N. 00155/2016 REG.PROV.COLL.
N. 00837/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’ Umbria
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 837 del 2014, proposto da:
[#OMISSIS#] Scortecci, rappresentata e difesa dagli avv.ti Donato Antonucci e Giovanni Tarantini, con i quali è elettivamente domiciliata in Perugia, Via XIV Settembre, 69;
contro
Universita’ degli Studi di Perugia, in persona del Rettore pro tempore, rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui uffici è pure legalmente domiciliata in Perugia, Via degli Offici, 14;
per l’annullamento
del D.R. n.1805 del 09.10.2014, trasmesso in pari data con nota racc.a.r. prot.n.2014/0030477, ricevuta il 13.10.2014, con cui il Rettore dell’Università degli Studi di Perugia ha disposto l’annullamento del D.R. n.4171/R del 13.12.2001, con cui, in applicazione dell’art.103, D.P.R. n.382/1980, “sono stati riconosciuti giorni 18 ai fini della progressione di carriera nella qualifìca di ricercatore universitario confermato” e del successivo D.D. n.61 del 02.02.2009, con cui, a modifica del primo decreto, è stata riconosciuta alla Prof.ssa Scortecci, sempre ai sensi dell’art.103, D.P.R. n.382/1980 e per detta qualifica, la complessiva anzianità di servizio di anni 7 mesi, 9 e giorni 12 “per i servizi prestati quale collaboratore tecnico dal 1.1.1990 al 21.3.1993, quale Funzionario Tecnico dal 22.12.1993 all ‘8.8.2000 e quale dipendente di categoria D … dal 9.8.2000 al 21.6.2001”, e con correlata ridefinizione del trattamento economico e recupero “delle somme medio tempore corrisposte”, riferite al periodo di servizio prestato come “collaboratore tecnico” e riduzione dell’anzianità complessiva ad anni 5 e giorni 18; di ogni altro atto presupposto, in particolare della delibera del C.d.A. in data 25.06.2014, richiamata nel D.R. n. 1803/2014 cit.; e di ogni altro atto conseguente o comunque connesso con quello impugnato, ancorché non conosciuto dalla ricorrente; nonché per l’accertamento e la declaratoria dell’assenza del diritto dell’Amministrazione intimata, in ragione dell’attività di ricerca effettivamente svolta dalla ricorrente sin dalla sua assunzione come collaboratore tecnico, a recuperare le suddette somme e ad incidere sul trattamento previdenziale e di fine rapporto del dipendente e quindi per la condanna della medesima Amministrazione alla restituzione delle somme nel frattempo eventualmente trattenute, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, con versamento dei correlati contributi previdenziali; nonché, in subordine ed in via riconvenzionale, per l’accertamento e la declaratoria del diritto della ricorrente a mantenere inalterato il proprio assetto retributivo-previdenziale e di fine rapporto, così come maturato dal 01.01.1990 ad oggi, con conseguente condanna dell’Amministrazione intimata a risarcire il danno cagionatogli con la modifica unilaterale delle condizioni contrattuali.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Universita’ degli Studi di Perugia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 24 giugno 2015 il Cons. [#OMISSIS#] [#OMISSIS#] e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La ricorrente premette di essere professore associato per il settore scientifico-disciplinare L-ANT/08-Archeologia Cristiana e Medievale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia a decorrere dall’1 novembre 2006.
Espone che dall’1 gennaio 1990 ha prestato servizio nel ruolo di collaboratore tecnico (VII q.f.), dal 22 dicembre 1993 come funzionario tecnico (VIII q.f.), e poi come dipendente inquadrato nella categoria “D” dal 9 agosto 2000, sempre svolgendo attività di ricerca.
Aggiunge che con sentenza della Corte costituzionale n. 191 del 6 giugno 2008 è stato dichiarato illegittimo l’art. 103, comma 3, del d.P.R. n. 382 del 1980 nella parte in cui non riconosceva ai ricercatori universitari, all’atto della loro immissione nella fascia di ricercatori confermati, per intero ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza e per due terzi ai fini della carriera, l’attività effettivamente prestata nelle Università in qualità di tecnici laureati con almeno tre anni di ricerca.
Con nota n. 35522 del 22 luglio 2008, il Rettore dell’Università di Perugia ha invitato il personale docente interessato, nominato ricercatore confermato ai sensi della legge n. 4 del 1999, seppure inquadrato in altre qualifiche, a produrre richiesta di riconoscimento ai fini della progressione di carriera nel ruolo di ricercatore confermato del servizio prestato nelle figure che hanno dato il titolo alla partecipazione ai concorsi riservati di cui alla già ricordata legge n. 4 del 1999, e dunque anche nella qualifica di collaboratore tecnico.
La ricorrente ha presentato l’istanza per il riconoscimento del servizio di collaboratore tecnico.
Con decreto dirigenziale n. 61 del 2 febbraio 2009 l’Università ha accolto l’istanza della ricorrente (così come invero di altri ricercatori nella medesima posizione), assegnandola, a fare tempo dal 10 ottobre 2001, alla IV classe di stipendio.
Il provvedimento è stato annullato, a seguito di contraddittorio procedimentale, con il decreto rettorale n. 1805 del 9 ottobre 2014, oggetto del presente gravame, il quale, in forza del mancato riconoscimento del servizio di collaboratore tecnico, ha richiesto altresì la restituzione dell’indebito.
La ricorrente deduce, a sostegno del ricorso, la violazione degli artt. 1, 3, 21-octies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nonché la violazione degli artt. 3, 36 e 97 della Costituzione, degli artt. 56 e 57 del d.lgs. n. 29 del 1993 e dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché il vizio di incompetenza, nonché di eccesso di potere nelle figure sintomatiche dell’erronea rappresentazione di fatto e di diritto, della carenza di istruttoria e di motivazione, della manifesta irragionevolezza ed ingiustizia.
Il provvedimento, che ridefinisce la posizione giuridico-economica della dipendente, era, in ipotesi, di competenza del dirigente della Ripartizione del Personale.
Atteso che il provvedimento è motivato richiamando un sopravvenuto orientamento giurisprudenziale, l’Ateneo avrebbe dovuto attivarsi tempestivamente sin dal 2011 nei confronti di tutti i dipendenti che si trovavano in posizione analoga a quella di altro professore, parte del giudizio conclusosi con la sentenza che ha escluso il riconoscimento del servizio pre-ruolo svolto quale collaboratore tecnico, anziché attendere ulteriori tre anni.
Ne deriva la lesione del principio del buon andamento, in quanto le ragioni di pubblico interesse sarebbero di molto preesistenti al provvedimento oggi gravato, oltre che di quello del legittimo affidamento, ingenerato nella dipendente proprio dal trascorrere del tempo e dalla mancata, tempestiva, adozione di atti di segno contrario.
Peraltro, è di fatto accaduto che l’Ateneo abbia esteso gli effetti del giudicato ad altri dipendenti che non sono stati parte di quel giudizio.
Sussiste inoltre il vizio motivazionale del provvedimento impugnato, che, a fronte della situazione di affidamento ingeneratasi in capo alla ricorrente in forza del provvedimento oggetto di riesame, si è limitato ad affermare, in modo apodittico, la preminenza dell’interesse pubblico, senza effettuare alcuna ponderazione dello stesso con l’interesse privato.
La Consulta, peraltro, facendo generale riferimento ai tecnici laureati, senza distinzione di livello retributivo o qualifica funzionale, ha guardato essenzialmente ad una situazione di fatto, che è quella dell’utilizzazione, come canale di accesso alla carriera universitaria, del personale in possesso del diploma di laurea, assunto in ruolo per lo svolgimento di funzioni tecniche, e destinatario di pubblici concorsi riservati ai sensi dell’art. 1, comma 10, della legge n. 4 del 1999.
In ogni caso, pur se l’attività di ricerca svolta da un collaboratore tecnico volesse ipoteticamente declinarsi in termini di “mansioni superiori”, la dipendente avrebbe comunque diritto al trattamento economico corrispondente, con correlato obbligo per il datore di lavoro del versamento anche di maggiori contributi previdenziali.
E peraltro, una differente interpretazione delle norme, che confermasse la lettura offerta dalla giurisprudenza amministrativa, evidenzierebbe la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 3, del d.P.R. n. 382 del 1980 (avendo a parametro gli artt. 3, 36 e 97 della Costituzione), nella parte in cui non riconosce ai ricercatori universitari, all’atto della loro immissione nella fascia dei ricercatori confermati, per intero ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza e per i 2/3 ai fini della carriera, tutto il periodo di attività di ricerca effettivamente prestata nell’Università quale collaboratore tecnico, assunto con il requisito della laurea e con almeno tre anni di attività di ricerca.
Quanto esposto giustifica anche la proposizione in via subordinata della domanda volta alla declaratoria del diritto della ricorrente a mantenere sostanzialmente inalterato il proprio assetto retributivo-previdenziale e di fine rapporto, con conseguente condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno derivante dalla modifica unilaterale delle condizioni contrattuali effettuata attraverso il decreto rettorale n. 1830 del 2014.
Si è costituita in giudizio l’Università degli Studi di Perugia controdeducendo alle censure avversarie e chiedendone la reiezione.
All’udienza del 24 giugno 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. – Con il decreto in epigrafe n. 1805 del 9 ottobre 2014 il Rettore dell’Università di Perugia:
– ha annullato il provvedimento n. 61 del 2009 con cui sono stati riconosciuti, ai fini della progressione di carriera ex art. 103, d.P.R. n. 382/1980, i servizi prestati dalla ricorrente quale collaboratore tecnico;
– ha riconosciuto alla ricorrente per il servizio prestato anteriormente all’immissione nel ruolo ai sensi dell’art. 103, d.P.R. n. 382/1980 ai fini della progressione di carriera e con effetto dal 22 giugno 2001, data di nomina a ricercatore universitario confermato, unicamente anni 5, e giorni 18;
– ha rideterminato lo stipendio, l’assegno aggiuntivo nonché l’indennità integrativa speciale secondo la progressione giuridico-economica risultante dalla nuova articolazione delle classi e scatti;
– ha demandato all’Ufficio Stipendi l’adeguamento del trattamento economico futuro e all’Ufficio Recupero Crediti la restituzione delle somme indebitamente erogate per il passato, oltre interessi dal giorno della notifica.
2. – Nel provvedimento è fatto riferimento alla delibera del 25 giugno 2014 con la quale il Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo ha preso atto della sentenza del Consiglio di Stato n. 1776/2014 e ha, conseguentemente, autorizzato il Rettore ad avviare il riesame dei provvedimenti di riconoscimento ai sensi dell’art. 103, D.P.R. n. 382/1980 del servizio pre-ruolo prestato in qualità di “collaboratore tecnico” per la ricostruzione della carriera in favore dei dipendenti con la qualifica di ricercatore universitario confermato.
3. – Va preliminarmente esaminata la doglianza di incompetenza del Rettore, stante il carattere prioritario ed assorbente della medesima (Consiglio di Stato Adunanza Plenaria 27 aprile 2015, n. 5).
E’ indubbio come l’atto impugnato, quale esercizio di autotutela con funzione di riesame (ai sensi dell’art. 21-nonies della legge 241 del 90) nei confronti di atti dirigenziali in materia di trattamento economico del personale, rientri nel novero delle competenze dirigenziali, ai sensi sia del d.lgs. n. 165 del 2001 che dello stesso Statuto dell’Ateneo (artt. 10 e 50).
In aggiunta alla sottoscrizione da parte del Rettore del 10 ottobre 2014 l’atto risulta peraltro contestualmente firmato dal Direttore Generale, dal Responsabile d’Area e dal Responsabile dell’Ufficio.
Trattasi, ad avviso del Collegio, di circostanza determinante ai fini dell’escludere la violazione del principio – di rilievo costituzionale (Corte Costituzionale sent. 3 maggio 2013 n. 81) – di separazione tra attività gestionale e di indirizzo politico.
Infatti, benché parte della giurisprudenza opini nel senso della illegittimità (per violazione del principio di tipicità) degli atti gestionali a firma congiunta (T.A.R. Lazio, Latina, 29 luglio 2014, n. 667), ritiene il Collegio che la sottoscrizione contestuale da parte del dirigente nell’ottica del principio oramai fondamentale di “strumentalità delle forme” (ex multis T.A.R. Sardegna, Sez. I, 19 settembre 2014, n. 725) e di “utile per inutile non vitiatur” (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 4 novembre 2015, n. 5107) garantisca appieno il rispetto delle attribuzioni dirigenziali, specie laddove non risulti alcun elemento in base al quale si possa anche solo ipotizzare contraddittorietà di valutazioni o di posizioni (T.A.R. Liguria, Sez. I, 5 febbraio 2014, n. 186).
E comunque, aggiuntivamente, può osservarsi che, secondo una parte della giurisprudenza, il vizio di incompetenza che affligge un provvedimento amministrativo, soprattutto quando si contesta che la competenza appartiene ad un organo diverso dello stesso ente, è un mero vizio procedimentale (T.A.R. Toscana, Sez. III, 17 settembre 2013, n. 1263), come tale sanabile, avendo l’Università resistente fornito prova, secondo quanto emergerà dalla esposizione seguente, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge 241 del 1990, della impossibilità di adottare una decisione diversa ovvero della non incidenza del vizio di incompetenza sul contenuto dispositivo del provvedimento (la giurisprudenza ha sottolineato, al riguardo, come l’art. 21-octies abbia una propria vis expansiva che lo rende applicabile a qualsiasi vizio puramente formale, dato che l’acclarata necessaria reiterazione del provvedimento, da parte dell’organo in ipotesi competente, dimostra che la censura, quand’anche fondata, non è sorretta da un concreto interesse : T.A.R. Campania, Salerno, Sez. II, 21 maggio 2013, n. 1132).
4. – Quanto alla doglianza attinente alla fondatezza della pretesa azionata, osserva il Collegio quanto segue.
Con la citata sentenza n. 1776/2014 del Consiglio di Stato ha trovato conferma la decisione n. 340/2012 di questo Tribunale Amministrativo che aveva riconosciuto a fini giuridici e di carriera l’anzianità pari a due terzi del periodo di ricercatore universitario con esclusione dell’attività prestata in qualità di collaboratore tecnico; all’Amministrazione era preclusa la valutazione del servizio effettivamente prestato dalla ricorrente con la qualifica di collaboratore tecnico di VII livello.
E’ stata perciò ritenuta corretta l’autotutela nei confronti del riconoscimento alla ricorrente dell’anzianità di servizio maturata nel periodo anteriore all’immissione nel ruolo di ricercatore universitario confermato, in applicazione dell’art. 103, comma 3, d.P.R. n. 382/1980, come interpretato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 191/2008.
Al proposito, la giurisprudenza ha precisato che le funzioni dei tecnici laureati (di ausilio ai docenti e di gestione dei laboratori) sono diverse da quelle dei ricercatori e ha più volte affermato, anche in epoca recente, che, nonostante una certa assimilazione dei rispettivi compiti, rimane l’essenziale differenziazione tra le due categorie (ordinanze n. 160 del 2003 e nn. 262 e 94 del 2002 della Corte costituzionale), e che la previsione di un meccanismo di transito agevolato da un ruolo all’altro, come il concorso riservato, non è di per sé sufficiente a colmare queste differenze.
Secondo la sentenza n. 1776/2014 del Consiglio di Stato, l’omogeneità dei compiti di ricerca costituisce la ratio della continuità tra i servizi (e la conseguente parità di trattamento economico) del funzionario tecnico e del ricercatore: è con ciò confermata la sostanziale non equiparabilità tra le figure del collaboratore, anche laureato, e del funzionario, pur accomunate dall’appartenenza al ruolo tecnico, rimanendo distinte le caratteristiche dei compiti propri di ciascuna di esse, con specifico riguardo al campo della ricerca.
Anche se la figura del funzionario tecnico ha sostituito quella del tecnico laureato nell’ordinamento previgente alla legge n. 312 del 1980 ed anche se il riconoscimento dei relativi servizi deriva dal diritto attribuito ai tecnici laureati dall’art. 103 d.P.R. n. 382 del 1980 nel testo risultante dalla più volte citata sentenza della Corte Costituzionale, non altrettanto può dirsi per la figura professionale del collaboratore tecnico, per la quale il d.P.C.M. 24 settembre 1981 prevede la settima qualifica.
4.1. – Del resto, appare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103 del d.P.R. n. 382 del 1980 prospettata da parte ricorrente per asserito contrasto con gli artt. 3, 36 e 97 della Costituzione, dovendosi escludere l’identità di funzioni tra funzionario e collaboratore tecnico, benché entrambe le figure siano state ammesse a partecipare ai concorsi riservati; è infatti pacifico che soltanto il legislatore, con una scelta caratterizzata da tratti discrezionali insindacabili (salvo che in ipotesi di manifesta irragionevolezza) può ascrivere un servizio precedentemente prestato da un dipendente nel novero di quelli rilevanti, ai fini della progressione del nuovo ruolo successivamente assunto, ovvero ai fini del trattamento previdenziale o di quiescenza. E, alla stregua di quanto già esposto, ritiene il Collegio che nella fattispecie in esame la mancata iscrizione del servizio di collaboratore tecnico nel disposto dell’art. 103 del d.P.R. n. 382 del 19890 (anche dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 191 del 2008) non denota detta manifesta irragionevolezza.
4.2. – Analogamente al Giudice d’appello, si osserva come le mansioni effettivamente svolte dalla ricorrente nella veste di collaboratore tecnico, attinenti, in tesi, a compiti propri della figura professionale del funzionario tecnico laureato, da un lato confermano l’autonomia delle due figure professionali, dall’altro sono ininfluenti ad una diversa conclusione, configurando una ipotesi di svolgimento di mansioni superiori che, nel settore del pubblico impiego, non può condurre a conseguenze contrarie al formale inquadramento.
5. – Dall’insieme delle suesposte considerazioni, emerge che il decreto rettorale in esame risulta immune da censure nella parte relativa al disconoscimento, ai fini della progressione di carriera ex art. 103, d.P.R. n. 382/1980, dei servizi prestati dalla ricorrente quale collaboratore tecnico.
6. – Se è perciò legittima la rideterminazione della progressione giuridico-economica in base alla nuova articolazione delle classi stipendiali in relazione al trattamento economico con una diversa (e minore) anzianità di servizio, diverse conclusioni devono essere raggiunte con riferimento al recupero delle somme sino ad allora spontaneamente erogate benché indebite.
Come già evidenziato, con la nota prot. n. 35522 del 22 settembre 2008 a firma del Rettore, il personale docente nominato ricercatore confermato ai sensi della L. 4/199, seppure attualmente inquadrato in diversa qualifica, è stato invitato a produrre richiesta di riconoscimento, ai fini della progressione di carriera nel ruolo di ricercatore confermato, del servizio prestato nelle figure che hanno dato titolo alla partecipazione ai concorsi riservati di cui alla citata legge n. 4/1999 (tecnico laureato, funzionario tecnico, collaboratore tecnico, EP).
Successivamente alla suddetta nota, ove era tra l’altro precisato che “detto riconoscimento verrà operato nella misura e nei limiti di cui all’art. 103 del d.P.R. 382/1980 vale a dire rispettivamente per due terzi e per un massimo di otto anni”, l’Amministrazione ha avviato una complessa procedura partecipata con gli interessati culminata nell’adeguamento stipendiale oltre che contributivo, dal quale la ricorrente ha tratto una legittima aspettativa consistente nel mantenimento di un corrispondente tenore di vita durante l’occupazione lavorativa.
Non ignora certo il Collegio l’orientamento giurisprudenziale che in materia di annullamento d’ufficio di provvedimenti che comportano illegittimo esborso di denaro pubblico, individua l’interesse pubblico “in re ipsa” senza dunque rilievo al decorso del tempo e alla comparazione con il contrapposto interesse privato (ex multis T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 8 gennaio 2015, n. 140; T.A.R. Basilicata 10 luglio 2015, n. 426; Consiglio di Stato, Sez. III, 11 novembre 2014, n. 5539) rilevando la buona fede del percipiente solo al fine delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle esigenze di vita della dipendente (in termini, recentemente, T.A.R. Lazio, Sez. III, 10 marzo 2015, n. 3934; Cons. Stato, Sez. V, 4 novembre 2014, n. 5435).
Non di meno, posto che l’art. 21-nonies della legge 241 del 1990, sin dal testo originario introdotto con legge 11 febbraio 2005 n. 15, non fa alcun cenno ad un potere di riesame scisso dal decorso del tempo e dalla comparazione con gli interessi antagonistici al ripristino della legalità, va evidenziato che, all’opposto, si registra da ultimo la decisa volontà da parte del legislatore (vedi d.l. 12 settembre 2014 n. 133 convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014 n. 164) di apporre un rigido sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, fissato in diciotto mesi “dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625).
Giova evidenziare nel particolare caso di specie, oltre l’ampiezza del tempo trascorso (oltre cinque anni) – di per sé ben superiore sia al suddetto parametro di diciotto mesi sia alla stessa “ragionevolezza” nel termine per l’esercizio del potere di annullamento in riferimento ad atti non riconducibili alle “autorizzazioni o attribuzione di vantaggi economici” – la rilevanza dell’affidamento, del tutto incolpevole, della ricorrente, ingenerato proprio dal comportamento serbato da parte della stessa Università, che ha sollecitato unilateralmente il personale interessato alla presentazione dell’istanza per il riconoscimento del servizio pre-ruolo.
In tale contesto ritiene il Collegio che l’Università, nella veste di parte datoriale, non possa esimersi dall’”indennizzare” la ricorrente nella misura pari agli arretrati maturati in iure ma pagati e percepiti legittimamente.
7. – Alla stregua di quanto premesso, ritiene il Collegio che l’Università di Perugia, ferma restando la legittimità del disposto annullamento, avrebbe dovuto escluderne l’effetto retroattivo, e. conseguentemente, il preannunciato recupero delle somme già erogate, percepite in buona fede e destinate a soddisfare bisogni essenziali.
Va d’altronde evidenziato come quantomeno in seno all’ordinamento comunitario non sia precluso all’Amministrazione di modulare gli effetti del provvedimento di ritiro, laddove la delimitazione della decorrenza ex nunc costituisca il mezzo indispensabile per coniugare il ripristino della legalità con il principio di derivazione comunitaria del legittimo affidamento.
La giurisprudenza, in fattispecie analoghe, non ha mancato di evidenziare come a seguito dell’annullamento del provvedimento, il recupero delle somme erroneamente corrisposte non ne costituisca conseguenza automatica, essendo anzi detto recupero illegittimo laddove l’Amministrazione abbia ingenerato nei propri dipendenti la ragionevole convinzione di avere diritto a determinati emolumenti e questi siano stati percepiti e consumati in buona fede per le normali esigenze di vita (Consiglio di Stato, Sez. V, 13 luglio 2006, n. 4413).
Del resto, anche in ipotesi di revoca di atti ad efficacia durevole incidente su rapporti negoziali (art. 21-quinquies) – pur nella diversità dei presupposti tipici – il legislatore prevede il diritto all’indennizzo del danno emergente, a ristoro dell’affidamento della parte privata che in buona fede confidava nell’esecuzione del contratto (Consiglio di Stato, Sez. IV, 14 gennaio 2013, n. 156; Sez. III, 16 ottobre 2012, n. 5282).
D’altronde, la regola della necessaria retroattività degli effetti vizianti risulta oggi rimeditata quanto all’annullamento giurisdizionale da parte del g.a., laddove anche sulla scia del diritto comunitario, si è affermata la possibilità per il giudice di modularne gli effetti a seconda delle circostanze e comunque “dell’interesse posto a base dell’impugnazione” (Consiglio di Stato, Sez VI, 10 maggio 2011 n. 2755) in coerenza con il principio della “pienezza ed effettività della tutela” elevato a principio generale dal vigente codice del processo amministrativo.
8. – Sotto questo profilo, la domanda di annullamento deve conclusivamente essere accolta, pur se nei suddetti limiti, né si pone un’esigenza di condanna dell’Università alla restituzione degli importi sottratti alla ricorrente, atteso che non si evince dalla documentazione versata in atti che sia stato disposto il recupero da parte dell’Ateneo, e neppure quantificato l’importo.
Al contrario, discende da quanto precede l’infondatezza della domanda della ricorrente di condanna dell’Amministrazione al mantenimento, a regime, del proprio assetto retributivo, previdenziale e di fine rapporto.
Sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese di lite, attesa l’obiettiva complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei limiti di cui in motivazione.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Perugia nelle camere di consiglio dei giorni 24 giugno 2015, 4 novembre 2015, con l’intervento dei magistrati:
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Presidente
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Consigliere, Estensore
[#OMISSIS#] [#OMISSIS#], Primo Referendario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 23/02/2016
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)