[X] In virtù del disposto di cui all’art. 31 d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, per il personale universitario, ancorché in servizio presso le locali strutture sanitarie, non viene meno, all’atto della cessazione dal servizio, lo status giuridico di dipendenti statali, sicché l’indennità ospedaliera (c.d. “De Maria”) non entra a far parte della base pensionabile, dovendosi ritenere che quest’ultima è tassativamente disciplinata dall’art. 43 d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, come sostituito dall’art. 15 l. n. 29 aprile 1976, n. 177, il quale recita che la base stessa è costituita solo “dall’ultimo stipendio o dall’ultima paga e dagli assegni pensionabili elencati dalla stessa disposizione” e precisa che “agli stessi fini nessun altro assegno o indennità, anche se pensionabili, possono essere considerati, se la relativa disposizione di legge non ne prevede espressamente la valutazione nella base pensionabile”. Anche nell’eventualità che taluni assegni o indennità siano qualificati dalla legge come “pensionabili”, non ne deriva automaticamente l’inclusione nella “base pensionabile”. In sostanza, la “base pensionabile” è voce pensionistica differente dalla “base di computo” della pensione, comprensiva anche degli altri assegni pensionabili, nel senso che non può desumersi dalla qualificazione dell’assegno come “pensionabile” l’inserimento dello stesso nella “base pensionabile”.
Corte dei conti, sez. I, 18 settembre 2017, n. 345
Riliquidazione trattamento pensionistico – Indennità ospedaliera – Base pensionabile
SENTENZA n. 345/2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO
Composta dai seguenti magistrati:
Salvatore [#OMISSIS#] Presidente f.f.
[#OMISSIS#] LORETO Consigliere
[#OMISSIS#] M. [#OMISSIS#] LA CAVA Consigliere relatore
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] Consigliere
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio in appello in materia di pensioni civili, sul ricorso iscritto al n. 50911/PC del registro di segreteria, proposto da VENOSA Rosa (C.F. VNSRSO51E60C361T), rappresentata e difesa, giusta mandato a margine del ricorso di primo grado, dall’avv. [#OMISSIS#] Allocati e con lo stesso elettivamente domiciliata presso il seguente indirizzo di posta elettronica certificata nerinoallocati@avvocatinapoli.legalmail.it;
avverso
la sentenza n. 985/2015 della Corte dei conti Sezione Giurisdizionale per la Regione Campania, depositata il 4 novembre 2015, non notificata, e nei confronti dell’INPS, quale successore dell’INPDAP ex art. 21, commi 1 e 1bis d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 – in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avv.ti [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], tutti domiciliati in Roma, via [#OMISSIS#] Beccaria, n. 29;
visto l’atto d’appello e gli atti tutti di causa;
uditi, nell’udienza pubblica del 10 gennaio 2017, il relatore, Cons. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] La Cava, l’avv. [#OMISSIS#] Colantoni, per delega orale del difensore dell’appellante, e l’avv. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#], per l’INPS;
ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO
Con la sentenza impugnata la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Campania ha rigettato il ricorso dell’odierna appellante, già dipendente dell’ Università degli Studi di Napoli e inquadrata nella Categoria C, posizione economica C5, Area Socio-sanitaria del personale del comparto Università , collocata a riposo per dimissioni dall’1 gennaio 2010 con diritto a trattamento pensionistico diretto. Il ricorso era volto ad ottenere il riconoscimento del diritto alla riliquidazione della pensione in godimento con l’applicazione della maggiorazione del 18%, prevista dall’art. 43 del DPR n. 1092 del 1973, come novellato dall’art. 15 della legge n. 177/1976, sull’importo corrispondente alla indennità ospedaliera (c.d. “De [#OMISSIS#]”) e, cioè, computando la maggiorazione anche sulla differenza tra lo stipendio tabellare del comparto Sanità e quello del comparto Università di provenienza in quanto facente parte della voce retributiva ex art. 28 CCNL 2002-2005 (già indennità di equiparazione), con conseguente corresponsione in suo favore delle differenze maturate tra quanto corrisposto e quanto dovuto a seguito di detta rideterminazione, dalla data di dimissioni e comprensive degli interessi legali e rivalutazione monetaria.
Il rigetto del Giudice di prime cure si fonda sul presupposto che, con riferimento a tale specifica indennità, il legislatore (art. 1 legge n. 200/1974 e art. 31 d.p.r. n. 761/1979) ne ha disposto espressamente l’irrilevanza a fini pensionistici, nonché per “…l’ulteriore considerazione che, in materia deve guidare l’interprete, secondo cui -come da giurisprudenza [#OMISSIS#], tra tutte Sez. Emilia Romagna n. 1924/2002- la pensionabilità dell’indennità prevista dall’art. 3I del DPR n. 761/1979 non spetta, poiché la maggiorazione è applicabile solo per gli assegni ed indennità espressamente previste dalla legge; ove la legge non disponga diversamente vige il principio generale fissato dagli artt. 43 e 53 del T.U. 29.12.1973 n.1092 della stretta connessione tra il trattamento economico in godimento all’atto della cessazione dal servizio e il trattamento di quiescenza. L’art. 16 della legge n. 177/1976 non comprende tale voce tra quelle espressamente indicate per le quali l’aumento del 18% possa essere effettuato…”.
Con il proposto gravame parte appellante, riproponendo gli stessi motivi di impugnazione già avanzati in primo grado, ha eccepito in sostanza:
– “Erroneità della sentenza, nella parte in cui rimanda ai contenuti dell’art. 1 L. 200/74 e dell’art. 31, 1^ comma D.P.R. 761/79: il tutto in piena violazione della pronuncia della Corte Cosituzionale N. 126/1981”;
– “Erroneità della sentenza, nelle parti in cui individua l’indennità di equiparazione, di cui all’art. 31 DPR 761/79, quale voce aggiuntiva della retribuzione tabellare della ricorrente e non piuttosto quale parte integrante della stessa”.
Secondo l’appellante l’oggetto della presente controversia non è costituito dalla pretesa di inclusione nella base di calcolo del 18% di un elemento retributivo e/o di una indennità non tassativamente prevista dalla normativa previdenziale riportata in rubrica, bensì la sola corretta individuazione dello stipendio tabellare da inserire in detta base di calcolo che è quello del Comparto Sanità e non già quello del CompartoUniversità ; ciò perché all’appellante, in applicazione dell’art. 1 legge n. 200/1974, dell’art. 31 DPR n. 761/1979 e dell’art. 28 CCNL Comparto Università 2002-2005, va riconosciuto lo stipendio tabellare del Comparto Sanità che di fatto viene corrisposto aggiungendo allo stipendio tabellare del Comparto Università della categoria di provenienza una quota aggiuntiva con la voce retributiva ex art. 28, nonché la corretta applicazione di tali disposizioni normative e della disciplina in materia di trattamento pensionistico dei dipendenti civili e militari dello Stato “…e dunque, in applicazione dell’art. 15 L. 177/76, nella base di calcolo del 18%, va inserito, in luogo dello stipendio tabellare del Comparto Università di provenienza, calcolato su 12 mensilità, detratta la I.I.S. Università per 12 mensilità e maggiorato dalla R.I.A. per 12 mensilità, quello del comparto Sanità per 12 mensilità detratta la I.I.S. per 12 mensilità e maggiorata dalla R.I.A. per 12 mensilità”.
Per l’appellante, peraltro, l’assunto della sentenza [#OMISSIS#] quanto pronunciato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 126/1981 per la parte in cui dichiara l’incostituzionalità dell’art. 31, 1^ comma D.P.R. 761 e che ha riconosciuto l’indennità versata ai sensi di detta norma come “componente del complessivo trattamento economico spettante”. In sostanza, avendo il Giudice di primo grado fondato la pronuncia di rigetto su principi normativi dichiarati incostituzionali, quest’ultima va censurata nel senso preteso.
L’appellante, conclusivamente, reiterando per quanto non detto il ricorso introduttivo del giudizio, ha chiesto l’accoglimento del gravame e la riforma dell’impugnata sentenza con il riconoscimento del diritto al calcolo della pensione come dianzi esposto (“…in luogo della misura dello stipendio tabellare del comparto Università , per 12 mensilità, detratta la I.I.S. per dodici mensilità, aggiunta la R.I.A. per 12 mensilità)”, con decorrenza dalla data di dimissioni (1° gennaio 2010) e con la condanna dell’I.N.P.S. alla corresponsione di tutte le differenze maturate e maturande sui ratei di pensione oltre agli interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data di maturazione di ciascuna posta creditoria all’effettivo soddisfo, vittoria di spese, diritti e onorari di giudizio, nonché rimborso spese generali
L’INPS, costituitosi con memoria in data 24 novembre 2016, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del gravame che si assume proposto per motivi di fatto (non ammissibili in appello in materia pensionistica), in quanto l’appellante si sarebbe limitata a reiterare le prospettazioni difensive già ampiamente scrutinate e ritenute infondate dal primo giudice e chiedendone, in sostanza, una diversa valutazione.
In subordine, ha diffusamente argomentato sull’infondatezza del gravame, in quanto, nella fattispecie all’esame, come ben argomentato dal primo giudice, trova legittima applicazione l’art. 43 del DPR n. 1092 del 1973, come novellato dall’art. 15 della legge n. 177/1976. Ha precisato, tra l’altro, che, per la normativa di riferimento, la “base pensionabile” (da maggiorare del 18%) è cosa diversa dalla “base di computo” della pensione (comprensiva anche di altri “assegni pensionabili”, come l’indennità “De [#OMISSIS#]” la quale, pur se considerata pensionabile non è espressamente menzionata dal legislatore ai fini della maggiorazione del 18% di cui trattasi, né rientra tra quelle voci tassativamente elencate.
Infine, l’Amministrazione appellata -per contraddire la prospettazione di parte appellante quanto al fatto che anche dalla sentenza della C. Cost. n. 126 del 1981 si evincerebbe che all’integrazione ospedaliera di cui trattasi si applichi la maggiorazione del 18%- ha rilevato che l’incostituzionalità dell’art. 31 del dpr n. 761/1979 “…è limitata al personale dirigente universitario medico e, non anche, al personale inquadrato nella Categoria C, posizione economica C5, Area Socio-sanitaria del personale del comparto Università – come risultava inquadrata la sig.ra Venosa”. Conclusivamente ha chiesto il rigetto dell’appello e la conferma dell’impugnata sentenza con vittoria di spese eccependo, subordinatamente la prescrizione degli eventuali ratei pensionistici.
Nell’udienza pubblica odierna, i rappresentanti delle parti presenti si sono riportati ai rispettivi atti scritti.
DIRITTO
Oggetto del presente giudizio è l’accertamento del diritto o meno dell’attuale appellante alla rideterminazione del proprio trattamento di pensione in virtù dell’incremento del 18% dell’indennità ospedaliera di cui all’art. 31 del dpr n. 761/1979, c.d. indennità “De [#OMISSIS#]”, ai sensi dell’art. 43 del DPR n. 1092 del 1973 e succ. integrazioni e modifiche.
Sul punto devesi rigettare, preliminarmente l’eccezione di inammissibilità dell’appello prospettata dalla Amministrazione appellata sotto il profilo che si tratterebbe di gravame per motivi di fatto. Ritiene, infatti, il Collegio che la prospettazione dell’odierno appello attiene a motivi di diritto vertendo sulla interpretazione delle disposizioni normative di riferimento e non già a contestazioni sui fatti che sottendono la pretesa e il cui reale accadimento risulta chiaro anche dagli atti.
Nel merito il ricorso è infondato.
Devesi premettere per la fattispecie in esame un excursus sulle norme di riferimento e ricordare che per l’art. 1 della legge 16 maggio 1974, n. 200 (“Disposizioni concernenti il personale non medico degli istituti clinici universitari”), “A decorrere dal 1° marzo 1974 a tutto il personale non medico universitario che presta servizio presso le cliniche e gli istituti universitari di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle università è corrisposta una indennità, con esclusione di qualsiasi onere a carico del bilancio dello Stato, non utile ai fini previdenziali e assistenziali nella misura occorrente per equiparare il trattamento economico complessivo ivi compresi i compensi per lavoro straordinario ma escluse le quote di aggiunta di famiglia, a quello del personale non medico ospedaliero di pari mansioni ed anzianità.
Le somme occorrenti per la corresponsione dell’indennità di cui al precedente comma sono a carico degli enti o istituti e sono erogate con le modalità di cui all’articolo 4 della legge 25 marzo 1971, n. 213.”, norma quest’ultima che disponeva, appunto, sulle modalità di corresponsione di tale equiparazione per il personale medico universitario.
L’art. 31 del dpr 20 dicembre 1979, n. 761 (recante “Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali“) ha, poi, previsto che “Al personale universitario che presta servizio presso i policlinici, le cliniche e gli istituti universitari di ricovero e cura convenzionati con le regioni e con le unità sanitarie locali, anche se gestiti direttamente dalle università , è corrisposta una indennità, non utile ai fini previdenziali e assistenziali, nella misura occorrente per equiparare il relativo trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali di pari funzioni, mansioni e anzianità; analoga integrazione è corrisposta sui compensi per lavoro straordinario e per le altre indennità previste dall’accordo nazionale unico, escluse le quote di aggiunta di famiglia”.
La Corte Costituzionale con la sentenza 10 luglio 1981, n. 126, citata in narrativa ha, per quel che qui rileva, dichiarato tra l’altro l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4 della legge 25 marzo 1971, n. 213, nella parte in cui stabilisce che l’indennità in esso prevista non è utile ai fini assistenziali e previdenziali; b) d’ufficio, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e, negli stessi limiti, l’illegittimità costituzionale dell’art. 31 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761.
Da quanto fin qui esposto e posta la rilevanza ai fini previdenziali da ultimo pronunciata dal Giudice delle Leggi, si evince con chiarezza, in contrasto con la prospettazione dell’appellante, quanto segue:
-la equiparazione operata dal citato art. 31 è riferita al “trattamento economico complessivo” del personale universitario strutturato a quello del personale delle Aziende Ospedaliere e delle ASL, mentre la base pensionabile inserita nella “quota” da maggiorare con il preteso 18% è riferita alla sola “base retributiva”;
-tra gli effetti dei benefici economici dell’indennità di cui all’art. 31 del Dpr n. 761/1979 nessun espresso riferimento è stato previsto dal legislatore ai fini della applicabilità dell’art. 15 della legge n. 177/1976.
Posto, pertanto, che in virtù del disposto di cui al citato art. 31, per il personale universitario, ancorché in servizio presso le locali strutture sanitarie, non viene meno, all’atto della cessazione dal servizio, lo statusgiuridico di dipendenti statali, anche per l’indennità di equiparazione oggetto della pretesa attorea -così come per altre indennità o voci retributive per le quali è oramai acclarata e [#OMISSIS#] la giurisprudenza di questa Corte intervenuta anche in sede di appello- devesi giudicare che la base pensionabile da aumentare del 18% è tassativamente disciplinata dall’art. 43 del DPR n. 1092/1973, come sostituito dall’art. 15 della L. n. 177/1976, il quale recita che la base stessa è costituita solo “dall’ultimo stipendio o dall’ultima paga e dagli assegni pensionabili elencati dalla stessa disposizione” e precisa che “agli stessi fini nessun altro assegno o indennità, anche se pensionabili, possono essere considerati, se la relativa disposizione di legge non ne prevede espressamente la valutazione nella base pensionabile”.
Per cui la base pensionabile è data dallo stipendio o dalla paga e da assegni o indennità tassativamente indicati e va aumentata del 18% ai fini del calcolo della pensione; vanno esclusi da tale base tutti gli assegni o indennità non espressamente previsti.
Giova aggiungere che, comunque, anche nell’eventualità che taluni assegni o indennità siano qualificati dalla legge come “pensionabili”, non ne deriva automaticamente l’inclusione nella “base pensionabile” che va maggiorata del 18%. In sostanza -come correttamente rilevato dall’Amministrazione appellata- la “base pensionabile” (da maggiorare del 18%) è voce pensionistica differente dalla “base di computo” della pensione, comprensiva anche degli altri assegni pensionabili, nel senso che non può desumersi dalla qualificazione dell’assegno come “pensionabile” l’inserimento dello stesso nella “base pensionabile”. Parimenti, premessa l’incontrovertibilità dell’art. 15 della legge n. 177/1976, mancando, per l’indennità di equiparazione all’esame, una specifica disposizione legislativa, la stessa non può essere sottoposta alla maggiorazione del 18%.
Da ultimo necessita anche ribadire -come più volte affermato dalle Sezioni centrali d’Appello di questa Corte- la esclusione della incidenza, in materia, della fonte contrattuale, in quanto le norme di rango primario sono l’unica fonte abilitata ad incidere in materia previdenziale, trattandosi di materia coperta da riserva di legge statale (Cost. art. 117, comma 2, lett. o). La riserva di competenza in favore della legge dello Stato è ribadita dall’esclusione della materia previdenziale tra quelle oggetto di regolazione in via contrattuale, il cui ambito attiene al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali (art. 40 comma 1 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165).
In applicazione dei suesposti principi, va ritenuto infondato anche il motivo proposto con il ricorso introduttivo e reiterato in questa sede di appello consistente nella subordinata prospettazione di illegittimità costituzionale dell’art. 31 dpr n. 761/1979 per disparità di trattamento ex art. 3 Cost..
In disparte, infatti, la genericità della prospettazione ed il fatto che la norma di cui si sospetta l’illegittimità ha già passato il vaglio costituzionale d’ufficio da parte del Giudice delle leggi (Cost. n. 126/1981), nessuna identità di posizioni o di situazioni è stata idoneamente descritta, nè è ragionevolmente rinvenibile dagli atti, tra il comparto di dipendenti ai quali l’appellante appartiene e quello dei dipendenti ASL. In ogni caso nessuna disparità è ravvisabile attesa l’equiparazione di trattamento prevista, dal legislatore, nei limiti della specifica indennità di cui si discute e, dal Giudice delle leggi, con la pronuncia additiva e il riconoscimento della [#OMISSIS#] previdenziale della stessa.
Conclusivamente, premessa la inammissibilità e, comunque, la non manifesta fondatezza della questione di costituzionalità prospettata, l’appello è, pertanto, da respingere perché infondato nel merito.
In ragione della soccombenza, l’appellante è tenuta a risarcire le spese legali sostenute dall’INPS nel presente giudizio, che si liquidano equitativamente nella complessiva somma di euro 1.000,00, (mille/00). Nulla per le spese del giudizio.
P.Q.M.
la Corte Dei Conti – I Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello, definitivamente pronunciando, disattesa l’eccezione di costituzionalità e ogni avversa istanza, eccezione e deduzione:
– RIGETTA l’appello in epigrafe, proposto dalla sig.ra VENOSA Rosa avverso la sentenza n. 985/2015 della Sezione giurisdizionale per la regione Campania, depositata il 4 novembre 2015.
– CONDANNA l’appellante soccombente al pagamento delle spese legali sostenute dall’INPS, che si liquidano equitativamente in euro 1.000,00 (euro MILLE/00). Nulla per le spese del giudizio.
Manda alla Segreteria gli adempimenti conseguenti.
Così deciso, in Roma, nella Camera di consiglio del 10 gennaio 2017.
Depositata in Segreteria il 18.09.2017