. 460/2021), nel periodo in cui è resa l’attività extra-istituzionale” (Corte dei conti,447/2023155/2024), In specie, lo svolgimento in parallelo dell’attività extra-istituzionale di avvocato non è provato essere stata idonea a rendere ingiustificata la spesa sostenuta dall’Università di Trento in rapporto all’interesse pubblico da soddisfare con il tempo pieno e, perciò, non appare provato che l’attività incompatibile svolta abbia pregiudicato, in termini di minore resa, l’attività didattica e quella assistenziale verso gli studenti, così come espletate dall’appellante (Corte dei conti, Sez. I d’app. n. 49/2023). Sicché, fermo restando i procedimenti disciplinari avviati nel 2018-2019, che tuttavia nulla indicano sulla resa della prestazione accademica, l’Università ha beneficiato della prestazione professionale completa e utile del Prof. L., senza neppure apparenti sue compromissioni conseguenti all’esercizio della libera professione e/o a incarichi in società di lucro. Ne discende, pertanto, il proscioglimento del Prof. L. dall’addebito risarcitorio per il differenziale retributivo di Euro 103.369,07. Nei termini suindicati, l’appello è parzialmente da accogliere e la sentenza impugnata conseguentemente da riformare. La decisione è confermata, invece, in ordine al capo sulle spese.

Le spese del grado, atteso che l’accoglimento anche in misura ridotta (anche sensibile) di una domanda non dà luogo a reciproca soccombenza (Cass. 32061/2022) alla cui stregua il giudice “può” compensare le spese (art. 31, co. 3 c.g.c.), seguono la regola oggettiva della soccombenza e si liquidano, ex art. 31, co. 1 c.g.c., in beneficio dell’Erario statale e a carico de dell’appellante soccombente, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione terza giurisdizionale centrale d’appello, previa conferma della giurisdizione contabile, rigetto dell’eccezione di prescrizione e declaratoria della manifesta infondatezza della q.l.c., nel merito, definendo il giudizio, accoglie parzialmente l’appello iscritto al n. 59.111/R.G. e per l’effetto, in riforma della sent. n. 68/2021, della Sezione giurisdizionale regionale per il T.A.A. / Sudtirol – sede di Trento, pubblicata il 26 aprile 2021 e notificata il 28 aprile seguente, condanna il Prof. L.N.D. al pagamento, in favore dell’Università degli Studi di Trento, della somma di Euro 446.057,83, oltre agli accessori così come determinati nella medesima decisione di prime cure. Conferma le spese di giudizio statuite nella gravata sentenza. Le spese di giudizio del grado seguono la soccombenza e si liquidano, in favore dell’Erario statale e a carico dell’appellante soccombente, nell’importo di Euro 336,00 (euro trecentotrentasei/00).

Manda alla segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, all’esito della pubblica udienza del 15 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 6 settembre 2024.