Il comma 136, dell’articolo 1, della legge 7 agosto 2015, n. 124 – disposizione speciale e, comunque, “specificativa” del concetto generale di “termine ragionevole”, per una cerchia ben individuabile di casi – 4 ha inteso individuare un punto di equilibrio preciso tra il potere di annullamento d’ufficio per ragioni di convenienza economico – finanziaria e l’esigenza di certezza nei rapporti contrattuali tra P. A. e privati, con riferimento a qualsiasi rapporto contrattuale, compresi quindi quelli attinenti ai rapporti di lavoro pubblico “privatizzato”, regolati da contratti individuali di lavoro, venendo così a essere precluso l’esercizio di qualsivoglia autotutela amministrativa finalizzata ad evitare un illegittimo esborso – attuale ma anche futuro – di denaro pubblico, ove siano trascorsi più di tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento illegittimo da caducare, e finanche se la esecuzione del provvedimento medesimo sia perdurante e, quindi, se l’Amministrazione si trovi, così, costretta ad adempiere, per il futuro, a ulteriori obbligazioni pecuniarie già assunte.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 aprile 2018, n. 2439
Personale universitario non docente-Annullamento d'ufficio degli inquadramenti professionali, in categoria superiore, disposti a seguito all’avvenuto superamento delle procedure selettive interne di progressione economica verticale (PEV)
N. 02439/2018REG.PROV.COLL.
N. 00078/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 78 del 2016 proposto da Bruna Baldacconi, [#OMISSIS#] Bisaccia, [#OMISSIS#] Brindisi, [#OMISSIS#] Lasala, [#OMISSIS#] Milano, [#OMISSIS#] Ragone, [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], rappresentati e difesi dagli avvocati [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] Di Giovanni, con domicilio eletto presso lo Studio dell’avv. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] in Roma, via di San [#OMISSIS#], 61;
contro
l’Università degli Studi della Basilicata, in persona del Rettore “pro tempore”, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] Sacco, non costituitasi in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata n. 419 del 2015, resa tra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso n. r. g. 315 del 2014, proposto dagli appellanti per l’annullamento del provvedimento n. 73 del 28 febbraio 2014, con cui il Direttore generale dell’Università degli studi della Basilicata ha annullato gli inquadramenti in categoria immediatamente superiore disposti in esito alle procedure selettive interne di progressione economica verticale (PEV), perfezionatesi con i provvedimenti del Direttore amministrativo dell’Università (PDA) nn. 145, 195 e 304 del 2005;
Visto il ricorso in appello, con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi della Basilicata;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 12 aprile 2018 il cons. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti l’avvocatessa [#OMISSIS#] di Giovanni, per gli appellanti, e l’avvocato dello Stato [#OMISSIS#] Stigliani [#OMISSIS#] per l’Università;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Le circostanze per le quali è causa sono descritte nei termini che seguono, con talune integrazioni, nella sentenza impugnata.
“In data 21.6.2002 l’Università degli Studi della Basilicata stipulava con le organizzazioni sindacali un contratto integrativo per l’indizione di concorsi interni di progressione verticale nella categoria di inquadramento superiore e in attuazione dell’art. 57 del CCNL del personale tecnico – amministrativo del comparto Università, sottoscritto il 9.8.2000, veniva stabilito di destinare € 178.755,00 alle procedure selettive per le progressioni verticali e altrettanti € 178.755,00 ai concorsi esterni.
In data 30.1.2003 il Consiglio di Amministrazione dell’Università accertava che:
1) risultavano vacanti: a) “11 posizioni di Categoria EP”, per il “coordinamento di Aree e funzioni nel settore sia dell’Amministrazione Centrale che delle Biblioteche e della gestione dei Servizi Informatici e Telematici (controllo e sicurezza delle reti, sviluppo software) che della gestione dei Centri di servizi di ricerca con attrezzature particolarmente complesse che richiedono elevata competenza tecnico-scientifica ed inoltre presso i Dipartimenti tecnico-scientifici”; b) “45 unità di personale di Categoria D”; c) valutando che, in seguito alle predette 45 assunzioni di Categoria D, sarebbero risultati scoperti “un numero equivalente di posizioni di Categoria C”;
2) pertanto, concludeva che “sulla base dell’analisi delle esigenze su menzionate appare che le risorse di personale necessarie siano n. 27 progressioni verticali dalla Categoria B alla C, n. 45 progressioni verticali dalla Categoria C alla D e 5 progressioni verticali dalla Categoria D alla EP”.
Dopo aver emanato con Decreto Rettorale n. 431 del 10.9.2003 il Regolamento per la disciplina delle progressioni verticali riservate al personale interno, il Direttore Amministrativo dell’Università:
1) con provvedimento n. 458 del 12.9.2003 indiceva i seguenti concorsi interni: a) quello riservato al personale interno di Categoria B per 2 posti di Categoria C1 Area Amministrativa/Area Tecnica, Tecnico-scientifica ed Elaborazione dati/Area Biblioteche; b) quelli riservati al personale interno di Categoria C per: b1) 1 posto di Categoria D1 Area Amministrativa-gestionale; b2) 1 posto di Categoria D1 Area Tecnica, Tecnico scientifica ed Elaborazione dati; b3) 1 posto di Categoria D1 Area Biblioteche;
2) con provvedimento n. 72 del 6.2.2004 indiceva i seguenti concorsi interni, riservati al personale interno di Categoria D: a) 1 posto di Categoria EP1 Area Amministrativa-gestionale; b) 1 posto di Categoria EP1 Area Tecnica, Tecnico scientifica ed Elaborazione Dati.
Con provvedimento del Direttore Amministrativo n. 169 del 18.3.2005 veniva approvata la graduatoria del concorso interno, riservato ai dipendenti di Categoria C per 1 posto della Categoria D1 Area Amministrativa-gestionale.
Il successivo provvedimento n. 195 del 31.3.2005 inquadrava nella predetta Categoria D1 Area Amministrativa-gestionale con effetti giuridici dall’1.7.2003 ed economici dal 18.3.2005, oltre al candidato collocatosi al 1° posto, [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], anche tutti gli altri candidati idonei, classificatisi da 2° al 27° posto.
…il Direttore Amministrativo dell’Università con provvedimenti nn. 625 e 626 del 30.11.2005 aveva indetto i concorsi esterni rispettivamente per l’assunzione di “3 unità di personale, da inquadrare nella Categoria C1 Area Tecnica, Tecnico scientifica ed Elaborazione Dati presso la Ripartizione Servizi Tecnici” e di “4 unità di personale, da inquadrare nella Categoria D1 Area Amministrativa-gestionale, destinate alle esigenze di coordinamento e gestione delle attività di ciascuna delle Facoltà esistenti (Agraria, Ingegneria, Lettere e Filosofia e Scienze MM.FF.NN.)”.
Per i suddetti concorsi interni la Procura Regionale della Corte dei Conti, nel 2008, citava in giudizio per danno erariale il Direttore Amministrativo, il Rettore e tutti i componenti del Consiglio di Amministrazione.
Il giudizio di primo grado si concludeva con l’assoluzione per ravvisata assenza di colpa grave, in quanto all’epoca vi sarebbe stata un’incertezza del quadro normativo, regolamentare e di indirizzo amministrativo-operativo.
[Il giudice erariale territoriale (Sezione giurisdizionale per la Basilicata, sentenza n. 191 del 2009) sosteneva che nella materia della programmazione del fabbisogno di personale nel periodo compreso tra il 2002 e il 2003, la disciplina normativa era caratterizzata da scarsa chiarezza, ricavabile dall’apparente contrasto di disposizioni, il che non consentiva una interpretazione univoca e precisa circa la cogenza effettiva di un siffatto “obbligo programmatorio”; e rilevava che “l’adozione delle procedure di mobilità verticale, o di progressione verticale, da parte dell’Università degli Studi della Basilicata, pur non risultando essere stata inserita in un rigoroso e puntualissimo programma definitorio dell’effettivo fabbisogno di personale tecnico amministrativo, non appare completamente e risolutamente affrancata dalla esigenza di una previa, pur quanto approssimativa ed incompleta, ricognizione delle reali esigenze di personale correlate alla realtà “in essere” ed “in fieri” dei vari Dipartimenti e delle varie categorie di inquadramento (cat. B, C, D e EP) delle risorse umane in esse destinate ad operare; né dalla esigenza di garantire un adeguato accesso ai ruoli del personale “ab externo”, assicurato dal reclutamento di n.7 unità di personale, peraltro portato a termine con la [#OMISSIS#] preoccupazione del rispetto dei necessari livelli di copertura finanziaria riferibili esclusivamente al pur non florido bilancio universitario;
(e che) il mancato rispetto delle norme imponenti la preventiva programmazione del fabbisogno di personale, (programmazione suscettibile di costituire l’obbligatorio parametro di raffronto per la corretta e razionale definizione degli “accessi verticalizzati”) appare il frutto di una scelta operativa ed amministrativa “scusabile” ed in qualche modo, e per quanto “infra” precisato, comprensibile, attesa la coesistenza, nel tempo e nel periodo in cui le decisioni amministrative contestate nell’atto di citazione vennero assunte, di norme e di indirizzi amministrativi non univoci né limpidi nel senso dell’affermazione di siffatta attività programmatoria, che solo a far tempo dall’anno 2005, grazie ad una chiara ed indiscutibile previsione normativa, assume i tratti di inderogabile cogenza anche per le amministrazioni universitarie…
3) l’incertezza descritta del quadro normativo, regolamentare e di indirizzo amministrativo – operativo nel quale i convenuti odierni si sono trovati ad operare e, conseguentemente, a decidere le più opportune e satisfattive soluzioni di strategia e di gestione decolora in modo netto e reciso l’intensità e la gravità dell’elemento psicologico soggettivo da vagliare nel procedimento giudiziario di accertamento della responsabilità amministrativa, consentendone l’agevole inquadramento nel concetto di “culpa levis”…” : dal che, l’assoluzione dei convenuti dalle imputazioni di responsabilità amministrativa a loro ascritte, per assenza di colpa grave nella condotta serbata dagli stessi nelle procedure di mobilità verticale espletate”.
Tale sentenza di primo grado veniva riformata dalla Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale, con la sentenza n. 52 del 3.2.2012 che, a fronte di un danno erariale annuo di € 178.755,00, condannava i responsabili al pagamento della somma complessiva di € 50.000,00, ripartita pro-quota tra gli stessi.
La Sentenza del Giudice contabile di seconda istanza era basata sui seguenti due motivi:
1) l’Università aveva indetto i concorsi interni, senza aver prima effettuato la programmazione triennale del fabbisogno di personale, prevista dall’art. 1, comma 105, della Legge Finanziaria per l’anno 2005 n. 311/2004 e non tenendo conto di quanto statuito dall’art. 34, commi 1 e 2, della Legge Finanziaria per l’anno 2003 n. 289/2002;
2) mediante lo scorrimento delle graduatorie dei concorsi interni in favore di tutti i candidati idonei era stata violata la quota minima del 50%, da riservare ai concorsi esterni, sancita dall’art. 57, comma 6, del CCNL del 9.8.2000.
[Il giudice erariale d’appello da una parte riteneva sussistere, in capo all’Amministrazione universitaria, oneri di programmazione del fabbisogno di personale e, dall’altra, considerava non rispettata la quota del 50 % da riservare al reclutamento di personale dall’esterno, ex articoli 35, comma 1, del d. lgs. n. 165 del 2001, e 57, nn. 2) e 6), del CCNL del 9.8.2000, posto che l’Università si era limitata a garantire, con i citati concorsi indetti con i PAD nn. 625 e 626 del 30.11.2005, un accesso dall’esterno per sole sette posizioni].
Il Direttore Generale dell’Università comunicava ai ricorrenti l’avvio del procedimento finalizzato all’annullamento del suindicato provvedimento n. 195 del 31.3.2005, di inquadramento nella Categoria D1, richiamando la citata sentenza Corte dei Conti Sez. I giurisdizionale centrale n. 52 del 3.2.2012.
I destinatari con distinte memorie del 27.3.2013 contestavano l’avvio del procedimento.
Con provvedimento n. 73 del 28.2.2014 (notificato con distinte note del 4.3.2014) il Direttore Generale dell’Università della Basilicata esercitava il potere di autotutela, disponendo “l’annullamento degli inquadramenti professionali rivenienti dalle procedure di progressione economica perfezionatesi con i provvedimenti Direttore Amministrativo n. 145 del 4.3.2005, n. 195 del 31.3.2005 e n. 304 dell’11.5.2005”.
[Il DDG di annullamento in autotutela degli inquadramenti professionali, pur prendendo atto che, anche in base a quanto rilevato dal TAR Basilicata, con la sentenza n. 95 del 2009, passata in giudicato, in ordine a un contenzioso legato agli esiti di procedure di progressione di carriera di cui al menzionato PDA n. 304 del 2005, era da ritenere che l’Amministrazione universitaria avesse previamente determinato il fabbisogno di personale, come richiesto dall’art. 57, comma 6, del CCNL del 9.8.2000, richiamava la citata sentenza della Corte dei conti – I sezione centrale, n. 52 del 2012, il parere dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Potenza del 21 gennaio 2013 e la nota della PCM – Dipartimento della Funzione pubblica, del 31 gennaio 2013, con cui si riconosceva un interesse pubblico “in re ipsa” all’annullamento d’ufficio degli inquadramenti illegittimi senza la necessità di una motivazione specifica, rientrandosi in un caso di “autotutela doverosa” e potendosi prescindere dall’avvenuto superamento del limite temporale triennale, per l’esercizio dell’autotutela, di cui all’art. 1, comma 136, della l. n. 311 del 2004.
Nel provvedimento di annullamento in autotutela si faceva riferimento a un “interesse immanente” dell’Amministrazione universitaria a evitare il perpetuarsi del danno erariale legato alla indebita corresponsione dei maggiori emolumenti originati dalle citate progressioni in carriera. L’Università rilevava che nella vicenda è individuabile un danno permanente nel senso che in mancanza della rimozione degli atti illegittimi, il pregiudizio erariale continuerebbe a prodursi: di qui, in presenza di un illegittimo esborso di denaro pubblico, la prevalenza dell’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio degli inquadramenti professionali più favorevoli disposti nel 2005, salvo restando il trattamento economico superiore goduto dal 29.10.2004 fino all’intervenuto annullamento degli inquadramenti medesimi (ossia, a quanto consta, fino al febbraio del 2014)].
Con successivi provvedimenti del 20.3.2014 il medesimo Direttore Generale, in attuazione del predetto provvedimento n. 73 del 28.2.2014, revocava formalmente la Categoria D1 ai deducenti [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] Racioppi, [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] Linsalata, Bruna Baldacconi, [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] Bisaccia, [#OMISSIS#] Brindisi, [#OMISSIS#] Lasala, [#OMISSIS#] Ragone e [#OMISSIS#] Milano… “ .
2. I ricorrenti in epigrafe hanno impugnato il predetto provvedimento n. 73 del 28.2.2014 dinanzi al TAR Basilicata con svariati motivi.
Con la sentenza in epigrafe il giudice di primo grado, nella resistenza dell’Università, ha respinto il ricorso, con compensazione delle spese, sulla base delle argomentazioni che seguono:
-preliminarmente il TAR ha rilevato la improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse, sostenendo che i ricorrenti avrebbero dovuto impugnare anche il PDG dell’Università n. 74/2014, anch’esso del 28.2.2014, con cui l’Amministrazione ha “nuovamente disposto l’annullamento degli inquadramenti professionali rivenienti dalle procedure di progressione economica verticale perfezionatesi con i PP.D.A. n. 145 del 4.3.2005, n. 195 del 31.3.2005 e n. 304 dell’11.5.2005”. Nella sentenza si legge che la mancata impugnazione di tale secondo provvedimento “rende improcedibile per sopravvenuto difetto d’interesse il ricorso, in quanto mediante esso l’Amministrazione resistente ha nuovamente definito l’assetto degli interessi in questione in chiave preclusiva delle aspirazioni degli istanti, sicché nessun effetto deriverebbe in capo ai ricorrenti dall’annullamento della determinazione n. 73/2015. Ciò nondimeno, il Collegio ritiene di poter prescindere dal rilievo d’ufficio di tale improcedibilità, risultando il ricorso infondato nel merito…”;
-risulta violato il principio dell’accesso adeguato nelle P. A. dall’esterno per concorso (cfr. articoli 97, comma 3 Cost., 35, comma 1, del d. lgs. n. 165 del 2001 e 57, commi 2 e 6, del CCNL del 9 agosto 2000). Non è stata rispettata la quota minima del 50 % dei posti da riservare ai concorsi con accesso dall’esterno (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 90 del 2012 e altre);
-vi è un interesse pubblico “in re ipsa” all’annullamento di ufficio di un provvedimento di inquadramento illegittimo di un pubblico dipendente, anche a notevole distanza di tempo dalla emanazione del provvedimento favorevole illegittimo, tenuto conto dell’esigenza di evitare il protrarsi di un pregiudizio economico per l’Amministrazione universitaria sotto forma di esborsi ingiustificati e continuativi di denaro pubblico, vertendosi appunto in tema di inquadramento illegittimo di pubblici dipendenti nella categoria superiore;
-il decorso di un lungo periodo di tempo (nella specie, circa nove anni) tra gli inquadramenti più favorevoli, a seguito delle procedure di progressione interna, e i provvedimenti di annullamento in autotutela, non impedisce l’esercizio del potere di autotutela, tenuto conto dell’esigenza di evitare un danno permanente per l’Amministrazione. In casi come questi l’interesse pubblico prevale sulle posizioni del dipendente, per quanto consolidate;
-il richiamo all’art. 1, comma 136, della l. n. 311 del 2004, è irrilevante, in quanto quest’ultima disposizione “si riferisce espressamente ai “provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati” “ancora in corso” o la cui “esecuzione sia perdurante”, cioè i contratti di appalto e/o convenzionali a tempo determinato, per cui non può essere applicata ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel pubblico impiego”.
3.1. La sentenza è stata impugnata con diversi motivi.
3.1.1. Sub 1), è stata dedotta “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 35, comma 1, lett. c) del c.p.a. – erroneo rilievo di improcedibilità del ricorso di primo grado per sopravvenuta carenza di interesse – travisamento dei fatti e dei presupposti”. Gli appellanti contestano il capo della sentenza con cui il TAR, dopo aver constatato la mancata impugnazione del PDG n. 74 del 28.2.2014, ha rilevato “una presunta” improcedibilità del ricorso di primo grado per sopravvenuta carenza di interesse, salvo poi superare il suddetto rilievo, giudicando l’impugnazione infondata nel merito. Contrariamente a quanto si afferma in sentenza, con il citato PDG n. 74/2014 non è stata operata alcuna nuova definizione dell’assetto degli interessi “in chiave preclusiva delle aspirazioni” degli appellanti, essendo stata, invece, effettuata una valutazione particolare riferita ad alcuni dipendenti, puntualmente indicati nel ricorso in appello (si tratta delle sei unità di personale classificatesi nelle prime posizioni delle graduatorie delle procedure selettive di PEV), allo scopo di escludere la convalida dei rispettivi inquadramenti, disposta invece a favore del signor D. [#OMISSIS#]. Di qui, l’interesse concreto e attuale degli appellanti a vedere annullato il PDG n. 73/2014 e, di contro, il difetto di interesse degli stessi nei confronti del PDG n. 74/2014. Gli appellanti soggiungono di non essere mai venuti a conoscenza del citato PDG n. 74/2014, posto che agli stessi è stato comunicato soltanto il provvedimento n. 73.
3.1.2. Nel dedurre, sub 2), in particolare, violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 136, della l. n. 311 del 2004, violazione dei principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento; travisamento dei presupposti; illogicità, contraddittorietà e violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., gli appellanti rilevano l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non è stato disposto l’annullamento del provvedimento impugnato per la violazione della disposizione di cui al citato comma 136 – abrogata dall’art. 6, comma 2, della l. n. 124 del 2015 ma applicabile, “ratione temporis”, alla fattispecie per cui è causa – , in base alla quale “Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.
Con l’appello si sostiene che, mediante quest’ultima disposizione, il legislatore ha individuato un preciso punto di equilibrio tra il potere di annullamento d’ufficio per ragioni di convenienza economico – finanziaria e l’esigenza di certezza nei rapporti contrattuali tra P. A. e privati, precludendo, tassativamente, l’esercizio di qualsivoglia autotutela amministrativa finalizzata ad evitare un illegittimo esborso di denaro pubblico, qualora siano decorsi oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento da caducare, finanche se la relativa esecuzione sia perdurante.
Nel caso di specie, l’Amministrazione universitaria ha annullato gli inquadramenti professionali “dequibus” a ben nove anni di distanza dall’acquisizione di efficacia degli stessi, incidendo in tal modo assai pesantemente e negativamente su rapporti contrattuali perduranti, perfezionatisi ormai da un lunghissimo periodo di tempo.
Diversamente da quanto si ritiene in sentenza, la disposizione di cui al citato comma 136 non opera alcuna distinzione tra contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato, né tra rapporti convenzionali di appalto e rapporti di lavoro pubblico.
La giurisprudenza amministrativa ha più volte riconosciuto l’applicabilità del citato comma 136 ai rapporto di lavoro pubblico.
Inoltre, la norma di cui al comma 136 regola una speciale forma di annullamento di provvedimenti amministrativi illegittimi, distinta, per l’ambito applicativo più ristretto e per la finalità di risparmio di spesa perseguita, ferma restando l’osservanza del limite temporale triennale, rispetto alla disposizione generale di cui all’art. 21 – nonies della l. n. 241 del 1990, introdotta con la l. n. 15 del 2005, che ha elevato il limite temporale, indeterminato ed elastico, del “termine ragionevole”, a requisito imprescindibile per l’adozione di ogni annullamento d’ufficio. Come affermato in più occasioni dalla giurisprudenza amministrativa, nella specie non viene cioè in considerazione una abrogazione tacita del suddetto art. 1, comma 136, della l. n. 311 del 2004, ad opera della di poco successiva l. n. 15 del 2005, che ha introdotto nel corpo della l. n. 241 del 1990 la disposizione a carattere generale in tema di annullamento d’ufficio di cui all’art. 21 – nonies la quale, fino alla entrata in vigore dell’art. 6 della l. n. 124 del 2015, ha stabilito che “il provvedimento amministrativo illegittimo …può essere annullato… entro un termine ragionevole”.
Nel conflitto, apparente, tra le due disposizioni in parola, e in un contesto in cui la norma di cui al comma 136 ha un ambito applicativo più ristretto rispetto a quello del posteriore art. 21 – nonies, va dato rilievo preminente al principio di specialità.
Il termine massimo triennale stabilito dal comma 136 per l’annullamento d’ufficio si pone dunque come una “ipotesi speciale applicativa del concetto generale di termine ragionevole” introdotto dalla l. n. 15 del 2005.
Con l’appello si soggiunge che la medesima Amministrazione intimata ha affermato, nel provvedimento impugnato, che il comma 136 non è stato abrogato dal citato art. 21 – nonies, e che lo stesso TAR, nella sentenza, ha escluso l’avvenuta abrogazione della norma in esame per mezzo del successivo art. 21 – nonies, avendo il giudice di primo grado semplicemente, ancorché in modo erroneo, “ridotto il perimetro oggettivo – applicativo della previsione “de qua”, dando per scontata la sua perdurante vigenza”.
Ancora, il termine perentorio di 18 mesi, per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, qualora esso abbia a oggetto provvedimenti autorizzativi o comunque attributivi di vantaggi economici, generalizzato con l’art. 6 della recente l. n. 124 del 2015, che ha abrogato in modo esplicito il citato comma 136, anche se non applicabile, “ratione temporis”, alla fattispecie controversa, costituisce parametro normativo temporale di riferimento del quale tenere conto, come è stato segnalato anche da due sentenze del Consiglio di Stato del 2015 e del 2016.
Con l’appello si puntualizza inoltre che la sentenza n. 52 del 2012 della Corte dei conti – Sezione I giurisdizionale centrale, non è in alcun modo idonea a ripercuotere i propri effetti sul presente giudizio, posto che le giurisdizioni contabile e amministrativa divergono profondamente per presupposti e finalità.
In ogni caso, nella denegata ipotesi in cui questo Consiglio di Stato consideri corretta l’interpretazione seguita dal TAR e reputi quindi che il citato comma 136 sia applicabile esclusivamente agli annullamenti di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi che incidono su rapporti convenzionali di appalto a durata determinata, e non anche su rapporti contrattuali di lavoro pubblico a durata indeterminata, andrebbe rimessa alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale del citato art. 1, comma 136, per violazione degli articoli 3, 1, 4, e da 35 a 40 Cost. .
3.1.3. Sub 3), nel dedurre eccesso di potere per macroscopica illogicità e contraddittorietà manifesta, travisamento dei fatti e dei presupposti, erroneità e insufficienza della motivazione, si sostiene che la decisione di primo grado sarebbe errata nella parte in cui il TAR ha omesso di pronunciarsi su alcune doglianze che, seppure strettamente connesse a quella concernente la violazione dell’art. 1, comma 136, erano state formulate in via esplicita e autonoma dalla parte ricorrente e odierna appellante, come può desumersi chiaramente dalla lettura della rubrica del primo motivo del ricorso introduttivo.
Al riguardo, si sottolinea anzitutto la contraddittorietà in cui sarebbe incorsa l’Università, che dapprima ha riconosciuto l’operatività, nella vicenda controversa, del suddetto art. 1, comma 136, salvo poi ritenere del tutto irrilevante, nel caso di specie, l’abbondante decorso del termine triennale sancito dalla previsione normativa in parola.
Sotto un altro profilo, l’illegittimità del provvedimento impugnato in primo grado deriverebbe anche dal fatto che l’Università si sarebbe limitata a richiamare pedissequamente, a supporto della sua decisione, il parere dell’Avvocatura distrettuale dello Stato, secondo il quale il termine triennale di cui all’art. 1, comma 136 non si potrebbe declinare nel senso della convalida delle procedure di progressione di carriera in questione, vertendosi in materia di annullamento di ufficio di inquadramenti illegittimi, in relazione ai quali una giurisprudenza consolidata considera “in re ipsa” l’interesse pubblico concreto e attuale alla caducazione dell’atto ampliativo.
In realtà, sottolinea parte appellante, i richiami ai numerosi precedenti giurisprudenziali effettuati dalla difesa erariale e dall’Università per disconoscere l’operatività, nel caso di specie, del limite temporale di cui all’art. 1, comma 136 cit., sono palesemente irrilevanti posto che molte delle sentenze menzionate riguardano fattispecie di annullamenti di ufficio disposti in epoca ben anteriore alla entrata in vigore della l. n. 311 del 2004, disciplina che risultava pertanto inapplicabile in virtù del principio “tempus regit actum”; altre, invece, si riferivano a vicende nelle quali il limite temporale triennale era stato pacificamente rispettato.
3.1.4. Sub 4), nel dedurre la violazione di svariate norme di legge oltre che della Direttiva della PCM – Dipartimento della funzione pubblica, in data 17 ottobre 2005, e nel rilevare inoltre violazione dei principi di legittimo affidamento, certezza del diritto, ragionevolezza, solidarietà e uguaglianza, e travisamento dei presupposti, gli appellanti censurano anche il capo di sentenza con il quale il TAR ha respinto il secondo motivo del ricorso introduttivo.
Mediante tale doglianza parte ricorrente aveva contestato l’erroneità dell’assunto dell’Università, che aveva qualificato in termini di autotutela doverosa l’annullamento degli inquadramenti controversi, ritenuti forieri di danno permanente per le pubbliche finanze, e reputato del tutto irrilevante il lungo tempo trascorso tra il perfezionamento delle progressioni in carriera e l’esercizio del potere di autotutela in discussione.
Tale impostazione, invero, non tiene adeguatamente in considerazione l’ampia discrezionalità che da sempre caratterizza i provvedimenti di annullamento d’ufficio, e la chiara disposizione di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241/1990, che consente la caducazione “ex officio” di un atto illegittimo soltanto entro un “termine ragionevole”.
Inoltre, nella vicenda “de qua” non si discute di inquadramenti disposti “senza concorso e/o in assenza di posto vacante in piante organica”, atteso che parte appellante è stata inquadrata nella categoria immediatamente superiore in seguito al superamento di una procedura selettiva per titoli ed esami, seppure interna, indetta proprio in base a quanto disposto a seguito di regolare programmazione del fabbisogno di personale, come riconosciuto dallo stesso TAR con la citata sentenza n. 95 del 2009. Più semplicemente, dunque, l’Ateneo lucano, preso atto della sentenza n. 52 del 2012 della Corte dei conti, ha reputato che nelle procedure selettive in discussione non era stata rispettata integralmente la quota del 50 % da riservare all’assunzione di personale dall’esterno e ha pertanto disposto, in via di autotutela, l’annullamento di tali avanzamenti in carriera. Tuttavia, le mera illegittimità di un provvedimento amministrativo, di per sé sola e quale ne sia la ragione, non costituisce ragione sufficiente per giustificare, in via autoreferenziale, la rimozione “ex officio” dell’atto suddetto.
Con l’appello si soggiunge che l’orientamento giurisprudenziale che reputa vincolati gli annullamenti in autotutela concernenti gli inquadramenti illegittimi di dipendenti pubblici, finanche se gli stessi vengano disposti a lunghissima distanza temporale dall’adozione degli atti caducati (c. d. “autotutela doverosa”) merita una profonda e meditata rivisitazione, e ciò alla luce della sopravvenienza del citato art. 1, comma 136, della l. n. 311 del 2004, della necessità di procedere a una interpretazione dell’art. 21 – nonies della l. n. 241 del 1990 maggiormente conforme non solo alla lettera di tale disposizione ma anche al principio di derivazione europea del legittimo affidamento e al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. , e alla recente entrata in vigore dell’art. 6 della l. n. 124 del 2015. Nell’atto di appello si legge tra l’altro che, se non è pensabile negare in assoluto all’azione dell’Amministrazione la flessibilità indispensabile diretta a consentire la rimozione unilaterale di un provvedimento più favorevole, valido ed efficace, occorre nel contempo tutelare le aspettative di coloro i quali, come parte appellante, sulla base di precedenti scelte o decisioni, hanno confidato nella prosecuzione di una situazione favorevole in vista della quale hanno lavorato, magari per moltissimi anni, investito risorse e organizzato la propria vita, anche ad es. rinunciando ad altri percorsi lavorativi e di carriera o alla partecipazione ad altre procedure concorsuali, al punto da legare l’intera prospettiva di vita alle decisioni amministrative esistenti in un certo momento, sicché appare aberrante una interpretazione che consenta l’esercizio dell’autotutela decisoria senza limiti di tempo. Al contrario, la soggezione del potere di annullamento d’ufficio al rispetto di un “termine ragionevole”, qualunque sia l’interesse pubblico sotteso all’esercizio dell’autotutela, risulta imprescindibile per evitare una simile “rottura disistema” e per garantire l’osservanza dei principi di ragion