Deve essere riconosciuto il diritto a partecipare alle procedure cosiddette di tenure track, anche al ricercatore a tempo determinato, con contratto stipulato a norma dell’art. 24 comma 3 lett. a) della Legge n. 240/2010, in possesso dell’abilitazione nazionale.
TAR Emilia Romagna, sez. I, 25 novembre 2024, n. 870
Possono partecipare alle procedure di tenure track anche i Rtd-A in possesso dell'abilitazione scientifica nazionale
00870/2024 REG.PROV.COLL.
00283/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 283 del 2021, proposto da OMISSIS, rappresentato e difeso dagli avvocati OMISSIS e OMISSIS, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Alma Mater Studiorum Università di Bologna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati OMISSIS e OMISSIS, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per l’accertamento
del diritto del ricorrente ad essere assunto a tempo indeterminato come ricercatore e ad essere sottoposto alla procedura di valutazione di cui all’art. 24, comma 5, della l. n. 240 del 2010.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Alma Mater Studiorum Università di Bologna;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 novembre 2024 la dott.ssa OMISSIS, lette le note d’udienza, con cui la parte ricorrente ha chiesto la decisione sulla scorta degli scritti e udito il procuratore della parte resistente come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Il ricorrente, ha svolto le funzioni di ricercatore a tempo determinato, ai sensi dell’art. 24, comma 3, lett. a), della l. n. 240 del 2010, presso il Dipartimento Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Ateneo resistente, dal 5 ottobre 2015 al 4 ottobre 2020, in forza di un contratto triennale prorogato per un biennio.
Tale attività è andata ad aggiungersi a precedenti otto anni di collaborazione ad altro titolo con l’Università (assegni di ricerca e incarichi professionali).
Nelle more, l’odierno ricorrente ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale all’esercizio delle funzioni di professore di seconda fascia, sviluppando, conseguentemente, l’aspettativa alla stabilizzazione ai sensi dell’art. 20, comma 1 del d.lgs. n. 75 del 2017.
Ciò che non è accaduto in ragione dell’interpretazione della norma fatta propria dal Ministero della Semplificazione e della Pubblica Amministrazione nella circolare n. 3 del 2017, in forza della quale l’Ateneo ha ritenuto che l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75 del 2017 non potesse trovare applicazione in relazione alle categorie di personale di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel cui novero – in forza della modifica apportata con l’art. 22, comma 16, del d.lgs. n. 75 del 2017 – rientrano anche «i professori e ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato».
Ritenendo tale comportamento dell’Amministrazione in contrasto con i principi del diritto eurounitario e con la Costituzione, l’aspirante alla stabilizzazione ha proposto il ricorso in esame per vedersi accertato il proprio diritto in tal senso.
A tal fine egli ha dedotto:
1. la violazione del diritto europeo e dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, in quanto la vigente disciplina del rapporto di lavoro dei ricercatori universitari si porrebbe in netto contrasto con gli obblighi derivanti dalla direttiva n. 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999. I considerando 6 e 7 dell’accordo quadro, infatti, stabiliscono rispettivamente che «i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento», e che «l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi». Ciononostante, il recepimento di tale direttiva nell’ordinamento italiano, ha visto affermare, per i ricercatori universitari, il principio dell’assunzione a tempo determinato, per un periodo massimo di cinque anni (tre di contratto e due di proroga), superiore alla durata massima, comprensiva della proroga, prevista per il settore pubblico e privato e alla scadenza del quale non vi è né la possibilità di ottenere la stabilizzazione ai sensi dell’art. 20, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 75 del 2017, essendo essa preclusa per tutti gli impiegati pubblici, in forza della modifica apportata all’art. 3 del decreto legislativo n. 165 del 2001 ad opera dell’art. 22, comma 16, del decreto legislativo n. 75 del 2017, che ne esclude l’applicazione ai ricercatori universitari, precludendo loro anche di poter ottenere il risarcimento del danno;
2. incostituzionalità dell’art. 24, comma 3 della legge n. 241 del 2010, per violazione degli artt. 3, 9 comma 1 e 33, comma 1 della Costituzione;
3. incostituzionalità dell’art. 24, commi 5 e 6 della legge n. 241 del 2010, nella parte in cui non prevede la possibilità per i ricercatori di tipo A, che abbiano ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale di essere valutati al fine della chiamata nel ruolo dei professori associati, in violazione del diritto europeo.
Si è costituita in giudizio l’Università intimata, eccependo l’infondatezza del ricorso, con puntuali richiami alla normativa e all’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, ai quali parte ricorrente ha controdedotto insistendo nelle proprie conclusioni.
Dopo ampia discussione, la controversia è stata trattenuta in decisione e il Collegio è addivenuto alle seguenti conclusioni.
Deve essere, in primo luogo, negata la pretesa fatta valere in via principale all’accertamento del diritto alla stabilizzazione.
Premesso che la stabilizzazione del personale precario attraverso la procedura eccezionale prevista dall’art. 20 del d.lgs. n. 75 del 2017 non ha mai costituito un obbligo, bensì una facoltà per l’Amministrazione, ciò che è determinante è che tale possibilità ha riguardato esclusivamente il personale contrattualizzato: categoria da cui i ricercatori universitari sono risultati esclusi sin dall’entrata in vigore dell’articolo 3 del d.lgs. 165 del 2001 (nel 2017, infatti, la norma è stata modificata solo specificando, a definitivo chiarimento di ogni dubbio, come la norma riguardasse sia i ricercatori a tempo determinato, che quelli a tempo indeterminato).
Ciò chiarito, la contrarietà di tale disposizione alla normativa comunitaria è stata esclusa, come ricordato nella sentenza del Consiglio di Stato n. 8010/2023, dalla Corte di Giustizia con la sentenza C 2022 985 17 del 15 dicembre del 2022, che, con riferimento alla suddetta disciplina nazionale, ha affermato che la direttiva n. 1999/70/CE “non osta a una normativa nazionale che consente alle università di stipulare con i ricercatori contratti a tempo determinato di durata triennale, prorogabili di due anni al massimo, senza subordinarne la stipulazione e la proroga ad alcuna ragione oggettiva connessa ad esigenze temporanee o eccezionali, e ciò al fine di soddisfare le esigenze ordinarie e permanenti dell’università interessata”, “non osta a una normativa nazionale che fissa a dodici anni la durata complessiva dei contratti di lavoro che uno stesso ricercatore può stipulare, anche con università e istituti diversi e anche in modo non continuativo”, non osta a una normativa nazionale che prevede la possibilità, a determinate condizioni, di stabilizzare l’impiego dei ricercatori degli enti pubblici di ricerca che hanno stipulato un contratto a tempo determinato, ma che nega tale possibilità ai ricercatori universitari che hanno stipulato un contratto a tempo determinato” e “non osta a una normativa nazionale che, in deroga, da un lato, alla regola generale applicabile a tutti i lavoratori pubblici e privati secondo la quale, a partire dal 2018, il limite massimo di durata di un rapporto a tempo determinato è fissato a 24 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, nonché, dall’altro, alla regola applicabile ai dipendenti della Pubblica amministrazione secondo la quale il ricorso a tale tipo di rapporti è subordinato all’esistenza di esigenze temporanee ed eccezionali, consente alle università di stipulare con i ricercatori contratti a tempo determinato di durata triennale, prorogabili di due anni al massimo, senza subordinarne la stipulazione e la proroga alla sussistenza di esigenze temporanee o eccezionali dell’università di cui trattasi, e che permette anche, alla fine del quinquennio, di stipulare con la stessa o con altre persone un altro contratto a tempo determinato di pari tipologia, al fine di soddisfare le medesime esigenze didattiche e di ricerca connesse al precedente contratto”.
Escluso il contrasto con la normativa eurounitaria, non può essere ravvisata nemmeno un’incostituzionale disparità di trattamento con i ricercatori presso gli enti pubblici di ricerca. Pure su questo punto il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi dalle conclusioni cui è addivenuta la sentenza del Consiglio di Stato n.8010/2023, secondo cui “detta disparità di trattamento non sussiste per l’impossibilità di assimilare le due figure. Vi sono, infatti, molteplici differenze fra esse, prima delle quali è che i secondi non svolgono compiti didattici, ma solo per l’appunto di ricerca scientifica. Anche il regime giuridico dei due rapporti è diverso, perché ai ricercatori degli enti di ricerca si applica la disciplina dettata dal d.lgs. n. 268 del 2016 ed essi rientrano, a pieno titolo, nel personale contrattualizzato. A conferma di ciò non sono menzionati nell’articolo 3 comma 2 del d.lgs. 165 del 2001.”.
Anche il contrasto con gli altri principi costituzionale invocati da parte ricorrente deve essere escluso. Nella stessa sentenza n. 8010/2023, infatti, il Consiglio di Stato ha chiarito che non può ravvisarsi la violazione degli artt. 3, 9 e 33 della Costituzione, in quanto “il ridetto articolo 20 non configura quello alla stabilizzazione come un diritto soggettivo del lavoratore precario, quanto piuttosto come una facoltà che l’amministrazione può liberamente non esercitare. Il che già esclude, tendenzialmente la denunciata potenzialità discriminatoria della norma.”.
In secondo luogo, l’obiezione omette di considerare la peculiarità della figura del docente universitario e la sua ambivalenza anche nel campo della ricerca, oltre che nella didattica, che la rende eccentrica rispetto a tutti gli altri profili professionali dei pubblici impiegati.
Infine, in disparte quanto già si è detto con riferimento ai ricercatori degli enti di ricerca, rispetto ai quali non esiste diversità di trattamento mancando la sovrapponibilità delle situazioni di partenza, si osserva che non risponde al vero che il legislatore non abbia previsto – considerando la specificità della figura – procedure di stabilizzazione ad essa appositamente dedicate che ne escludono una posizione deteriore, anche rispetto al più generale rapporto di pubblico impiego. Basti pensare alla cd. “chiamata diretta” di cui al comma 5 dell’art. 24 della L. n. 240 del 2010, ovvero al riconoscimento del titolo preferenziale per la partecipazione ad altri concorsi, previsto al comma 9 della stessa disposizione.
Ritenuto di poter condividere le conclusioni cui è addivenuto il Consiglio di Stato nella ora ricordata sentenza n. 8010/2023, il Collegio non ravvisa, dunque, ragione di discostarsi dall’orientamento delineato da tale pronuncia anche con riferimento al prospettato contrasto con gli articoli 9 e 33 della Costituzione correlato al rischio che l’esclusione dalla stabilizzazione scoraggi la ricerca scientifica nel nostro paese in ragione di un abusivo ricorso alla reiterazione dei contratti a tempo determinato. Premesso che un rischio solo potenziale e ipotetico, discendente da una disposizione di legge, di vulnus ad un valore costituzionale non potrebbe, di per sé, fondare una rimessione al giudice delle leggi, la doglianza è stata già affrontata e risolta in senso negativo dalla Corte di giustizia nella pronuncia già ricordata nei paragrafi precedenti, che ha ritenuto la normativa italiana idonea ad escludere un illegittimo abuso dello strumento del contratto a tempo determinato.
Essa, infatti, prevede un tetto massimo alla durata del rapporto di lavoro dei ricercatori a tempo determinato (stabilendo un limite sia per quanto riguarda la durata del contratto, che per il numero possibile di rinnovi), la possibilità di acquisire le qualifiche necessarie per conseguire un contratto di tipo B, nonché una procedura per l’assunzione preferenziale quale quella prevista dal comma 5 dell’articolo 24 citato di cui meglio si dirà infra.
Infine la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità in esame emerge anche, così come ritenuto dal giudice d’appello, dalla natura eccezionale, facoltativa e provvisoria delle misure di riassorbimento di cui all’art.20 della legge n.75 del 2017, che induce ad escludere il lamentato grave pregiudizio.
Alla luce di tutto ciò, in conformità anche al precedente del tutto analogo definito con sentenza del TAR del Lazio n. 15396/2022, deve essere riconosciuta, anche in forza della giurisprudenza costituzionale e della Corte di Giustizia, la legittimità della scelta del legislatore di utilizzare l’assunzione a tempo determinato per i ricercatori universitari, escludendo per essi la possibilità di stabilizzazione invocata anche con il ricorso in esame.
Quanto alla pretesa “ad essere sottoposto alla procedura di valutazione di cui all’art. 24, comma 5, della l. n. 240 del 2010” (fatta valere nelle conclusioni del ricorso), la Corte UE, nella già ricordata sentenza C 2022 985 17 del 15 dicembre del 2022, ha ravvisato il contrasto della normativa nazionale con il diritto eurounitario in relazione alla possibilità di partecipare alle selezioni per professore associato.
Vanno, dunque, disapplicati i commi 5 e 6 dell’articolo 24, della l. n. 240 del 2010 nella parte in cui riconoscono ai soli ricercatori a tempo determinato di cui all’art. 24, comma 3, lett. b), che abbiano conseguito l’abilitazione scientifica nazionale di cui all’art. 16 della medesima legge, e ad a quelli a tempo indeterminato, che parimenti abbiano conseguito la predetta abilitazione, rispettivamente il diritto e la possibilità (implementata con l’assegnazione di apposite risorse) di essere sottoposti – i primi alla scadenza del contratto, i secondi fino al 31 dicembre 2021 – ad un’apposita procedura di valutazione per la chiamata nel ruolo dei professori associati, senza attribuire la medesima facoltà ai ricercatori a tempo determinato di cui all’art. 24, comma 3, lett. a), in possesso della medesima abilitazione scientifica nazionale.
In questo senso va, dunque, accolto il ricorso, riconoscendo al ricorrente il solo diritto ad essere ammesso a partecipare alle suddette procedure di valutazione, in quanto ricercatore a tempo determinato, con contratto stipulato a norma dell’art.24 comma 3 lett. a) della L. 240 del 2010, in possesso dell’abilitazione nazionale.
Dato il rigetto dell’istanza principale e la natura prettamente interpretativa della questione dedotta, le spese del giudizio possono trovare compensazione tra le parti in causa.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, dichiara il diritto del ricorrente ad essere ammesso a partecipare ad eventuali procedure di valutazione di cui all’art. 24, comma 5, della L. n. 240 del 2010.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Bologna nella camera di consiglio del giorno 20 novembre 2024 con l’intervento dei magistrati:
OMISSIS, Presidente
OMISSIS, Consigliere, Estensore
OMISSIS, Primo Referendario
L’ESTENSORE OMISSIS
IL PRESIDENTE OMISSIS
Pubblicato il 25 novembre 2024