Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 37

Risarcimento danni mancata nomina funzione apicale dell’unità convenzionata di chirurgia

Data Documento: 2016-01-11
Area: Giurisprudenza
Massima

Ai fini dell’attribuzione ai docenti universitari degli incarichi di direzione di strutture complesse ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, l’università di appartenenza riveste un ruolo del tutto determinante attraverso il meccanismo dell’intesa con la regione, il che conferma la legittimazione passiva all’ateneo nell’ambito di controversie concernenti l’attribuzione detti incarichi.

Sussiste un’oggettiva differenza fra l’attribuzione di incarichi professionali comunque di indiscusso rilievo, pur se (a buona ragione) non graditi e tenacemente contestati nelle competenti sedi giudiziarie e il demansionamento professionale in senso proprio (il quale postula tendenzialmente l’attribuzione al lavoratore di mansioni ingiustificatamente deteriori rispetto a quelle proprie dell’originario inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla categoria superiore che sia stata successivamente acquisita ovvero alle mansioni a ultimo effettivamente svolte, giusta la previsione dell’articolo 2103 c.c.).

È configurabile un demansionamento rilevante ai sensi dell’articolo 2103 c.c. anche nelle ipotesi in cui sia stata attribuita al lavoratore una qualifica formalmente equivalente a quella di corretto inquadramento, ma nondimeno inidonea a valorizzare in modo adeguato la sua specifica professionalità. Tuttavia, tale principio postula pur sempre l’avvenuto esercizio (legittimo o illegittimo) di un concreto ius variandi da parte del datore di lavoro, ossia la modifica unilaterale – e in senso peggiorativo – del consolidato assetto lavorativo conseguito dal lavoratore.

La figura del demansionamento mira a contrastare condotte datoriali volte ad esercitare lo ius variandi in modo lesivo del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore, sicché trova applicazione nelle sole ipotesi in cui al lavoratore siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori rispetto a quelle di iniziale assegnazione e non anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna variazione delle mansioni ed anzi la controversia verta proprio sulla mancata variazione delle mansioni stesse.

Contenuto sentenza

N. 00037/2016REG.PROV.COLL.
N. 02266/2010 REG.RIC.
N. 05456/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2266 del 2010, proposto da
Università degli Studi di-OMISSIS-, in persona del legale rapresentante pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12
contro
-OMISSIS-; 
-OMISSIS- e -OMISSIS-, rappresentate e difese dagli avvocati [#OMISSIS#] Cerami, [#OMISSIS#] De Portu, con domicilio eletto presso [#OMISSIS#] De Portu in Roma, Via Flaminia, 354  
sul ricorso numero di registro generale 5456 del 2014, proposto da: 
-OMISSIS-, -OMISSIS-, rappresentate e difese dagli avvocati [#OMISSIS#] Cerami e [#OMISSIS#] De Portu, con domicilio eletto presso [#OMISSIS#] De Portu in Roma, Via Flaminia, 354
contro
Università degli Studi di-OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12
per la riforma
quanto al ricorso n. 2266 del 2010, della sentenza del T.a.r. della Lombardia, Sezione I, n. 4581/2009;
quanto al ricorso n. 5456 del 2014, della sentenza del T.a.r. Lombardia, Sezione I, n. 604/2014 
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle signore -OMISSIS-e-OMISSIS-in qualità di eredi del professor -OMISSIS-e dell’Università degli Studi di-OMISSIS-;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’articolo 22, comma 8 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 ottobre 2015 il Cons. [#OMISSIS#] Contessa e uditi per le parti l’avvocato dello Stato D’Avanzo e l’avvocato De Portu;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue 
FATTO
I termini fattuali all’origine della presente vicenda sono descritti come seguono nell’ambito della sentenza del Tribunale amministrativo della Lombardia n. 604/2014 (impugnata con il ricorso n. 5456/2014).
Con ricorso depositato in data 22 marzo 2005 il professor-OMISSIS-, professore universitario di prima fascia di Chirurgia di urgenza presso l’Università degli studi di-OMISSIS-, chiedeva il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali che gli sarebbero per mancata nomina alla funzione apicale dell’unità convenzionata di chirurgia d’urgenza -OMISSIS-.
Il ricorrente citava, a supporto della propria pretesa, le due decisioni (una sul merito della controversia e l’altra resa in sede di ottemperanza), con le quali il Consiglio di Stato aveva definitivamente riconosciuto il suo diritto ad ottenere la nomina auspicata fin dall’anno 1990, nomina che l’Università avrebbe invece riconosciuto soltanto nel dicembre del 2001.
Con sentenza non definitiva recante il n. 4581/2009 (e impugnata in appello con il ricorso n. 2266/2010), il Tribunale amministrativo adito accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo sussistenti sia i presupposti soggettivi (condotta gravemente colposa) sia i presupposti oggettivi (nesso di causalità, evento lesivo e conseguenze dannose) dell’illecito contestato all’amministrazione.
Con riguardo alla quantificazione del danno subito, peraltro, il primo giudice disponeva una verificazione per accertare la specifica patologia sofferta dal ricorrente – come asserito effetto della mancata assegnazione – per tutto il periodo temporale decorrente dall’inizio del comportamento illegittimo dell’amministrazione, nonché l’eventuale percentuale e grado di invalidità temporanea o permanente derivante da tale patologia.
Veniva altresì chiesto al verificatore di esprimere un’opinione in ordine al nesso di causalità tra il comportamento illegittimo posto in essere dall’amministrazione e la patologia insorta, con riferimento specifico alle conseguenze sul piano professionale e della vita di relazione derivate al ricorrente.
La sentenza n. 2266/2010 veniva impugnata in appello dall’Università degli Studi di-OMISSIS- la quale chiedeva altresì a questo Consiglio di Stato di disporre la sospensione cautelare dei relativi effetti (ricorso n. 2266/2010).
In primo luogo l’Università appellante lamentava la mancata considerazione da parte del primo giudice del proprio difetto di legittimazione passiva (atteso che l’azione risarcitoria avrebbe piuttosto dovuto essere proposta nei confronti dell’-OMISSIS- e -OMISSIS-).
Con il secondo e il terzo motivo di ricorso l’Università lamentava che la disposta condanna conseguisse all’omessa ed erronea valutazione, da parte del primo giudice, dei rilevanti fatti di causa.
Con ordinanza n. 2011/2010 questo Consiglio di Stato respingeva l’istanza di sospensione cautelare, osservando che “(…) sulla quantificazione del danno la sentenza impugnata è di carattere istruttorio e quindi non immediatamente lesiva (…) difatti la verificazione disposta dal Tar è ancora in corso”.
Un volta depositata la relazione dell’esperto nominato ai sensi della sentenza n. 4581/2009 il primo giudice, rilevando un errore metodologico nell’iter peritale e un contrasto tra le conclusioni del verificatore e il dispositivo della sentenza non definitiva, riteneva necessario un ulteriore approfondimento istruttorio, tramite consulenza tecnica di ufficio.
Al nuovo perito, individuato nella persona del medico legale dottor [#OMISSIS#] Basile, veniva affidata la risoluzione dei seguenti quesiti:
1. accertare nel contraddittorio delle parti e sulla base della documentazione medica versata in atti, fatte salve ulteriori produzioni, se il ricorrente, a seguito del comportamento (già definito vessatorio in sede di precedente giudizio) abbia riportato una invalidità temporanea parziale durante il periodo decennale in cui si è protratta l’illegittimità del comportamento dell’Amministrazione, nonché postumi invalidanti permanenti successivamente all’assunzione delle funzioni primariali nella divisione di Chirurgia d’urgenza;
2. definire l’eventuale percentuale e grado d’invalidità temporanea o permanente derivante da tale patologia;
3. determinare, nel caso, l’equivalente pecuniario del danno patito sulla base delle tabelle abitualmente utilizzate;
4. esprimersi circa la possibile sussistenza del nesso di causalità tra il comportamento illegittimo posto in essere dall’Amministrazione, la patologia insorta e le conseguenze sul piano professionale e della vita di relazione del ricorrente medesimo”.
Depositata la relazione del consulente, dopo un’infruttuosa richiesta d’integrazione della stessa, il Tribunale amministrativo disponeva una nuova consulenza tecnica volta a “determinare, sulla base delle risultanze della precedente perizia, l’equivalente pecuniario del danno allegatamente patito dal ricorrente”.
Essendo il ricorrente in primo grado deceduto in data 26 marzo 2013, le sue eredi universali si costituivano ai fini della prosecuzione del giudizio.
Una volta acquisita la nuova consulenza tecnica d’ufficio, con la sentenza n. 604/2014 il Tribunale amministrativo regionale accoglieva il ricorso n. 790/2005 e, per l’effetto, condannava l’Università degli Studi di-OMISSIS- a corrispondere in favore delle eredi del professor -OMISSIS-:
a) l’importo complessivo di euro 54.410,00 (oltre gli accessori di legge) a titolo di ristoro del danno non patrimoniale;
b) l’importo di euro 3.201,29 (oltre gli accessori di legge) a titolo di danno patrimoniale.
La sentenza in questione è stata impugnata in appello dalle eredi del professor -OMISSIS- le quali ne hanno chiesto la riforma articolando un unico complesso motivo (‘Infondatezza, erroneità e contraddittorietà della sentenza del TAR per la Lombardia n. 604/2014’), articolato a sua volta in numerosi sub-motivi
Con un primo ordine di argomenti le appellanti lamentano la contraddittorietà in cui sarebbe incorso il primo giudice il quale, pur avendo accertato che al defunto professor -OMISSIS- fosse stato riservato un atteggiamento “senza alcun dubbio vessatorio” da parte dell’Università, ha nondimeno ritenuto che non fosse possibile il risarcimento in suo favore del danno professionale “non avendo l’interessato mai svolto mansioni inferiori od ontologicamente diverse da quelle per le quali era qualificato” (pag. 15 del ricorso in appello).
In tal modo decidendo il primo giudice avrebbe omesso di considerare:
– che l’illegittimo e ingiustificato ritardo (protrattosi per oltre dieci anni) nell’assegnare al professor -OMISSIS- il primariato in Chirurgia d’urgenza (specialità, questa, maggiormente coerente rispetto alla cattedra a lui assegnata) aveva impedito allo stesso – e per un tempo estremamente lungo – di cogliere importanti occasioni di crescita professionale;
– che la mancata attribuzione del primariato in Chirurgia di urgenza deve essere qualificata come dequalificazione professionale, certamente assimilabile a un demansionamento rilevante ai sensi dell’articolo 2013 cod. civ.. Sotto tale aspetto il primo giudice avrebbe omesso di considerare il consolidato orientamento secondo cui costituisce demansionamento non solo l’attribuzione di una qualifica formalmente inferiore rispetto a quella di inquadramento, ma anche l’attribuzione di una qualifica formalmente equiordinata, ma nondimeno inidonea a valorizzare in modo adeguato lo specifico patrimonio professionale del lavoratore;
– che, in tema di danno da demansionamento, spetta al lavoratore soltanto l’onere di provare la sussistenza della fonte del diritto e l’inesatto adempimento da parte del datore di lavoro, incombendo al contrario sullo stesso datore di lavoro l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo. Al riguardo l’appellante osserva di aver adempiuto in modo corretto l’onere di fornire una prova adeguata in ordine alle componenti di danno patrimoniale (sotto la specie di danno professionale) e di danno non patrimoniale (nelle forme del danno biologico, morale ed esistenziale);
– che, ai fini della prova in concreto del danno, una volta allegati gli indici rivelatori del demansionamento, l’esistenza del danno conseguente può essere fornita anche attraverso il ricorso a presunzioni, assumendo quali indizi in tal senso la natura, l’entità e la durata del demansionamento nonché la tipologia delle vessazioni subite e le altre circostanze rilevanti del caso. Al riguardo le appellanti osservano di aver allegato e dato prova dell’esistenza del danno conseguente al subito demansionamento in tutte le sue diverse componenti, fra cui: i) la menomazione della capacità professionale; ii) la mancata acquisizione di una maggiore capacità reddituale, la perdita di ulteriori possibilità di [#OMISSIS#] e la lesione dell’immagine professionale.
Un elemento di prova circa l’avvenuto demansionamento e circa la consistenza del danno conseguentemente patito sarebbe rappresentata dal fatto che, a seguito dell’inizio del proprio demansionamento (collocabile nell’anno 1990), il professor -OMISSIS- aveva abbandonato di fatto le attività di ricerca, aveva cessato di organizzare e persino di partecipare a congressi medici e non aveva più scritto articoli su riviste specializzate. Inoltre, dal 1990 era stato abolito il Centro per lo studio della fisiopatologia continenziale, creato nel corso degli anni Ottanta dello scorso secolo dallo stesso professor -OMISSIS-.
Per quanto riguarda l’ammontare complessivo del danno patrimoniale patito, dal loro dante causa stante la difficoltà di un’esatta quantificazione, le appellanti sottolineano la necessità di una sua quantificazione in via equitativa ai sensi dell’articolo 1226 Cod. civ..
Al riguardo esse ritengono che, ai fini della quantificazione, debba essere assunta una quota parte (pari al settanta per cento) dell’ultima retribuzione percepita dal professori -OMISSIS- prima dell’inizio delle condotte foriere di danno e che l’importo annuo così determinato debba essere moltiplicato per il numero degli anni durante i quali la condotta dannosa si era perpetuata, giungendo in tal modo a un importo finale pari ad euro 540.209,00.
Nell’ambito del giudizio n. 5456/2014 si è costituita l’Università degli Studi di-OMISSIS- la quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.
Alla pubblica udienza del 20 ottobre 2015 entrambi i ricorsi (il n. 2266 del 2010 e il n. 5456/2014) sono stati trattenuti in decisione.
DIRITTO
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello n. 2266/2010, proposto dall’Università degli Studi di-OMISSIS- avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia n. 4581/2009 con cui è stato accolto il ricorso proposto da un professore universitario ordinario di Chirurgia d’urgenza (al quale era stato impedito per circa un decennio di acquisire le funzioni di primario di Chirurgia d’urgenza presso il convenzionato Ospedale Maggiore di-OMISSIS-) e per l’effetto è stata disposta la condanna di quella Università al ristoro dei danni patiti per effetto del complesso di condotte patite dall’originario ricorrente (la sentenza in questione aveva rimandato l’esatta quantificazione del danno all’esito di una verificazione contestualmente disposta).
Giunge altresì alla decisione del Collegio il ricorso in appello n. 5456/2014 proposto dalle eredi universali del professore universitario vittorioso all’esito del giudizio appena richiamato avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia n. 604/2014 con cui, al’esito delle operazioni tecniche finalizzate all’esatta quantificazione del danno, il relativo ammontare è stato determinato in misura ritenuta non congrua.
.2. In primo luogo il Collegio ritiene necessario disporre la riunione dei due ricorsi in epigrafe, sussistendo evidenti ragioni di connessione di carattere soggettivo e in parte oggettivo.
3. In via parimenti preliminare il Collegio rileva l’improcedibilità del ricorso n. 2266/2014, proposto dall’Università degli Studi di-OMISSIS- avverso la sentenza n. 4581/2009.
Ed infatti, il complesso delle ragioni in fatto e in diritto sottese all’adozione della richiamata sentenza di condanna generica in questione può e deve essere esaminato in una con le determinazioni conclusive relative alla quantificazione del danno (e in una con la statuizione giudiziale che ha infine stabilito il quantum del danno risarcibile).
3.1. Il Collegio osserva tuttavia che, stante l’idoneità di eventuali errori e omissioni commessi dal primo Giudice in sede di pronunzia della condanna generica a riverberarsi sulle statuizioni conclusive rese con la sentenza 604/2014, le ragioni poste a fondamento del ricorso n. 2266/2010 debbano comunque essere sottoposte a puntuale delibazione.
3.1.1. Si osserva in primo luogo al riguardo che è infondato il motivo con cui l’Università degli Studi di-OMISSIS- ha contestato (peraltro, per la prima volta in appello) la sussistenza della propria legittimazione passiva nell’ambito della presente controversia risarcitoria.
Al riguardo, la parte appellata ha condivisibilmente obiettato:
– che il complesso di condotte foriere di danno censurate dal professor -OMISSIS- era effettivamente riferibile all’Università degli Studi di-OMISSIS- (sua datrice di lavoro), i cui apparati, nel corso del periodo 1990-2001, avevano frapposto ostacoli tanto illegittimi quanto efficaci al conseguimento da parte del docente dell’auspicata posizione primaziale;
– che era stata proprio l’Università degli Studi, nel corso del 1991, a respingere la richiesta del professor -OMISSIS- di essere designato per il primariato nell’ambito della Chirurgia d’urgenza -OMISSIS-, adducendo ragioni connesse “alla definizione di un piano di riordino dell’attività convenzionale”, salvo poi optare dopo alcuni mesi per la designazione di un candidato meno titolato;
– allo stesso modo, l’Università appellante aveva omesso per circa un decennio (e in modo illegittimo) di aderire alla richiesta del professor -OMISSIS-, fino a quando (a seguito della sentenza di questo Consiglio n. 122 del 1998, a sé sfavorevole) si era infine risolta a proporre all’Azienda Ospedaliera la nomina del professor -OMISSIS- quale Primario di Chirurgia d’urgenza (ma la proposta in questione era stata formulata solo in data 18 febbraio 2000);
– che, ancora nell’ottobre del 2000 (quando ormai era stato accertato in sede giudiziaria il buon diritto del ricorrente in primo grado a conseguire l’auspicata nomina), l’Università datrice di lavoro aveva proposto per la nomina, insieme con il professor -OMISSIS-, anche il professor-OMISSIS-(in tal modo ostacolando ancora una volta la piana definizione della questione);
– che, ai fini dell’attribuzione ai docenti universitari degli incarichi di direzione di strutture complesse ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517 (recante ‘Disciplina dei rapporti fra Servizio sanitario nazionale ed università, a norma dell’articolo 6 della l. 30 novembre 1998, n. 419’), l’Università di appartenenza riveste un ruolo del tutto determinante attraverso il meccanismo dell’intesa (il che rende implausibile la tesi dell’Ateneo appellante secondo cui, nell’ambito delle procedure di attribuzione di tali incarichi, lo stesso non esplicherebbe funzioni di effettivo rilievo);
– che, in definitiva, del tutto correttamente il primo Giudice ha ritenuto che all’Università degli Studi di-OMISSIS- andasse riconosciuta la legittimazione passiva nell’ambito della presente vicenda risarcitoria.
3.1.2. Neppure sono fondate le ragioni sottese al secondo motivo del ricorso n. 2266/2010.
Al riguardo l’Università ha sostenuto l’erroneità del ragionamento del primo giudice, secondo cui il comportamento “senza alcun dubbio vessatorio nei confronti del ricorrente” sarebbe desumibile dal solo fatto che l’Università abbia deciso di difendere in giudizio le proprie ragioni, sino ad affermare che “l’esercizio del legittimo diritto di difesa non può certo essere assimilato alla condotta sistematica e reiterata nel tempi che si manifesta in atteggiamenti ostili nei confronti del lavoratore” (pag. 4 e seg. del ricorso in appello).
Al riguardo ci si limita ad osservare che, dall’esame della sentenza n. 4581/2009, non emerge affatto che il primo giudice abbia individuato un indice di condotta mobbizzante nella sola scelta dell’Università di resistere in giudizio a fronte dei (peraltro numerosi) ricorsi del professor -OMISSIS-.
Al contrario, la sentenza ha (sinteticamente ma esaurientemente) richiamato il complesso delle condotte attive ed omissive, reiterate e costanti nel tempo, tali da palesare un atteggiamento pregiudizialmente contrario all’acquisizione da parte del professor -OMISSIS- dell’auspicata posizione lavorativa.
Al riguardo si osserva che (in coerenza con il carattere di strumentalità dell’azione e della stessa resistenza in giudizio) non è la scelta in se di difendere in sede processuale un complesso di atti ingiusti e forieri di danno a costituire ex se un illecito.
Tale scelta rappresenta, evidentemente, un dato processualmente ‘neutro’ rispetto al dato sottostante rappresentato da una condotta ingiustamente lesiva delle posizioni giuridiche del soggetto inciso.
Né può essere condivisa la tesi dell’Università appellante secondo cui il primo giudice avrebbe omesso di rilevare una prova adeguata dell’esistenza di un evento dannoso (limitandosi, piuttosto, ad affermare in modo generico la sussistenza di un comportamento ‘di apparato’ nel suo complesso illegittimo e “ingiustificatamente ostile e vessatorio”).
Si osserva in contrario che, anche in questo caso, il primo giudice ha accertato con formulazioni sintetiche ma nondimeno corrette la sussistenza di un complesso di condotte puntuali e individuate, quali quelle che hanno impedito – senza manifestazioni di adeguate giustificazioni che l’amministrazione nel caso avrebbe dovuto formulare – al professor -OMISSIS- per circa un decennio di conseguire una posizione lavorativa per la quale era stato incontestatamente qualificato e alla quale perciò lo stesso fondatamente aspirava. È indubbio infatti che l’assunzione di un titolo come quello in questione – evidentemente attribuito responsabilmente – comporti l’abilitazione allo svolgimento degli inerenti compiti di servizio, se da parte di chi ha la successiva responsabilità amministrativa circa il loro delicato esercizio non viene addotto ed esplicitato, come certo in astratto possibile e se del caso doveroso, alcun sopravvenuto fatto ostativo. La reiterata negazione in via di mero fatto di questo svolgimento concreta in sé un comportamento dannoso.
Pertanto si ritiene che il ricorrente in primo grado e poi il Tribunale amministrativo abbiano adeguatamente soddisfatto l’onere di individuare e contestualizzare gli indici rivelatori di un complessivo disegno preordinato a ciò che oggettivamente si presenta, per fatto stesso dell’Università, come una inspiegabile vessazione o prevaricazione del dipendente (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, VI, 12 marzo 2015, n. 1282).
3.1.3. Ed ancora, non è condivisibile il motivo di appello con cui l’Università degli Studi di-OMISSIS- ha contestato l’individuazione dell’arco temporale in cui si sarebbe manifestata la condotta censurata.
Secondo l’Università appellante, il periodo di ingiustificata inerzia addebitabile all’apparato sarebbe – a tutto concedere – da limitare al periodo compreso fra:
– il 7 aprile 1998 (data di pubblicazione della sentenza di questo Consiglio di Stato n. 122/1998 che aveva annullato il primo provvedimento del 22 aprile 1991) e
– il 27 gennaio 2000 (data in cui il Consiglio di Facoltà di Medicina e Chirurgia aveva finalmente proposto la nomina del Prof. -OMISSIS- quale Primario di Chirurgia d’urgenza).
L’argomento non può in alcun modo essere condiviso perché l’adesione ad esso comporterebbe il travolgimento del generale principio secondo cui la durata del processo non può risolversi in un danno per la parte che ha ragione.
Era l’illegittima delibera dell’aprile del 1991 (quella che aveva negato la nomina del professor -OMISSIS-) a determinare il danno ingiusto e non certo la sentenza di appello che quella illegittimità ha finalmente accertato.
Neppure può ritenersi (per le ragioni già esposte retro, sub 3.1.2) che il contegno riprovevole degli Organi universitari fosse cessato con la (tardiva) proposta di nomina formulata nel corso del 2000.
Basti qui ribadire che, ancora ad ottobre di quell’anno, l’Università datrice di lavoro aveva proposto per la nomina (e in modo difficilmente spiegabile) non solo il professor -OMISSIS-, ma anche un altro docente, in tal modo palesando un atteggiamento tutt’altro che univocamente finalizzato alla definizione della vicenda nel senso delineato dalle statuizioni giudiziali favorevoli al ricorrente di primo grado.
3.2. Concludendo sul punto, deve ritenersi che la sentenza n. 4581/2009 sia meritevole di conferma per la parte in cui ha statuito la sussistenza degli indici rivelatori di un comportamento ‘di apparato’ ingiustificatamente vessatorio e idoneo ad arrecare al lavoratore un pregiudizio meritevole di adeguato ristoro.
4. Occorre a questo punto esaminare i motivi (meglio descritti in narrativa) sottesi all’articolazione del ricorso n. 5456/2014.
4.1. Le eredi del professor -OMISSIS- hanno contestato la tesi del primo giudice secondo cui
– se, per un verso, l’illegittima mancata attribuzione del primariato di Chirurgia di urgenza sarebbe risultata idonea, insieme con le ulteriori circostanze rilevanti, a cagionare l’insorgenza della patologia psichiatrica da cui è risultato affetto il professor -OMISSIS- (in tal modo giustificando la condanna dell’Università al ristoro del danno non patrimoniale patito);
– per altro verso la richiamata condotta illegittima non ha determinato una dequalificazione professionale in senso proprio, ma ha soltanto frustrato le aspettative del ricorrente in primo grado a conseguire risultati ulteriori rispetto a quelli (di per sé, di assoluto rilievo) ottenuti nell’ambito professionale di riferimento.
4.2. L’appello è infondato.
4.2.1. Il Collegio ritiene in primo luogo di condividere puntualmente le conclusioni cui è pervenuto il primo giudice, secondo cui deve essere negata nel caso in esame la stessa sussistenza di un demansionamento in senso proprio (non essendo stato il professor -OMISSIS- nel corso degli anni mai adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle – comunque di ordine primariale – che gli erano congeniali).
Allo stesso modo il Collegio ritiene che la sentenza in epigrafe sia meritevole di conferma per la parte in cui ha statuito che il danno ristorabile all’esito della corretta configurazione della vicenda afferisca la sola sfera dinamico-relazionale (e quindi, a rigore, a-reddituale) del soggetto inciso, e non a quella stricto sensu afferente la valorizzazione degli elementi retributivi della sfera lavorativa in quanto tale.
4.2.2. Ad avviso del Collegio, quindi, risulta difettare in radice nel caso di specie la stessa dequalificazione professionale (che, nella tesi dell’appellante, sarebbe alla base dell’invocato danno patrimoniale), sussistendo un’oggettiva differenza fra:
– da un lato, l’attribuzione di incarichi professionali comunque di indiscusso rilievo, pur se (a buona ragione) non graditi e tenacemente contestati nelle competenti sedi giudiziarie e
– dall’altro, il demansionamento professionale in senso proprio (il quale postula tendenzialmente l’attribuzione al lavoratore di mansioni ingiustificatamente deteriori rispetto a quelle proprie dell’originario inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla categoria superiore che sia stata successivamente acquisita ovvero alle mansioni a ultimo effettivamente svolte, giusta la previsione dell’articolo 2103 Cod. civ.).
Non si tratta qui di porre in discussione gli orientamenti giurisprudenziali (puntualmente richiamati dalle appellanti) secondo cui è configurabile un demansionamento rilevante ai sensi dell’articolo 2103 Cod. civ. anche nelle ipotesi in cui sia stata attribuita al lavoratore una qualifica formalmente equivalente a quella di corretto inquadramento, ma nondimeno inidonea a valorizzare in modo adeguato la sua specifica professionalità.
Il punto è che il richiamato orientamento postula pur sempre l’avvenuto esercizio (legittimo o illegittimo) di un concreto ius variandi da parte del datore di lavoro, ossia la modifica unilaterale – e in senso peggiorativo – del consolidato assetto lavorativo conseguito dal lavoratore.
Il che, nel caso in esame, non è stato.
4.2.3. Non ritiene il Collegio che ad analoghe conclusioni possa pervenirsi nelle ipotesi – per così dire ‘opposte e speculari’ – in cui (come nel caso che qui rileva) è mancata in radice qualunque variazione delle mansioni originarie da parte del datore di lavoro, nonostante il lavoratore le avesse in vario modo invocate.
Non sembra che in siffatte ipotesi siano traslabili senza residui le conclusioni cui è pervenuta la richiamata giurisprudenza, a meno di non voler ammettere forme di ristorabilità basate su circostanze di carattere meramente potenziale (in tal modo facendo venir meno l’elemento della concretezza ed attualità del pregiudizio, che è uno dei presupposti indefettibili della ristorabilità del danno in quanto tale).
Non a caso, la sentenza Cass., lav., 11 aprile 2005, n. 7351 (richiamata dalle appellanti alle pagine 17 e 18 dell’appello) mira a contrastare condotte datoriali volte ad esercitare il ius variandi in modo lesivo del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore, ma chiarisce che il principio enunciato trova applicazione nelle sole ipotesi in cui al lavoratore “siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori” rispetto a quelle di iniziale assegnazione: e non anche nel caso – che qui ricorre – in cui non vi sia stata alcuna variazione delle mansione ed anzi la controversia verta proprio sulla mancata variazione delle mansioni.
A conclusioni del tutto analoghe si perviene esaminando:
– la sentenza Cass. lav., 2 ottobre 2002, n. 14150 (richiamata dalle ricorrenti a pag. 18 dell’appello), la quale riconosce e parametra in modo espresso il danno da dequalificazione professionale in relazione al contenuto specifico delle “nuove mansioni”;
– la sentenza Cass. Lav. 11 settembre 2013 (richiamata alle pagine 18 e 19) la quale riconosce il medesimo titolo di danno in relazione “[alle] mansioni di nuova assegnazione”.
4.3. Per le medesime ragioni (insussistenza nel caso in esame di un danno da demansionamento in senso proprio) non possono essere considerati pertinenti gli orientamenti giurisprudenziali richiamati alle pagine da 27 a 29 dell’atto di appello (in base agli orientamenti in parola, una volta raggiunta la prova del demansionamento del lavoratore, la sussistenza del conseguente danno può essere provata anche attraverso presunzioni, e la relativa quantificazione può essere operata in via presuntiva ai sensi dell’articolo 1226 Cod. civ.).
Il punto è che, nel caso in esame, manca il presupposto fondante per l’applicabilità dei richiamati orientamenti in tema di riconoscimento e quantificazione del danno da demansionamento (i.e.: la sussistenza di un demansionamento in senso proprio).
4.4. Concludendo sul punto, la sentenza in epigrafe deve essere confermata
– sia per la parte in cui il primo giudice ha ritenuto che il mancato “completamento della propria sfera attitudinale” abbia posto il professor -OMISSIS- in uno stato soggettivo sfociato in esiti patologici meritevoli di ristoro patrimoniale a titolo di danno non patrimoniale;
– sia per la parte in cui il primo giudice ha ritenuto che tale mancato completamento non avesse comportato a rigore un demansionamento in senso proprio, essendo comunque state nel corso degli anni assegnate al professor -OMISSIS- mansioni del tutto confacenti al suo status professionale, pur se diverse da quelle in concreto auspicate.
4.5. Il Collegio osserva che a conclusioni diverse da quelle sin qui rassegnate non può giungersi neppure laddove si superi la logica del c.d. ‘danno da demansionamento’ e si riguardi la vicenda dal diverso – e più ampio – angolo visuale del danno c.d. “professionale” (da intendersi, secondo la prospettazione delle appellanti, “come lesione del patrimonio di conoscenze acquisite/acquisibili, compromissione dell’esperienza lavorativa e dell’immagine professionale all’interno [del contesto lavorativo] e sul mercato del lavoro, spendibilità presso nuovi datori di lavoro e/o clienti” – pag. 25 del ricorso in appello -).
Al riguardo il Collegio ritiene che vada qui richiamato l’orientamento (enucleato ancora una volta in relazione al c.d. ‘danno da demansionamento’, ma applicabile anche a fronte della più ampia categoria del danno “professionale” in senso lato) secondo cui un danno risarcibile non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale. Esigenze evidenti di certezza e di affidamento impongono infatti la necessità di una specifica allegazione e dimostrazione, con la domanda di giustizia, dell’esistenza di un pregiudizio che sia non di natura meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile e specificamente ingenerato sul fare reddituale, che alteri le abitudini e gli assetti relazionali del soggetto, obbligandolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Un tale pregiudizio non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (cfr. sul punto –ex multis -: Cass. Lav. 26 gennaio 2015, n. 1327; 23 novembre 2015, n. 23837).
Ebbene, dall’esame degli at